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Vedremo

Da quando vado in cerca di un uomo accompagnatore, amico di turno – non so come chiamarlo –, mi sento sempre meno me stessa.

Da entità che non sa stare da sola, anche se in affiatamento, sono priva di una personalità o di una presenza.

Gli altri li vedo, li osservo, ma di loro mi sfugge tutto. Ormai, per me, sono tutti passatempo. Elementi di contorno che, se anche stanno in mia compagnia, non li noto neppure. Loro mi guardano, mi rivolgono certe attenzioni, ma io li ignoro. Anche se parlo o ci cammino, con uno alla volta.

Mi guardano tutti allo stesso modo, ma non so che farmene. Pur stando con Antonio, Gianni, Enrico, Arturo, Leo, mi percepisco priva di entità definita.

Non mi piacciono le analisi. Sono quella e basta. Sono gli altri che vedono ciò che a loro fa comodo e che non voglio calcolare o definire.

Ogni tanto ci penso e, tutte le volte, i miei pensieri vanno a farsi benedire. Si confondono o restano sbiaditi o annebbiati.

Gli altri mi parlano, dicono tante parole, ed io divento inanimata, sia pure in movimento. Fuggo da tanti contatti che non mi interessano, pur stando al centro di attenzioni che non definisco.

Da mia madre o mio padre mi sento distaccata. Mia madre mi fa scomparire con la sua voce da strillona.

Lei non parla, ma grida parlando, pur non dovendo dire nulla di proclamato. Urla anche per ammettere che è una bella giornata o per dire che potremmo andare in gita. Ed io, a furia di sentirla, da quando sono piccola o da quando stavo dentro la sua pancia, sono diventata quasi muta. Parlo a bassa voce. Ma forse potrei dire che biascico parole dissolte o frazionate nella mia mente o che rimangono in gola, rimangiate dalla foga di silenzi propagati dentro la mia persona. E in quei momenti mi esprimo con gesti mai plateali o pronunciati. Gesti lievemente accennati. E chi mi sente silenziosa o semi taciturna mi prende per chi asseconda o lascia fare. Nulla di più impreciso. Quando noto tale sicurezza altrui, fuggo senza lasciare traccia.

Posso reincontrare i miei interlocutori, dopo tanti tentativi via sms da parte loro.

E in quelle circostanze i miei silenzi restano tali o ancora più scanditi.

Non volendo esprimermi con la voce o la gola, lo faccio con la presenza. Da qualche anno mi piace che tutto sia pronunciato, non dalla voce, ma dal portamento, dagli abiti, per lo più, succinti o aderenti.

Parlo con il fisico. E quando mi guardano, osservano con insistenza, i silenzi vengono approfonditi. E la persona manifesta tutta la mia esigenza espressiva. Di non dire con la parola. Di dialogare con gli altri con le movenze.

Da parte mia non c’è alcuna intenzionalità, ma un bisogno di manifestare mimicamente. E, contraddittoriamente, dentro di me non sento niente, mentre con il fisico mi sembra di dire a chi mi osserva: “Non voglio usare niente. Tutto sta dove deve stare.Tutto serve a ciò che è necessario”. Ma se qualcuno mi chiede o mi fa capire che qualcosa potrebbe entrare in funzione, avviene il tilt. Io ho tutto, purché non sia usato.

Ho ventitré anni. Mia madre vorrebbe che mi fidanzassi, che trovassi l’uomo adatto. Ma se non uso me stessa con gli altri, aprendomi alle occorrenze, tutto rimane chiuso e spento. Eppure non è che non vorrei che si verificasse tale ipotesi, ma che tutto fosse bello e fatto. O meglio, tutto dovrebbe avvenire per gioco forza o per legge naturale scontata.

Perché dovrei cercare affannosamente un marito? Perché dovrei risultare simpatica o in grado di aprirmi agli altri, possedendo ciò che potrebbe piacere o risultare accettabile?

Siano gli altri a notarlo o a prendermi per quella che sono, senza tanti preparativi, messe in scena.

