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Chi ha detto che la morte
è un fatto che riguarda ognuno di noi, in proprio, assolutamente nostro, rimane
quasi contraddetto dall'assoluta compenetrazione dell'autore dentro
l'insondabile enigma, che pare aprire le sue misteriose pieghe e rendere quasi
accessibile il suo mistero. La morte della madre – evento straziante – si
sublima, qui, nel suo senso più alto: non solo come morte di «colei che ci ha
generato», ma come morte di «colei che ha la capacità del generare» ed ha,
perciò, il senso universale dell'eterno morire della vita stessa, della vita
che portiamo dentro di noi, che la «Madre» ci ha donato e che vorremmo, quasi,
nuovamente, generare da noi: «Questa volta sarà il figlio a partorire | il caro
corpo ingombrante d'una morta | che attende solo le cure lenitrici |
dell'amorosa levatrice».
I versi si dispiegano in un canto che è insieme un'epopea
della Vita e della Morte, la celebrazione alta di un rito, al quale il Figlio è
ammesso, in una veste quasi sacerdotale, a fare da intermediario su quella
sottilissima soglia che li separa.
La crudezza e la suggestività di certe immagini, ricordano
altre illustri celebrazioni della Morte — che sono di per se stesse un trionfo
della Vita — quella del «Lamento per Ignazio Sanchez Majías» e, per certi
aspetti, quella disegnata dall'iperrealismo baudelairiano di «Una carogna».
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Recensione |
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