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L'origine, la memoria, l'altra caducità

Un'antologia di versi, così feconda di scelte e di dignità, non sovraccarica di se stessa, e tanto meno dell'autore in cerca di sé e delle origini a cui appartiene, detta tela di parole, potrebbe offrire – a chi legge – l'idea costruttivistica e concreta di considerarla, a scatola chiusa, una proposta di poesia visuale, il cui intento emozionale dovrebbe adattarsi alla sperimentalità, secondo il versante opposto alla vicenda di una creazione visiva anziché liricistica.

Giovanni Chiellino, indubbiamente, non cerca lo spettacolo sulla limpidità che promuove, o ciò che in essa si attorciglia e diventa provocatorio alla topografia della pagina. E infatti, la sua "tela" è di tutto punto modellatrice di una linearità carismatica insospettabile, percorre la via del verso confidenziale, cresciuto nel senso (e nella non dissipazione) del pudore tradizionale, novecentesco, in una musicalità non ellittica ed estesa o posta e imposta a verso lungo e deviato.

Qui, l'elaborazione emozionale si nutre di "canto" sotteso, riflessivo, assiduamente vitale, nella dimensione di una scrittura precisa, non sovrapposta o a complessività magmatica, somaticamente lieve, in una necessità fluente, di un'immediatezza ineffabile, non increspata da concettualítà predisposte e/o spocchiose. Pertanto l'inesauribilità evidenzia soprattutto valenze e mobilità attuali, sofferenti ma prive di difficoltà interpretative. Direi che il poeta, nel suo itinerario sommesso, diviene colui che fonda l'arabesco corrente del proprio stile, il ricordo e la voce del sentimento, determinati dalla storia, della sua origine mediterranea; in un' intelligenza forbita e non smunta, o scovata in tralice, sghemba, si svolgono la vita e la scommessa della speranza di un io generoso, insieme a un umore umano di effusiva grazia e sensibilità.

Chieliino ha quindi, come immediata ascesi, l'insinuante morbidità della fiaba, che si racconta ansiosa e serena, turbata e immersa nel , che ingigantisce le intuizioni, la stessa dinamica del discorso individuale e immaginario. I propositi di ridiventare complice dei propri idilli, sono quasi ripresi per rendere struggenti alcuni clamori della naturalità, per continuare a farsi influenzare dalle essenze dell'inizio e quando non riescono a farsi irritabili coloro i quali continuano a progettare il disastro del futuro. E' un fluido restare con le cose, le ombre, i sogni che giocano con noi, mentre si tratta di vincere estremi o improvvisi assalti all'odissea di trame gestite su valori autonomi nella contemporaneità.

Questo genere di "tela", sulla cui superficie non si sono ancora compiuti il fervore e il dilemma della fine (si tratta, infatti, di un'opera qui soltanto trascritta in parte e da ultimare), ospita i temi bene amati da sempre, e sempre appagati dalle medesime novità sintagmatiche, da mutuazioni d'epoca in fatto di paesaggio e di passaggio delle "parole" alla storia, essa, mai roca, è piuttosto descritta, incatenata all'armonia esecutiva, alle frequentazioni di pause che elaborano una ritmicità automatica, non incerta o colta da sorprese roboanti, in sintonia con le ribellioni del nuovo secolo e di alcune sue mutazioni.

L'ordine passionale è pedagogico, l'anima si curva là dove è utile una tessitura religiosa, intrecciata alla conferma della sublimità e all'immagine di un itinerario socio-spirituale che gli si appropria come limpidità di senso del mondo, e ne conferma lo spontaneo splendore, o lascia tenace la disquisizione. Nel contesto elettivo della forma, i contenuti zampillano tersi "e si gonfiano di eterno e di memoria", piuttosto che di pallore e di sofferenza neo-crepuscolare.

Un'intima esigenza diaristica, intrisa di uscite Pascoli-Betocchi e, qua e là, di antiche sortite a veste magnogreca, con amore per la vita e le cose che gli fanno dimenticare quell'attento ricorso all'interrogazione dell'epica moderna di Luciano Roncoli o la vivace e rugosa complessità di Cesare Tuffato, e l'enigmatica e cifrata lucidità di Antonio Spagnolo, per sempio; anche loro medici in vena di progettare se stessi come scienziati, amanti di un lavoro professionale, misto a quello di tutt’intera la loro biografia, stretta alla fibra e allo specchio di ogni sé dolente e non privo di nitore.

