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Carmelo Ciccia

Dante e Gioacchino da Fiore

Testo edito da Pellegrini - Cosenza - nel 1997
e revisionato per Literary.it - Padova - nel 2012

Alla memoria di
Carmelo Fichera
docente educatore amico
costante testimone di principi e valori
cristiani culturali morali
ricordandone sempre le elette doti
di mente e di cuore.

Immaginetta di Gioacchino

            Sommario
Avvertenza
Premessa

Parte prima Il gioachimismo e i suoi influssi su Dante

Gioacchino da Fiore e la sua dottrina
Mazzini, Foscolo, agitatori e rivoluzionari
Diffusione del profetismo e del carisma gioachimita
La visione profetica di Gioacchino
Il discredito della personalità di Gioacchino
Gioacchino e Dante
San Giovanni in Fiore
Fiore e frutto

Parte seconda Liber figurarum e Divina Commedia

Il Liber figurarum
Disposizione del nuovo ordine nella Terza Età: Il Veltro
Il drago a sette teste e l'Anticristo
Il cocchio d'Ezechiele e l'albero dell'umanità
Tribù e chiese / La M che si trasforma in aquila
I cerchi trinitari di tre colori e il nome di Dio
Una pagina dello Psalterium
Il salterio, l'ordinamento del Paradiso e la rosa dei beati
Tavola della circolazione trinitaria

Parte terza Documentazione essenziale

Alcuni testi del Liber figurarum
Altri testi di Gioacchino da Fiore
La bolla di Onorio III del 1220
Documenti su Gioacchino e sue figure a Venezia
La santità e i miracoli di Gioacchino
Miracoli raccolti da fra' Giacomo Greco
Alcuni dei miracoli raccolti da Cornelio Pelusio

Conclusione
Appendice
Bibliografia


Avvertenza

Finalmente nel 2001 un illuminato arcivescovo di Cosenza-Bisignano, mons. Giuseppe Agostino, accogliendo le numerose sollecitazioni provenienti dai fedeli e dagl’intellettuali, ha riaperto il processo di beatificazione di Gioacchino da Fiore, avviato otto secoli fa e per otto secoli rimasto senza esito, forse perché il decreto dell’avvenuta beatificazione fu bloccato da elementi a lui ostili. Io stesso nel 1998, al momento del suo ingresso nella predetta diocesi, gli avevo scritto una lettera per porre alla sua attenzione il caso di questo personaggio, che da parecchi secoli è venerato dal popolo e come beato è inserito nel calendario, nel messale e negli Acta Sanctorum dei gesuiti bollandisti, nonché in certi dizionari ed enciclopedie; e nel 2000, in un’udienza concessami al collegio “Dante” di Vittorio Veneto (dove occasionalmente egli si trovava), gli avevo ampiamente illustrato lo stesso caso, ottenendo da lui la promessa di concreto interessamento e restando poi in corrispondenza con lui per qualche tempo.

La riapertura è avvenuta in un clima di straordinaria solennità, che ha prodotto una lettera del papa Giovanni Paolo II, inviata tramite il segretario di Stato Angelo Sodano, e tutta una serie d’iniziative: la ricognizione ed esposizione della salma, ora riposta in un’artistica urna, messe, processioni e altre cerimonie religiose, convegni e congressi, intitolazione di scuole, servizi radio-televisivi, articoli nell’“Osservatore romano” ed in altri giornali ad alta tiratura, presentazione del servo di Dio nel foglio liturgico “la Domenica” (distribuito in tutte le chiese) del 9.2.2002 da parte del vicepostulatore don Enzo Gabrieli, un’immaginetta tascabile del venerabile, la fondazione a Cosenza della prestigiosa rivista “Abate Gioacchino”, ecc. Si può affermare senz’ombra di dubbio che è proprio grazie al grande amore e impegno per la causa da parte di mons. Agostino (troppo presto andato in quiescenza) e di don Gabrieli che s’è avuto un notevole risveglio d’interesse ecclesiastico.

Inoltre è notevole il fatto che dopo l’uscita di questo mio libro sono state pubblicate diverse opere su Gioacchino.

In questo mio libro, basato sulle tavole del Liber figurarum e su altri scritti di Gioacchino, oltre ai riferimenti e temi danteschi, emergono la sua ortodossia, la sua soggezione alla Chiesa, il suo apostolico ed indefesso zelo nell’edificazione dei fedeli.

Pertanto la riabilitazione e la beatificazione ufficiale di Gioacchino da Fiore ora appaiono come un atto dovuto e come una grande opera di giustizia storica, in linea con l’avvenuto cambiamento di posizioni ecclesiastiche come quelle su Giovanna d’Arco, Galileo Galilei, Gerolamo Savonarola, Giovanni Huss, inquisizione, ugonotti, ebrei, padre Pio da Pietrelcina e il filosofo Antonio Rosmini, nei confronti dei quali la Chiesa ha modificato o annullato i precedenti provvedimenti punitivi e restrittivi.

