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Sottopelle avverto ringhiare il sole

Un universo di emozioni. Vibranti. Il corpo innanzitutto diviene sentiero di poesia del dettaglio e della concretezza per dire in modo bruciante le passioni e la sete dell’anima che va veloce. Nel colore delle sensazioni la terrestrità insieme del proprio Sé e Sud più profondo. “Sottopelle avverto ringhiare il sole” è quanto dice di se stessa Irene Ester Leo, giovane voce graffiante e già intensamente poetica, in questa opera, prima silloge organica dei suoi versi. E’ infatti nei dettagli anatomici che si accendono maggiormente i colori della poesia “quanto più rivolto la pelle… fino a sentir tirare le gambe e le nocche, arricciarsi le pupille, sfilacciarsi i polmoni,… quanto più mi decompongo queste ossa in azzardi | e li ricerco in tessere affinate alla Rubik | quando mi apro la gola.. solo allora io segno | la sua verità.” Ecco, in Dogma, la verità delle cose sprigiona dal corpo e da esso c’è anche la nominazione di una luce capace di lampi lirici, marcati però dallo spessore fisico. “Chiara la notte senza sangue e corpo, a volte | è la mia mano,  | pesante lama che ti offende mio amato sempre.”

Paradossalmente, ma qui sta la magia dello stile poetico della Ester Leo, la forza, la materia svelano vie di leggerezza. E l’onda ferrosa della vita che attanaglia la lingua è autocosciente sapienza di tutto. “ed io lo so che tutto è. Da quassù le orme dell’invisibile | sono mie.… Spilli che reggono il gioco della prossima estate.”

Nonostante la giovane età, l’autrice pare nutrita di un’arcaica saggezza, di orzo, di mele, grano, limoni. Frutti e segni di luce, per curare la disarmonia del vivere?

Parrebbe di sì, dato che Ester Leo, in conclusione estrema, cita una riflessione di Montale, mentre in apertura spiccano isole di bellezza, versi di Whitman, che torna nume in apertura di Qui, dove il poeta della libertà americana pare essere chiamato ad essere faro di libertà e di inno alla natura in questi versi di osservazione (il persistere del dettaglio che apre al vento impetuoso dell’essere), “Mi osservo le dita dei piedi, come tenaglie di farro che cala nella terra e si lascia bere dal tempo…. Qui invece c’è ancora una porta senza serratura… e non serve il peso del metallo sonante per capire che siamo areoplani a sangue, | …” Belle metafore e intarsi visivi si hanno in molte poesie di Ester Leo, esperta anche di sinergie d’arte e scrittura, citiamo ad esempio P, in cui carne e pietre sono una cosa: l’ incipit lo rivela “Questa piazza che degrada sulle scale della tua schiena sorridente. | Questo pezzo di pietra che mi cinge la voce | come un abbraccio di ghiaccio ed ortica”. Particolarmente suggestivo anche per la forza ossimorica il lungo verso,” “Tutto è silenzio, che mi scortica di dosso nel rumore l’anima delle cose”, rivelatore di una poetica; cui si contrappone altrettanto intenso l’emistichio ma nel dolore dell’alba, lingua,:..

Emergono qui e altrove omaggi al Sud, terra d’origine della Leo e nell’orizzonte meridionale un riferimento esplicito ella fa a Rocco Scotellaro, di cui pare recuperare certe fulminanti intuizioni liriche, l’amore di luce e di carne della sua Lucania contadina. Si prendano alcuni versi della poesia noi dove nel gioco semantico no | noi cappello | capello, si inserisce una più profonda riflessione etica e lirica che richiama suggestioni del poeta di e’fatto giorno. In questa linea vanno letti i versi “vanno sicuri tra capello e capello saltando nella scatola dove si riposa | la scure d’acciaio della morale di piombo. | sa di fragola | e cura la tosse dei malati del sud Sul secondo gradino la posai e la innaffiai | eppure morì con la prima pallottola in canna dell’alba”. Ancora una volta una tappa, un nodo di poetica del dettaglio in cui traspare l’originalità del dire in erba di questa voce che dialoga e riflette anche la turbolenza di sonorità, le aporie della poesia d’oggi e sociologicamente del linguaggio giovanile qui documentato nel suo cercarsi nella concretezza del corpo , delle cose, delle sagome viste, amate, sentite in un vorticoso succedersi. Sguardi, cose che diverranno. Di questa gassosa ricchezza di emozioni c’è la disperata grazia dell’estremo, tipica degli adolescenti, si vedano i versi di Cenere, che per la sua intensità ed il complesso livello fonico, dato dal prevalere di suoni aspri, sembra uno dei testi paradigmatici di questa scrittura carica di sensazioni. La riportiamo integralmente Pelle arsa di spine | è la nostra corona. Il tuo nome bianco senza anse, | non vedo. | Solo cenere soffio | perché non tocchi, ma sfiori appena, come marea fervida che mi arriva, ma non mi lava. Qui sulla scala, in questa finestra, in quella stanza, ogni luogo è il tuo segno oscuro. Sorriderti capovolta, e flessuosa miseria | che mi arricchisce le narici | ma mi dondola senza meta | nel cuore.

Chiudiamo questa nota osservando come la versificazione libera e multiforme della Ester Leo dimostri anche nelle ultime composizioni, ad esempio in Fulmine e in viaggiami, notevoli livelli, anche sul piano del lessico e sappia alternare nelle tre variazioni finali un colorismo di immagini spesso assai intenso. L’acuto di un attimo della brevissima variazione 2 Cerco luce (brucio Poesia) pare davvero riassumere in modo epigrafico e vitale la ricerca in versi dell’odore delle cose da parte di Irene Ester Leo.

Recensione
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