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Nel 1990, dopo quindici anni di insegnamento dell'Italiano LS/L2 in Italia e all'estero mi ero ritirata a Bucine, fra Firenze e Arezzo. Lì non c'era ombra di stranieri e ciò mi faceva provare la cosiddetta sindrome dello "Straniero all'estero, straniero in patria", che cambia le percezioni di chi sia vissuto fuori dal proprio paese d'origine abbastanza a lungo da sentirsi "diverso". Pur sentendo forte il bisogno di cominciare ad agire là dove stava la mia casa, non avevo ancora la minima idea di come mettere a frutto la mia esperienza nel territorio. Il Comune era gemellato con un piccolo paese francese, e quello non era che l'inizio di una serie di scambi europei ed extra-europei che avrebbe sviluppato col passare degli anni, ma all'epoca era impossibile prevederlo. In preda a sintomi di privazione professionale, contattai il Sindaco per proporgli di ospitare uno scambio artistico-culturale con un College americano. Il Sindaco mi chiese subito di andare a parlare con la gente di San Pancrazio, una piccola comunità di poche decine di famiglie, in cima a un colle verdeggiante. Si trattava proprio di quel San Pancrazio a Bucine Valdarno (Arezzo), che dieci anni dopo, nel 2001 sarebbe diventato sede del campus "Le Culture della Storia e della Memoria" e uno dei Centri interculturali della prestigiosa rete di "Porto Franco ", istituita dalla Regione Toscana. San Pancrazio allora era un paese tranquillo, forse troppo tranquillo, ancora rinchiuso nel dolore ovattato dell'eccidio nazifascista che l'aveva reso tristemente famoso nel 1944. Nel fumoso caffè dell'Arci in cui ci riunimmo a parlare una sera, prospettai la possibilità di ospitare per un mese un gruppo di docenti e studenti americani di Boston, che avrebbero alloggiato in paese, studiato la pittura del paesaggio e imparato la lingua italiana. Una voce si levò incredula e mi disse: "Ma noi, qui, cosa abbiamo da offrire?…" La cornice naturale era stupenda, la gente era curiosa e ben disposta, il cibo era sano e naturale: inutile dire che il programma si fece e durò per tre estati, durante le quali cominciò a delinearsi sul territorio un'esperienza interculturale basata su una concezione dinamica dell'incontro fra culture, orientata verso la trasformazione. La Fattoria, in via di ristrutturazione, divenne il nostro quartier generale. Lo straniero che apprende una lingua nel paese in cui è parlata vive un'esperienza completa: continue provocazioni visive, uditive, olfattive, gustative e tattili lo obbligano a rimodellare la propria percezione del mondo. Impostai il corso di italiano L2 sui cinque sensi. I docenti d'arte americani lavoravano notoriamente con un concetto di arte intesa come impegno sociale. Per includere il territorio, organizzavamo mostre e incontri aperti a tutti. I media venivano a curiosare. Gli anziani raccontarono in prima persona le loro storie della guerra. I ragazzi e le ragazze del paese, una dozzina, socializzavano con gli americani nella Fattoria, provavano a dipingere, cominciavano a dire qualche parola d'inglese, li portavano nelle loro case, imparavano il baseball e salivano negli alloggi degli studenti per insegnargli a fare il caffè espresso. Gli americani vivevano a una spanna da terra; coniugavano sapori e saperi, colori e suoni dell'Italia. Dipingevano con una tavolozza tutta diversa dal solito: solo gli ocra, i gialli, i rossi di Siena, le terre bruciate, i verdi e i blu che servivano per interpretare la terra, la pietra e la natura circostante. I "materiali autentici", linguistici e interculturali, erano dappertutto: le tele e il lessico dei ragazzi trasponevano i rintocchi delle pievi, le morbide colline, la freschezza dei vicoli e il mistero di sguardi e di antichi oggetti agricoli. Insegnare l'italiano L2 in quel piccolo mondo era come stare a braccia spalancate sulla prua del Titanic, sapendo che si apriva la strada a qualcosa di bello e reale. Cambiava lo sguardo: quello di chi viene per ripartire, e quello di chi resta perché ha visto il consueto con altri occhi. "Dipingi anche la mia casa." Alla fine ogni famiglia aveva in salotto la sua tela, in ricordo di un'amicizia. Ed era un modo per guarire la memoria. |
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