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Su Me Dea
Voci recitanti Nina Maroccolo e Giulia Perroni Ardita e complessa scrittura scenica plurivocale del profondo, concerto dell’ io che si india nella pace attraverso s-brani di sé, la Me dea di Marco Palladini, recentemente riproposta all’ Aleph di Roma, è vibrante grammatica mito psichica e mitopoietica. La forza etica e scenica delle voci recitanti è affidata all’estro e al talento di Nina Maroccolo e Giulia Perroni, nonché all’assistenza fonica preziosa di Michele Marsili. Le due interpreti risultano particolarmente capaci di entrare nel corpo del testo e trasmettere i colori di un’emozione raggiunta con un lavoro duro e di ricerca. Esse mirano, anche con lunghe prove di scena, a quello sforzo verso un ’opera intesa come prova di arte totale. Si rende così, attraverso voce e canto, anche con ricorso al vernacolo siciliano da parte della Perroni, il cammino doloroso di una scissura lacerante, che si ricompone nella coralità rituale di una perturbante volontà di essere femminile eterna vox/ pons tra mondi diversi. E tale impegno si specchia bene nella genesi filologica del lavoro di Palladini, il quale, pur molto attento alla matrice classica euripidea ed ellenistica di Apollonio Rodio, dà al suo testo smalti diversi, grazie anche a felici intese in chiave sinestestetica, di ismi novecenteschi, dal cinema alla psicanalisi, al richiamo di quel dramma educativo e catartico di ascendenza tedesca, che va da Brecht alla Wolf. La scrittura scenica di Marco Palladini è sostanza tragica e spirituale dei Greci, che pure avvampa di olocausti e barbarie recenti, attraverso la dismisura di un viaggio di salvazione e di identità perdute, che pare ritrovarsi nella voce selvaggia del cuore, che si fa tamburo di memoria e infine sole di agnizione. Questa Me dea diviene, dunque, principalmente tragedia che attraversa la storia, liberando attraverso Voci – sostanza un tragico antico e postumo. Si restituisce così alla donna la ritualità, il mantra sacrale di un dolore fisico e mentale, spina d’azione e di dannazione per un agire fortissimo e spesso nel canto risolto e gnomico nel finale. Calmo. Maturato nella fiamma del male. Me dea ora sono La prima sensibile e decisiva variazione sul modello euripideo è la voce dei figli, che apre la testura scenica di Palladini. Esclusi dalla tradizione, qui essi hanno voce di rabbia, terrore e pianto, ma anche di progressiva agnizione della loro sorte attraverso la disillusione. La loro voce apre il dramma. Figli: Ritorniamo. I giuochi son finiti qui a Corinto./ Sì! La coppia , il Padre, la Madre, la pioggia nera, le raffiche, i suoni squillanti, / le apparizioni terrificanti e tutti i fenomeni non sono che illusioni … Ella ci maledice. Maledice il frutto delle viscere sue ….. Quanto dolore, quanto patire! Respinti dalla Madre perché figli di nostro Padre./ Respinti dal Padre perché figli di nostra Madre. .. orrore fratello. Ci è addosso. Orrore. L’odore di fiera impazzita. .. Colpo su colpo ci ha presi / il vortice fecondo della sventura. Mito antico e terribile di agnizione di sé e .. del Sé, quello di Me dea che, pantera profumata di dolore e rabbia, dà la morte ai propri figli, non tanto perché la vendetta verso Giasone e Glauce sia rito perfetto, quanto perché esploda numinosa la Dea.
MEDEA:
Me
dea. Lo sarò. Oltre questo giorno Attraverso la desertificazione dei sentimenti, il ghiaccio del nous apre la via di un altrove dionisiaco e pre- logico, con varie allusioni al pensiero nicciano .
Per amore
ucciderei ancora tutti i Colchi, e mettici pure E così la notte della voce sale e imprecando come Erinni, scende nel vernacolo, sentito e reso come viscera ancestrale di un substrato non solo culturale, ma antropologico … cultuale. Coltello di agnizione la vox- nox si sdoppia, con toni ed intensità diverse; la voce/ le voci delle due interpreti, Nina Maroccolo e Giulia Perroni è, o meglio diventa via, via convergenza di sguardi e osmosi di un drama scenico sincrono per avere l’epifania cosciente del proprio universale percorso di cura. E il bellimbusto e traditore greco Giasone è un eroe di carta che maledicendo la sposa antica, ora spada di sangue dei suoi figli, invoca i nomi dei suoi compagni Argonauti.
GIASONE:
Esecro!
Esecro! Esecro! Che la morte ti colga
(MEDEA:
Cosa
vuoi, grassatore, da me?
GIASONE:
Oh,
dove sono i miei amici, i compagni Argonauti?!
(MEDEA:
Cosa
vuoi, ingannatore principe, da me? Palladini, dunque, nel suo lavoro elabora e fa sentire un canto remoto che si fa eterno, lacerazione che risana, in virtù del suo essere altrove che guarda ed è senziente dell’aliud che giace nella miniera del Me/ sé di ogni essere umano. La voce si fa quindi coltello di agnizione per tendere all’aurora della deità, per offrire scenicamente la catarsi del Me/ sé, epifanizzato nel suo bianco trafitto e spossato atto finale. |
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