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Ho letto, prima
con staccata serenità, poi con entusiasmo, quindi con passione sempre più
coinvolgente, Il Viaggio Virtuale di Gennaro Grieco. Una raccolta di ben
settantasei testi e divisa in sei sezioni, divisione che non intacca la
compattezza del mondo poetico di Grieco. Ghigni, sorrisi, sberleffi, fronti
aggrondate e pensose a volte, a volte vuote, inespressive; sguardi ironici o
biechi: l’umano strabismo; rumori di sassi e di foglie: l’urlato e il sommesso;
un vorticare di visi, di oggetti, di suoni, di idee. La parola e il pensiero a
tendere le briglie o lasciarle a guidare i sudati cavalli della mente, a
stimolarli con gli speroni luccicanti di una memoria lontana, astrale e di una
intuizione esistenziale che scandaglia il futuro, ne allarga la chiusa fessura,
lo penetra, lo possiede, si placa e ritorna al presente: il fuoco che arde sulle
travi del tempo.
Gli occhi del
poeta Grieco sprofondano, uno nel budello delle ombre, l’altro nell’iride della
luce e la linea che li congiunge passa attraverso l’uomo, si carica di spirito e
di sangue e vibra, elitra sonora del sapere, sulla vuota distanza che divide il
fragore dei campi di battaglia: lacerazione, strazio, esultanza e sconforto,
pianto, scoperta e perdita, nostalgia e assenza, Amore e Morte, Canto e
Silenzio. La parola, in queste poesie, è l’Assoluto, il centro del cerchio che
si aggruma, si addensa, si fa roccia e spigolo di cristallo; poi evapora,
aleggia, si espande, conquista l’infinita circonferenza, la vìola, si apre al
Caos, s’incendia, alza la fiamma della creazione, si avvolge nel manto delle
apparenze, abbraccia l’universo, si sgretola per improvvisa deflagrazione e
riprende il suo ciclo. La poesia di Grieco scaturisce dal percepire l’innata
disarmonia, la profonda ambiguità del mondo dove si aggira una umanità dai
lineamenti confusi e dove la nota dominante è il vagolare nel buio in cerca
della luce: il viaggio.
Il poeta, munito
di sensibili antenne spirituali, raccoglie i cocci che cadono nel raggio del suo
stupore e tenta di ri-fare il segno che possa racchiudere la sognata armonia.
Palloncini gonfiati dall’alito dell’uomo e spinti dal vento dell’illusione,
colorati dal pennello della fantasia e legati al filo della scarpa che incede
pesante nel solco della terra, si sollevano e restano in bilico tra un arco
glorioso di cielo e il profilo malinconico di crucciata campagna, spaventata
nicchia di serpe, boriose cartelle di tasse. Tante piccole lune tra lo splendore
del sole e la caligine della notte. Rimane, il segno, dietro lo spessore della
grande maschera, che è imprevedibile, piena di varianti, di trucchi, mutevole
quindi, gravida di metamorfosi e d’inganni. Perde tempo il poeta a riferire le
mille astuzie che lo distraggono dalla meta e si lamenta: “Ci sta il trucco, |
non c’è dubbio, qui ci sta il trucco”; allora deve “accordare lo strumento; è il
minimo che si possa fare” per riprendere il viaggio, andare oltre la maschera,
dopo aver lasciato “la cenere che prende alla gola” e “l’infausto profilo del
fango”.
Allora lo
“cerchino, cercatori d’aghi, | gigioneschi figuri dai sigari mozzati, |
romantiche canaglie di terre perdute”, egli inghiottirà “l’unica chiave | dopo
aver speso - beninteso - l’ultima pigione” e si calerà, si calerà e non lo
troverà nessuno!
Ironia, sarcasmo, amaro scherno, sboccata gioia, vibrano in tutta la raccolta;
qua e là una manciata di malinconia, ma virile, mai sdolcinata; sempre il feroce
gaudio della scoperta dell’oggetto, dell’atto scoperchiato e denudato. Il tutto
rasserenato dalla distesa musica dell’endecasillabo che avvolge il pulsare dei
sentimenti, smorza il grido, annulla la voce fuori dal coro e incanala il canto
nell’alveo di una probabile armonia.
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Recensione |
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