Grandi santi come Tommaso d’Aquino e Bernardino da Siena sono arrivati presto alla gloria degli altari nonostante che qualche loro proposizione fosse stata condannata dalla Chiesa. E lo stesso Pietro Lombardo, il cosiddetto “Maestro delle Sentenze”, nel 1170 ebbe una dura condanna dal papa Alessandro III, il quale incaricò l’arcivescovo Guglielmo di Sens “della soppressione della malvagia dottrina di Pietro, un tempo vescovo di Parigi, dottrina in cui si dice che Cristo, in quanto è uomo, non è nulla” e di “abrogare totalmente la suddetta dottrina” (cfr. Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2000, pag. 415), e quindi nel 1179 il Lombardo rischiò di vedere condannata la sua teologia trinitaria dal Concilio Lateranense III (cfr. Gioacchino da Fiore, invito alla lettura di Gian Luca Potestà, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999, pag. 8).

E non solamente beato merita d’essere proclamato Gioacchino da Fiore, ma santo e dottore della Chiesa: e ciò sicuramente per la sua vita mistica, ascetica e macerata, per la costante ricerca dell’intimo colloquio col divino, per la “salutare” fondazione dell’ordine florense, per la sua missione profetica (da lui intesa e praticata come preparazione d’una Chiesa dello spirito), per l’elevatezza della sua speculazione teologica e per le sue pubblicazioni interpretative e divulgative della dottrina cristiana che lo resero come un faro nel “buio” del Medio Evo, anzi brillante di quella luce spirituale, intellettuale e morale che Dante volle esaltare, nel collocarlo con ammirazione fra i beati sapienti del cielo del Sole, cioè fra quelli che oggi diremmo dottori della Chiesa.

Il titolo di dottore della Chiesa appare ovvio anche per il fatto che un’autorevole casa editrice cattolica quale la Pia Società San Paolo lo ha inserito come autore nella sua collana “Scrittori di Dio”. Infatti, scrivendo abbondantemente di Dio, Gioacchino fu un “teografo” (che poi è l’equivalente di “dottore della Chiesa”) il quale con le sue opere d’alta speculazione insegnava la dottrina di Dio: il che giustificherebbe pienamente l’attribuzione del suddetto titolo.

Tutto ciò mi ha indotto a predisporre questa seconda edizione.

Conegliano, 15 Novembre 2012

Carmelo Ciccia

Salma di Gioacchino ora ricomposta in una nuova urna


Premessa

Gli studi sulla personalità e l'opera di Gioacchino da Fiore, sempre vivi fin dalla sua epoca, hanno registrato in questo secolo un particolare interesse. Basta ricordare al riguardo i nomi di studiosi come Ernesto Bonaiuti, Antonio Crocco, Henri de Lubac e Carmelo Ottaviano. Ma già nell'Ottocento si era sentito in sintonia col profeta calabrese un pensatore della statura di Giuseppe Mazzini, mentre altri agitatori cercavano indicazioni e messaggi nelle opere di Gioacchino e Xavier Rousselot insinuava una dipendenza di Dante da Gioacchino: idea rilanciata nel 1911 dall'inglese J. S. Carrol.

Sul rapporto Dante-Gioacchino ha avuto delle intuizioni anche Giovanni Papini. Ma è Leone Tondelli, professore e studioso di fama internazionale, che con la scoperta del Liber figurarum e con tutti gli studi ad esso dedicati costituisce una pietra miliare in questo settore. A lui si sono affiancati studiosi stranieri come Marjorie E. Reeves, Beatrice Hirsch-Reich, Jeanne Odier e Herbert Grundmann. Le interpretazioni del Tondelli furono accolte favorevolmente da studiosi italiani come Guido Mazzoni, Carlo Grabher, Giuliano Manacorda e Carlo Calcaterra, mentre furono ignorate da altri come Umberto Cosmo, Attilio Momigliano e Brano Nardi.

Oltre al Tondelli su questo rapporto hanno scritto Francesco Russo, Antonio Piromalli, Annibale Ilari, Ambrogio Donini e Luigi Verardi. Sul pensiero e l'opera di Gioacchino si è costituito un gruppo di studio a Cosenza, guidato da Vincenzo Napolillo, e si tengono dei congressi a San Giovanni in Fiore. Qui ricordiamo, fra gli altri, gli studiosi Francesco D'Elia, Eligio Russo e Francesco Foberti, il quale dedicò 30 anni a dimostrare l'ortodossia di Gioacchino; e inoltre Henry Mottu, Giorgio Ferrari, Arsenio Frugoni, Antonio M. Adorisio, nonché Salvatore Oliverio, Tullio Gregory, Pietro De Leo, Edith Pazstor e tutto il comitato della rivista di studi gioachimiti "Florensia".

Da ciò si desume che, nonostante il grande interesse in generale per Gioacchino, scarsa è stata l'incidenza delle tesi del Tondelli sui commentatori della Divina Commedia, o addirittura nulla. Probabilmente la causa sta nel fatto che la prima edizione del Libro delle figure uscì nel 1940, in piena guerra mondiale, e la seconda nel 1953, cioè lo stesso anno della morte dello studioso reggiano.