Il conforto della semplicità e del vivere sereno, consente a Giovanni Chiellino un meno familiare rapporto con il movente poetico che lo espone e – questo – non credo lo renda infelice, né è figura unica in tale genere di esibizione, che segna la propria presenza nella realtà che lo manifesta.

La medesima colloquialità" ha una derivazione di tipo metafisico, un'indulgenza spontanea; in fondo elogia la privacy, decolonizza l'affaire libresco e il principio di differenza sugli altri poeti dei nostri anni. Il suo viaggio si svolge in un clima di esilio, non si fa leggere traumatico o decomposto; il diritto alla parola è praticato per incontrare il tempo che gli è dovuto in misura evocativa, anzi temendo " la scienza mi distrae | pronuncia decomposto; il diritto alla parola è praticato per incontrare il tempo che gli è dovuto in misura evocativa, anzi temendo " la scienza mi distrae | pronuncia sentenze | dritte come frecce | alza barriere all'occhio | della mia pazzia | che salta gli ostacoli | cade nel vortice di un volo | di angeli festanti e demoni | in collera con Dio" (p.565: Vento).

Questa illuminazione (come innumerevoli altre nel tomo folto, dovuto alla nuova Collana di Autori Moderni (Cam), a cura di Sandro Gros–Pietro: editore e fondatore fervido della stessa) consegna ai lettori di poesia d'oggi situazioni ispiratine e linguistiche di notevole fascinazione, e quasi scoperte che nessuno può negare, di nomi degni dell'impresa e di non esigua esperienza pubblicistica.

Nell'analogo solco (Genesi, Torino)i recuperi di testi persi in sillogi introvabili, segnano una svolta, non soltanto nell'operazione della scrittura di un "poeta", ma in quella editoriale tout-court, il cui uso (o riuso) impiega il meglio di ogni autore antologizzato ad impellente fisionomia.

Il caso di Giovanni Chiellíno è anch'esso singolare per la coerenza, la duttilità, la visione delle metamorfosi, coniugate all'esperienza che insorge con una materia preziosa, per più fili e profili di specificazione poetica. Essa è inseguita da più evidenze (mai naufraghe), sembianze icastiche e spoglie, fiamme mobili, in più versanti raffinate, conciliabili con una coerenza cospicua, in un itinerario che somiglia molto al suo poeta (senza utopie, né banali pronunce).

La tela della parole legge, quindi, la vita e l'attraversa come una rivolta febbrile e devota, istituendo un libero ed equilibrato territorio di segni suasivamente felice, in un rapporto espositivo a commossa ut pictura poiesis, e maniera in qualche modo doviziosa dello spirito puro: Cantano i mietitori | e il canto si diffonde | per archi di colori, | per onde di vapori | sulla coppa del mondo (da"Mattino con i mietitori", p.296).Qui, il lettore rintraccia un genere di melodia proto novecentesca, in una nostalgia meridionale: più slancio di levità che affaticato leit-motiv evocativo o lento e non privo di liricistico conforto.

Ma gli effetti sognanti, rarefatti, le linfe moltiplicate, che dal poemetto si portano fino ai tersi e inconsumabili haiku, spiegano un autore dal verso vivido che – tra l'altro – rivela (o ripropone?) un pensamiento lirico, tradotto ovunque in verso scolpito e di leggerissima struttura, su consapevole rarefazione (sensu: Giacometti), e puntualmente su immagine distinta e lontana.

In altri stupori (e non divergenze di affiato) l'opera antologica si coglie tra i balenii di una storia privata, e in una filologia in cui la metafora spinge esiti e tempi di quasi solenne condivisione, e ad effetto preciso e dolente e di vortici poco fantastici coniugati a ribellione innaturale, in cui l'effimero brucia più istanze ed evita possibili distrazioni della materia in causa.

Recensione
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