E non so che farmene di prove, raffronti, tentativi.

A me piace essere scoperta per ciò che mi spetta. Perché dovrei stare dietro alle prassi, ai preparativi?

Chi non percepisce questo non sa chi sono. Quindi non mi merita. Chi invece mi è confacente, può guardare nelle mie sembianze accennate o mostrate, nelle movenze da conquistatrice.

E più mi mostro nelle pause solitarie e più noto che i maschi mi guardano con timore o imbarazzo. Sì, mi guardano, vanno oltre con il pensiero, ma sento il bisogno di fuggire. E prima di me, sono loro a farlo.

E in quei momenti, sono presente fisicamente, ma assente nell’intimo, anche se la mia presenza non esiste.

Credo si verifichi ciò, dato che non devo conquistare, ma altri afferrare ciò che di mio è in fuga permanente.

Ciò che dico, riferendomi a me stessa, non sono io a constatarlo o esprimerlo, secondo mie considerazioni personali, ma miei accompagnatori occasionali a suggerirlo con lapidarie, approfondite allusioni o interpretazioni, espresse al volo, mentre tento di darmela a gambe, o al massimo, ascolto, per rendermi conto di allusioni in sgretolamento.

Mi piace camminare a passo svelto, mentre qualcuno mi osserva, di più verso il basso.

Ho gambe alquanto magre, proporzionate al petto e al volto affusolato. Ma verso i fianchi prevalgono ridondanze inaspettate, concentrate di più all’altezza dei glutei. E lì che mi fissano. E certi sguardi mi creano uno stato sfuggente da sentirmi imbalsamata o legata come un salamino ben compresso per le operazioni del confezionamento nei laboratori norcini in cui emergono tanti rumori di affilamento coltelli.

E tante attenzioni mi fanno sentire frigida, anche se mi rendo conto che certi sguardi sono inviti a qualsiasi manovra o procedura, sempre in funzione di apparati che sanno di recite disarticolate o comiche. Ma i manierismi dei maschi risultano, per lo più, affettati o finti. Forse sarebbe meglio che ciascuno riuscisse a parlare come mangia o a dire ciò che pensa.

Anche se a me non colpirebbero lo stesso certe espressioni attorcigliate, confuse, pronunciate per fare effetto. Se proprio qualcuno vuole farlo, lo faccia senza tante cerimonie. Ma molti sembrano avere paura. E allora tante parole senza senso, dette in libertà, per il gusto di camuffarsi o prendere per i fondelli. Meglio allora il silenzio. Sì, anche quello dei muti, tanto armonico e a volte variopinto che non osa dire, forse per timore di dire male poco o niente, rispetto a ciò che si dovrebbe svelare o manifestare.

Chi vuole avermi, perché non mi si prende, come sono? Come una bambola preconfezionata o incellophanata. Solo allora mi sento tranquilla o disponibile, anche se non avviene mai.

Mi vogliono partecipe, capace di avere la battuta pronta. Giro a largo come una statua, temendo conversazioni o battute improvvisate alle quali potrei non sapere cosa rispondere. Così preferisco interromperle in partenza. In tali circostanze cammino, cammino o salgo in macchina, senza sapere ove andare. Con quelli che mi seguono avviene lo stesso. Non so che farmene delle sospirose profferte. Eppure sto ore al cellulare che, a volte, mi mette più a mio agio. Ma altre volte o non rispondo o preferisco non essere chiara.

Così mi prendono per quella che dà buche o per «la muta di Portici». E sebbene tutto ciò, mi cercano lo stesso. Meglio insistere, piuttosto che andare in bianco. Anche se in bianco ci vanno egualmente.

Nessun uomo o donna ritiene facilmente chiusa una storia. Ogni storia, rimane aperta, anche se non è mai incominciata.

E chi riesce a starmi dietro, sia pure subendo o patendo le mie fughe, o è costretto mollare, sul più bello, o sta lì in lista di attesa, pur sapendo che le mie indecisioni, raffrontate alle loro, in definitiva, annientano o scompaginano.

