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Senz’alfabeto la poesia d’un secolo

L’intensificarsi dell’essenziale, in questi versi di Anna Maria Guidi, disegna il rapporto con un reale ipercosciente e piuttosto orgasmico. Lo spazio condiviso è decisamente intriso di molteplicità nel sapore delle iperboli, tra radici sconvolte dal fondo su solerte rapidità, icone trafitte da una lingua a innesti puri e forbiti che riflettono sulla quotidianità lo spirito di un possibile tempo audace.

E’ al centro di una comunicatività inventata proprio su esili deragliamenti e –di tanto in tanto- persino a “trama rosicata”: assidua prova della sua esperienza rifondata al sogno creativo: come il refe le sinecchie della cruna / così agucchiando penetro / di fitto sopraggitto / il càmice di forza / ove s’aggriccia e avvizza la trama rosicata / dal tarlo bulimico dei giorni / che rammendo e commetto / allo sbrego del cielo dipanato (pp.51). Dal nucleo ovvio dell’espressività abituale, il poeta fa tabula rasa della normale semplicità e srotola con disinvoltura (ricordo quell’ In transito del 2005 il cui tragitto si evolveva in una specie di duttile scrittura a tracce etrusche che diventava contenuto proprio secondo assenze di termini del “poetese” nazionale e –più che lineare- a ispirazione iconica particolarmente magmatica e a rarefatte tinte epigrammatiche). Così, i voli non immoti, solfeggio d’ali, sogni-pensieri, fiocchi senza nodi, mendaci appartenenze, voluttà d’inconsistenze, ecc. sono il riavvio che conduce tutto in una omologante atmosfera e di potenziale suggestione neologistica.

L’ellitticità della parola tuttavia si è fatta interrogativa e doppia, uscita “goccia a goccia” dalle consuete misure e su una versatilità a metafore eccezionali, una gnosis dissolvente, influenzata da una fisiologia esemplare, esplicita, non priva di rischi per qualsiasi lettore, la cui struttura del lessico resta per sempre il dono più spoglio e nudo, anzi confuso con un parlar franco e debole (secondo gli stimoli dell’uso regolare) anch’esso colto nell’alveo di enfatizzazioni liricistiche risapute. Quindi, continuamente la mente di ognuno che si accosta alla medesima poetica scopre sorprese a libera negatività, senza poter riconoscere le intrinseche ragioni di questa finta libertà che invece è isolato e puro interrogarsi umanizzante del pensiero: sfinita sfranisce la neve di marzo / in (t) orme di passi brillando / il vergine lucore del silenzio: // ove bisbiglia e abbaglia / il primo vèr del ver(b)o / deflorato in vane valanghe di parole (pp.77). Le energie foniche rileggono il tempo che ci attraversa, le sordità aspettano sulla pietra i suoni straziati; i movimenti ulteriori hanno una ricerca forse alquanto roca, ma non superficialmente ermetica, e tanto meno spinta da fati dada a una riconoscibile forma di modalità di eventi o di colorati idilli, onde edificare un diverso aspetto dell’epigrafico raccontarsi in versi. L’enigmatica vita di tutti, soprattutto nel clima degli attuali sfaceli storici ed etici sine fine, affronta un crespo e polisemico gioco di miraggi e inventa il suo sensibile percorso.

E c’è inoltre quel genere di barocco simbolico che affronta un espressionismo residuo nella sua architettura: necessaria sfida alle vibrazioni stanche di tanta poesia presente che accarezza (in evanescente stile) le tentazioni del dire melodico, impresso senza ribellione o tentazioni fragorose e privo di istanze immediate. La fatica è tanta e richiede solerte assiduità, mentre bisbiglia corrispondente a quel tanto d’ineffabile che alla poesia resta perché costellazione di una sintesi di gesti, guizzi, penetrazioni verbali aperte. Con una tesa intimità provocatoria il verso torna instabile, non angusto o assiomatico per le verità e assolve e –in ogni caso- teorizza un contesto di temi impressi per sognare quella continuità che la luce estrema si aspetta. La scelta capisce meglio se stessa e la struttura adeguata alla soluzione individuale è impegnativa e non “fielemiele” o sciolta come “seme flebile d’eterno”, che sembra si artigli complice l’emozione tormentata.

Intanto i suoi inediti accessori la rendono visiva e tellurica, perché si mostri veemente e non cadaverica e più consone alla contemporaneità che enumera suoi errori, in quanto un’isolata inerzia l’appassisce. Indubbiamente la poesia non tramonta, anzi si inscrive nel senso di tutti, malgrado l’io scovi i propri canoni anche per farla fisicità di comodo e lieve. Ma la surrealtà stessa non basta per spostare più in là i suoi infiniti e sconosciuti ludi. Le cellule ustionate sono qui quelle che più contano, senz’altro poiché deduttive e condensate come esito delle medesime forme in qualche modo stizzose, in più aspetti tramandanti un’inquieta specie di illuminazioni, derivate da una questione della bellezza che concede a chiunque una vicenda scoscesa e concreta. In essa la volontà l’assolve non come calco del sogno individuale, ma come adesione a tutto ciò che potrebbe persino sfuggire all’effimero che la poesia (come la terracotta) spesso si enuncia labile o latente, sostanzialmente perché dolorosa, e la storia non addiziona per essa alcun indubbio credito, qualunque siano la parola ignota o l’interna allusività.

Recensione
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