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Critica e storia. Rendiconti per il Duemila

Raccogliendo alcuni saggi, che concorrono ad integrare con pochi ritocchi la materia in precedenza elaborata, e però sviluppando la linea della verifica analitica in proiezione degli anni a venire (ha valore di destinazione, ed è messaggera di una dedica augurale, la preposizione del sottotitolo), Critica e storia. Rendiconti per il Duemila, Fermenti 2016, arricchisce con uno schema di bilancio previsionale il consuntivo pubblicato allo scadere del secolo scorso, che aveva nome, infatti, Critica e storia. Rendiconti di fine millennio.

Resta sostanzialmente immutata la parte iniziale del libro, dove, intorno alle teorie e alle scelte di metodo di De Sanctis, di Croce e di Gramsci si intrecciano quelle relazioni, e si compongono quei nessi dialettici, e si determinano quegli snodi, dai quali scaturiranno le tendenze di critica letteraria che dialogheranno e confliggeranno, e in più di un’occasione non mancheranno di sovrapporsi o di interagire, nell’immediato secondo dopoguerra. Il panorama, in forza di alcune piccole giunte, è disegnato da Nino Borsellino, in questa sua recentissima riproposta, con ancora maggiore nettezza; e, mentre la ricostruzione si segnala per la sua fedeltà e per la sua puntualità, risulta ancora più chiaro quale fascio di idee motivi l’autore.

Persuaso dalla grande lezione di De Sanctis, che è stato uno strenuo sperimentatore di forme e di obiettivi della critica letteraria e che, nella prospettiva grandangolare della ricerca, si è confrontato da pioniere con la questione del realismo, confortato da una grande apertura filosofica e culturale (e ciò non solo nella selezione di autori e di temi specifici di analisi, quale in ultimo egli ha operato), Borsellino torna a sottolineare la presenza della letteratura, e delle interpretazioni che di essa si compiono, nella storia (e vale allo stesso titolo, obbligatoriamente, il reciproco). La critica è dunque un processo caratterizzato, per una quota-parte tutt’affatto determinante, dal rinvenimento della storicità del testo letterario, intesa quale rapporto “inscindibile”, a suo modo regolato, con la “vita”: la parola, è scritto nella premessa del volume, vi si dà come “atto individuale” che si immette nel “divenire” e si fa “essa stessa storia”. Che è quanto a mano a mano affiora e si dichiara alla coscienza dell’autore, candidandosi nel mentre a prerequisito necessario dell’esercizio critico; ed è la ragione per la quale la storicità della letteratura comporta che della letteratura si possa e si debba fare storia (e De Sanctis è ancora chi ha tracciato con grande coerenza la strada, progettando e realizzando il suo grande affresco-racconto della cultura scritta della nazione, in tale maniera da metterne in esponente un tratto identitario), così come si può e si deve fare storia della critica, il cui lavoro è da pensare quale scambio attivo, e improrogabile, e inevitabile, ovvero quale concorso simbiotico con le opere (e questo libro di Borsellino è pure, sul filo degli studi più corposi che vi sono collazionati e che ne costituiscono lo scheletro, una storia unitaria della critica, con finalità didattiche ben profilate); ed è infine, per ciò stesso, una giustificazione inappuntabile della responsabilità dell’interprete, dell’impegno che gli si confà a sistemare in quadri organici la realtà dei testi, a ripercorrere storicamente e a storicamente rifunzionalizzare, attraverso l’escussione e l’aggiornamento d’esame della tradizione letteraria, i contesti già considerati. Senza dimenticare che, proprio per quanto appena osservato, è pressoché naturale giungere a sentirsi partecipi di una avventura condivisa e a ritrovarsi insieme in una sorta di comunità in dialogo: per tanto Borsellino correda il suo libro di alcuni omaggi, anche di tono amicale, a studiosi incontrati nel suo percorso di insegnamento universitario.

Quella della critica, come prassi transazionale, è un’attività che non ha traguardi definitivi ed è distinta da marche sue proprie di politicità; politicamente essa gestisce il nodo nevralgico, ininterrottamente pulsante, della interazione di letteratura, cultura e storia.