Tra questi stacanovisti dell’attesa c’è Giacomo. Più gli dico: ”Vedremo. In seguito ci incontriamo” e più mi cerca e ricerca. Ma non si decide a dirmi cosa vorrebbe fare. Mi chiama almeno dieci volte al giorno. Si dice colpito dai miei lunghi capelli di un riccio fitto, sparsi sulle spalle o all’inizio delle braccia segaligne che le coprono in un manto morbido e vaporoso.

“Sai Lorena, io senza vedere i tuoi capelli non ci so stare. Sono talmente ondulati che il loro nero seppia mi crea un sussulto interno. Ma tu dove sei?”

“Vado in giro. Se vuoi, vienimi incontro. Vieni verso via Garibaldi. Ti aspetto a piazza San Pietro in Montorio”.

Mi sono decisa a vederlo, dopo che mi aveva ossessionato con le sue chiamate e i suoi inseguimenti.

Ci sono andata meccanicamente, senza voglia o intenzione.

Mi sono vestita con pantaloni stretti, l’ombelico di fuori, una scollatura pronunciata da mettere in risalto il petto che ho magro. Con quella scollatura è sembrato lo stesso abbondante.

Quando sono arrivata con la macchina, la cui manutenzione è a carico di mio padre, impiegato dell’INPS, non ci siamo neanche salutati.

Ci siamo raffrontati o misurati nella nostra inadeguatezza, che il più delle volte, sa di inutili sviluppi.

Presici per mano, siamo rimasti ad osservare il passaggio di auto di chi ama incontrarsi nella piazza non eccessivamente frequentata.

Ho indossato i soliti pantaloni attillati da sotto l’ombelico in giù, per esigenza di scoprire ciò che non viene osservato dai miei coetanei, quasi tutti solidali di presenze assenze, di dialoghi neanche iniziati, di scambio di convenevoli che non ci sono.

L’unica cosa che constato, stando con Giacomo è la sua conferma di rimanere a venticinque anni con diploma, il solito sfaccendato o quasi, alle dipendenze di genitori che lo assistono in tutto, anche se si sente trascurato o incapace di andare d’accordo con loro.

Ma io lo incontro passivamente, lo osservo con distacco, immaginando, qualche volta, incontri o frequenze. Tali ipotesi muoiono sul nascere, dato che quasi tutti i miei interlocutori hanno poco da dirmi.

Giacomo è l’esempio di tale frequente assenza.

Scendiamo dalla macchina, avviandoci verso il Gianicolo. I nostri passi stanno tra il meccanico e il disarticolato. Sono lenti, a volte a scatti. E in quei passi c’è un po’ la nostra assenza verso una realtà da noi osservata con estraneità e sufficienza.

Cammino non per mio volere, ma per stare al gioco. Per non rimanere con mia madre. Per non sentire le urla, la sua parlata alterata, su di tono, anche per chiedermi quali scarpe ho calzato o intendo mettere o quale vestito preferisco indossare. Cammino accanto a Giacomo, ma non lo vedo. Guardo di più la gente che passa, anche se non la noto. Se sono uomini mi guardano, mi studiano, mi soppesano sopratutto se sono maturi o stagionati.

I giovani mi osservano come se fossi la propria sorella. C’è in loro un’aria di sfuggente complicità o di indifferente osservazione che arriva a farmi sentire assente da me o da loro.

Tra i maturi c’è una partecipazione che mi vorrebbe coinvolgere nelle loro storie o pretese. Forse potrei preferirli a coinvolgimenti con più giovani o coetanei, tutti bravi accompagnatori come Giacomo, ma pessimi compagni nelle loro occasionali pretese. Tutti sono bravi o sfuggenti elementi di contorno. Ma i più incapaci di fare qualsiasi allusione ti possa coinvolgere.

Perché? Sono io a non creare interesse o loro che non intendono impegnarsi?

Due anni dopo.

