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Mabò lo straniero
Un testo ritrovato di
Marino
Piazzolla
Mabò lo straniero:
il nome proprio chiamato nel titolo non ritorna più, di poi, nei versi della
raccolta finora inedita di Marino Piazzolla, recentissimamente data alle stampe
per i tipi di Fermenti (la sua storia è detto essere quella di un ritrovamento,
dopo un trentennio abbondante di latenza tra le tante carte dell’archivio
dell’autore, a cui è intitolata, per sua disposizione testamentaria, una
fondazione di grande prestigio e di intensa attività culturale). Questo caso
speciale di hapax mostra una sicura portata semantica, rilevante nella
sua doppia proiezione.
Pronunciata in prima
persona, epperò avendosi come presente un destinatario implicito, talora
coinvolto nel testo, al quale si intende far pervenire la voce; articolata in
una catena di frammenti lapidari – Stefano Lanuzza, nella sua accurata
prefazione, li definisce lasse – che sembrano legati l’uno all’altro come
paragrafi di un unico racconto in forma di poesia; stilisticamente appoggiata su
di una lingua media, il cui uso pare potersi ricondurre ad una semplicità e ad
una efficacia testimoniali, che dunque scansano aulicismi, così come evitano
stranierismi o ibridazioni di idiomi e di parlate; contemperando una forte
passione sociale con una modalità di enunciazione potenzialmente riferibile ad
un oratorio, che espone e diffonde in forza di medietà linguistica la realtà di
cui sono caricati gli enunciati, la sequenza dei versi ha molto per attribuire
una precisa identità a chi dice io. Mabò lo straniero è, valendo per tutti i
compagni del suo disperato esodo, un migrante africano che stenta le sue
miserrime giornate nelle nostre terre ostili. I segni di riconoscimento ci sono
in abbondanza, disseminati nei frammenti: il nero della pelle, lo sfruttamento
subito in una condizione disumana decisa dai padroni profittatori e dalla longa
manus del caporalato, la privazione di quella dignità che permette ad un uomo di
riconoscersi uomo, la verità amara di un’esistenza schiava, la solitudine del
sentirsi abbandonati dalle istituzioni laiche e religiose che pure dovrebbero
farsi garanti dei diritti e di un’accoglienza degna di un contesto civile, la
consapevolezza di una esclusione motivata da rigurgiti razzisti e imputabile ad
una odiosa rozzezza culturale, la sfiducia nel futuro sotto il peso opprimente
di un fallimento senza rimedio, che si ritiene esito, ormai immodificabile,
della propria vita.
Mabò lo straniero
dice con asciutta amarezza, rotta soltanto da alcuni scoppi di rabbia e dalle
dichiarazioni desideranti – per bagliori subito spenti – di possibili utopie
palingenetiche, che si sanno essere utopie; e così ne viene accresciuta la
capacità di toccare in chi legge le corde del pensiero emotivo; e la coscienza
dell’ingiustizia e l’indignazione affiorano in chi accosta le pagine di questa
raccolta, senza che alcuna retorica mossa patetica risulti preventivata,
programmata a suscitarle.
In una realtà di
vessazioni, di disconoscimenti del valore della vita, di crocifissioni dell’uomo
meno che uomo e non più uomo, il protagonista finisce straniero a sé stesso, che
è la peggiore delle sorti che un essere umano possa incontrare, subire. E in ciò
la raccolta di Marino Piazzolla, con la sua sensibilità sociale e politica
tuttora attuali, affonda la parola della poesia nella piaga della condizione
disumana dei migranti, che oggi più di ieri sconvolge le nostre coscienze; e più
in generale, facendo di Mabò un simbolo, al di là della sua identità prima, ma
piuttosto in una seconda proiezione semantica (Mabò, come una voce fuori campo,
parla per tutti coloro che patiscono ingiustizie e scontano abissali
diseguaglianze), esprime le acute sofferenze, l’estraniazione, l’emarginazione,
che dilagano per effetto dei respingimenti, e delle sperequazioni economiche, e
delle esclusioni sociali e culturali: respingimenti e sperequazioni ed
esclusioni di cui è perverso motore e attore protagonista – contro i deboli e i
non garantiti e gli ultimi – il nostro sedicente mondo civile. Il mondo di una
aberrante civilizzazione che non è civiltà.
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Recensione |
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