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Disforia del nome
alleo,it
La disforia è un’alterazione dell’umore in senso depressivo, la disnomia è
incapacità di riportare alla mente la parola necessaria, quando serve. La
presenza di parole col prefisso negativo dis- :disnomia, disforia, distonia,
disconoscimento, può costituire una prima chiave di lettura della silloge di
Lucia Gaddo Zanovello. La poetessa ha una visione ben chiara dei mali che
devastano l’umanità- indifferenza, noncuranza, astuzia, falsità, assenza di
solidarietà- (”il rubro dell’angoscia, / il lampo aguzzo della lama / della
noncuranza, / la ruggine del ramo secco / dell’indifferenza”), e della fragilità
degli umani, posti, fra l’altro, a vivere su una Terra che di per sé è il
massimo dell’insicurezza: “dondola la Terra / dentro gli universi / perduti
suoni / nel silenzio degli abissi”. Se fissiamo l’immagine ci prende il panico.
Ha
la dolorosa ma oggettiva consapevolezza della brevità del nostro percorso – un
graffio appena sull’andare infinito del tempo –. Il tempo cattura i giorni della
nostra vita, ci fa avvicinare inesorabilmente all’approdo finale: “Di Dio
parlano tutte le mani / mai sfiorate / o note quanto le proprie. / Al molo si fa
ressa / come alla nave / e tutto teso è lo stelo dello sguardo / per vedere / la forma
tra le forme”. Nulla resta di ciò che è, anche i ricordi diventano dilavati e
stanchi, o qualcuno distrugge addirittura i luoghi delle nostre memorie più
care: “ma nulla resta di ciò che è, / si vede dai ricordi / che fluttuano perduti
verso riva / nell’infinita risacca del tempo / che batte e ribatte a terra / nomi
sorrisi e frasi benedette”. La sofferenza di ognuno di noi, il male per cui si
soffre, fa tutt’uno col male del mondo: “Tutto il centro vibra / del dolore di
ciascuno, / chiodato d’attesa / teme la nullità della promessa / e l’insopportato
viaggio della vita”.
La parola è lo strumento di Lucia Gaddo Zanovello per
accedere a questo caos di emozioni negative, ma la parola fatica a contenerle,
il significante non è sufficiente per tale significato. Allora abbiamo la
ricerca voluta, ostinata, della sonorità della parola, quasi il suono fosse un
tentativo di riempire quella disperazione, quel vuoto. Parole che si tendono, si
ripetono, si affiancano, in un rincorrersi di allitterazioni, assonanze, rime,
latinismi, neologismi, in un affollamento di significanti cupi, duri. Quasi a
richiamare proprio l’attenzione sulla parola quando tutto il resto è naufragio.
Non poteva essere altro che disforia la reazione della parola al dolore
universale. C’è tuttavia un’apertura che rasserena, dopo il buio di tante notti,
perché si affacciano talvolta immagini di luce e di bellezza: “un aprile loquace
e solatio approda / al molo del bosco che profuma / del balsamo dell’amore /….Ama la
gente il nido / che riapre il telo buono della notte / alle geometrie delle luci del
buio dopo il sole”. La lotta non può durare eterna, arriva il momento della
resa, comunque: “Stanchezza intorno, / amare troppo la bellezza / l’ha
stremata. / Lascia il campo ai nuovi nati / e ai muti bimbi che verranno”. Il
cammino è difficile, è vero, ma percorrendo la “torta via, / che alla fine del
viaggio conduce, / al porto antico approdi; / al rifugio sicuro delle genti / al desco
lieto della plenitudine”.
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Recensione |
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