Mi è capitato di approfondire certe conoscenze, girandoci attorno.

Più che uomini ho avvicinato ragazzi.

Di uomini pochi. Sempre i medesimi pomiciamenti. Sempre dire e non dire. Ma al dunque si sottraggano. E quindi tutto diviene fare e non fare. Sembra che nessuno si voglia compromettere. Io per prima. Ma una cosa è avvenuta abitualmente. Mi hanno tanto toccata da non ricordare la presenza delle loro mani. In genere nei medesimi posti che, col tempo, si sono impermeabilizzati. In genere non sono solita guardarli in faccia o negli occhi. Al massimo, ho sentito i loro fiati o respiri che appannavano i finestrini dell’auto. E quando mi sono sentita accarezzare o palpare, ho finto che non avvenisse nulla. Stavo con loro per non fare niente. Quel che facevano, non mi interessava. Uscivo con l’uno o l’altro, per dimenticare Giona, forse l’unico con cui ho provato qualcosa.

E lui mi ha frequentemente evitato. Anche oggi penso a lui, in una città piena di rumori, odori che ti chiudono il naso, di sporcizia presente in ogni marciapiede o strada da me percorsa, ogni giorno, per andare a svolgere il mio infruttuoso lavoro di sistema carte nello studio del notaio Fracassi.

Mi piace citare il suo cognome perché è un personaggio che non solo ama il fracasso con ogni situazione caotica, al di là del lavoro, che svolge da professionista accurato.

Ma nella vita privata è un mare di casini. Lo cercano in molte.

Non conosco le sue interlocutrici. Allo studio non vengono. Le frequenta per fatti suoi. Ma per me, pur non essendo la sua segretaria personale o la sua collaboratrice diretta, è una fatica dover ascoltare certe conversazioni, a tutte le ore, anche quando sta stipulando. Lo faccio per alleggerire la situazione. Rispondo al telefono da quasi anche centralinista. E ogni voce femminile, se non riesce a parlare con lui si arrabbia. Così devo riferire certe belle parole che mi trasmettono, del tipo: “Gli dici che se non mi richiama parlo”. Oppure: “Sono stanca di starlo a cercare. Non è ancora arrivato? Al cellulare non risponde. Ma è andato a prenderlo in culo?”.

O ancora: “Gli spacco la faccia se non fa quello che sa”.

“Ma lei chi è?”.

“Lo sa molto bene”: E giù il ricevitore.

Proseguo a mettere a posto le carte, preferendo ricordare Giona che non c’è. Provo a mandargli sms, sempre gli stessi: “Chiamami”.

Sì domani. Neanche se gli avessi chiesto di farla finita.

Così preferisco uscire con chi per me non esiste, in genere limitandosi a maneggiarmi. Se fanno altro, lo fanno loro, non io. E le loro manovre possono andare anche oltre. Ma io resto come inanimata.

Al massimo penso a Giona che mi sfugge.

Lo vado a cercare. Lo trovo in compagnia di maschi o femmine, nel suo centro di telefonia, quasi tutta, gente che non conosco. Non è italiano. Non so se sia egiziano o siriano. Insomma di quelle parti.

“Non vedi che sto lavorando. Quando posso ti chiamo. Ciao Lorena”.

Il suo sguardo è di chi ti guarda, sorvolando. Fa un po’ come io faccio con i miei conoscenti o amici d’occasione, che sono talmente d’occasione da rendermi indefinita e non compromessa con i loro movimenti, gesti o atti che finiscono con certi schizzi che non gradisco arrivino sulla mia pelle. Ci arrivano lo stesso, pur provando a dirottarli verso i capelli o, al massimo, le mani.

Mi dessero almeno qualcosa. Il più generoso mi invita al ristorante o mi viene a prendere al posto di lavoro.

E io distratta, immaginando Giona e studiando come poter incuriosire la sua frequente distrazione, mi rendo disponibile per gesti che mi restano estranei.

Giona potrebbe coinvolgermi, ma non vede l’ora di liquidarmi.

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