Al termine di una rassegna insieme documentata, chiara e di spiccata utilità, nella quale in sintesi sono compulsati, del secondo Novecento, metodi e proposizioni di analisi della letteratura e sono attraversate le stagioni intitolate l’una allo strutturalismo, l’altra ad un orientamento ideologico-culturale riferibile al post-strutturalismo, che conobbe varie forme di estrinsecazione, Borsellino si affaccia sul secolo cominciato da un quindicennio e formula le sue previsioni, in un capitolo conclusivo che innova, riportando all’attualità e potenziando, la prima edizione del libro. Sono previsioni che traggono spunto da alcuni movimenti in atto nel discorso complessivo della teoria e della critica letteraria oggi, ma che pure ribadiscono la tendenza che è propria dell’autore, sostenuta e difesa in tanti anni di attività intellettuale; sono al tempo stesso un auspicio, un messaggio di responsabilità e di impegno consegnato al lettore.

A questo riguardo, compiuta una anamnesi circostanziata, la diagnosi stilata è chiarissima: è giunto al tramonto, non solo per ragioni di calendario, il Novecento, il secolo che si è detto della critica. E la crisi della critica, o meglio la sua scomparsa dall’orizzonte, non è cosa da prendersi a cuor leggero: è giusto sul pensiero critico e sulla capacità di interpretare, di comparare, di organizzare e di valutare i simboli e i segnali che vengono emessi e ci si portano incontro: è su questo salutare, formativo esercizio, infatti, che si costruisce la ricchezza della cultura, si misura la democrazia di un popolo.

La crisi della critica, nella fumosità e nella debolezza delle teorie della letteratura attualmente professate, ha un suo sintomo macroscopico, che autorizza la diagnosi sopra refertata. Abiurata la scientificità della analisi testuale, ricusata la nozione di letterarietà quale comparto definito, accantonato ogni presupposto diacronico e accostato il testo nella sua singolarità autoreferenziale, è la voga ermeneutica, spinta fino agli estremi del decostruzionismo, a riassumere esplicitamente le tendenze egemoni, e le malversazioni in esse riscontrabili, così da offrire le indicazioni necessarie. Che il soggetto interpretante risulti preordinato all’oggetto in osservazione, al punto che quest’ultimo è poco più che un pretesto o lo starter di un percorso digressivo assolutamente libero, compiuto in regime di totale deregulation, e che del testo non si sia tenuti a chiamare a rapporto proprietà peculiari – linguaggio, semantica e motivazioni ideologiche e culturali –, suona conferma che la critica viene ridotta ad atto gratuito, perennemente revocabile, in sostanza inesistente e che la letteratura, frattanto, risulta deprivata di ogni carattere che la distingua e ne valorizzi le proprietà, che ne certifichi lo statuto.

Tutto ciò è quanto si staglia in primo piano sulla scena letteraria contemporanea e non sembra lasciar campo a prognosi fauste. Borsellino, tuttavia, si comporta, per dirla con un celebre finale di Calvino, come chi coglie nell’inferno ciò che non è inferno e cerca di farlo durare. Il consolidarsi, soprattutto in ambito accademico, degli studi filologici, posti alla base di molti insegnamenti di letteratura italiana, gli sembra, infatti, che segni una tendenza, che virtuosamente fa argine e resiste, a restituire al testo la sua centralità, la sua cogenza; l’ampliarsi della rete della critica tematica, nelle sue diverse diramazioni, lo spinge a ritenere che così siano fatti rinvenire i connotati relazionale, interculturale e storico della letteratura, in riferimento alla costruttiva vitalità necessitante, e valorizzante, dei suoi scambi osmotici a largo raggio.

In questi metodi di approccio e di riordino Borsellino scorge una possibile riapertura del discorso della critica; e la consegna come prospettiva eventuale, certamente da raccomandare, e come auspicio per gli anni che verranno.

Recensione
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