Eppure sull'autenticità del Liber si sono pronunciati favorevolmente - fra gli altri - paleografi come il Battelli (Scuola di Paleografia vaticana) e il Cerlini (università di Roma), nonché studiosi d'arte come il Toesca (università di Roma e Accademia dei Lincei), il Quintavalle (direttore delle Gallerie Parmensi) e il Procacci (sovrintendente all'arte medievale e moderna per la Toscana).

Questo lavoro riprende lo studio del Tondelli con una rivisitazione critica, non semplicemente riproponendone le tesi, ma a volte consentendo, qualche volta dissentendo e tuttavia integrandole con nuovi apporti, documenti e interpretazioni. Non manca una rassegna ragionata di scritti d'interesse dantesco-gioachimita. Con ciò si vuole rendere merito al Tondelli, fare un servigio a Dante per una migliore intelligenza della Divina Commedia, tenere sempre desta l'inquietante memoria di Gioacchino da Fiore.

Treviso, 15 Gennaio 1997

Carmelo Ciccia

Abbazia di San Giovanni in Fiore (Cosenza)


Parte prima
Il gioachimismo e i suoi influssi su Dante

Gioacchino da Fiore e la sua dottrina

Nel canto XII del Paradiso san Bonaventura presenta a Dante anche l'anima di Gioacchino da Fiore (vv. 139-141):

... e lucemi (d)a lato
il calabrese abate Gio(v)a(c)chino
di spirito profetico dotato.

Il tono maestoso e solenne della presentazione, prodotto dalla scansione ritmica dei versi; la parola lùcemi che apre la presentazione e che, anche per l'effetto dell'accento sulla prima sillaba, conferisce a quell'anima più luce, non soltanto spirituale, ma anche intellettuale (perché luce in questo caso è gloria in cielo, grande intelligenza e grande fama in terra); la posizione (d)a lato, con cui egli giudica Gioacchino degno di stare a fianco e alla pari del sommo dotto san Bonaventura, che pure era stato (in vita) avversario di Gioacchino e del gioachimismo; e infine il fatto che quest'anima è presentata alla fine della rassegna con tre versi e con tanta solennità, mentre di altre era stato detto il solo nome con qualche attributo o nota: son tutti elementi, questi, che ci fanno pensare ad un'ammirazione e ad una simpatia particolare di Dante per Gioacchino da Fiore, al quale il poeta assegna un posto di riguardo nel cielo del Sole.

Gioacchino nacque a Célico (nell'arcidiocesi di Cosenza) intorno al 1130, da un'umile famiglia di agricoltori o, secondo una più attendibile tradizione, da un notaio. Dopo aver visitato la Palestina, decise di farsi frate cistercense e in seguito fu nominato abate. Tra i vari monasteri di cui fu ospite si ricorda l'abbazia di Casamari (1182-1183). In seguito ad una crisi spirituale, abbandonò l'ordine dei cistercensi e, dopo un periodo di eremitaggio, fondò la congregazione florense, che prende titolo dal monastero di san Giovanni in Fiore, sulla Sila, dove ebbe sede, e che nel XVI secolo (1570) si fuse con l'ordine dei cistercensi. Gioacchino morì intorno al 1201-1205. Nel 1215 si ebbe la condanna da parte del Concilio Lateranense IV della presunta sua opinione che nella Trinità fossero tre nature divine e che l'unità di essa fosse morale e non sostanziale (triteismo); né poi fu accolta l'idea di un Evangelo eterno (Età dello Spirito Santo) successivo al Vecchio Testamento (Età del Padre) e al Nuovo Testamento (Età del Figlio), anche perché la Chiesa non ammette una nuova discesa pentecostale dello Spirito Santo. Tuttavia Gioacchino ribadì più volte la sua adesione alla dottrina cattolica, nella quale credeva e voleva vivere. Al riguardo sono importantissimi quei suoi brani (si veda la Parte Terza) in cui chiede di essere corretto dai suoi confratelli o dalla Chiesa stessa, eventualmente anche dopo morto.

La sua umiltà, la sua professione di fede e la sua onestà fecero sì che, pur nella condanna della tesi, il Concilio, salvaguardando la sua persona, credesse alla rettitudine delle sue intenzioni e alla sua buona fede; nella quale oltretutto hanno creduto e credono vari studiosi che si sono interessati della vita e del pensiero dell'abate calabrese. Peraltro il fatto che dopo la sua morte Gioacchino sia stato dichiarato beato da Dante (che gli riconobbe meriti grandi), che sia stato venerato dal popolo come un santo e che la Chiesa abbia permesso questo culto significa che l'opposizione della Chiesa è stata blanda e non decisa. E non è escluso che in seguito si arrivi ad una revoca della condanna[1] e addirittura ad una beatificazione ufficiale. Si ricordi, infatti, che il papa Onorio III in una bolla del 1220 (si veda la Parte Terza) giudicava Gioacchino perfettamente cattolico, dando ordine di annunciare a tutti questo giudizio.

In realtà il Concilio operò in assenza di Gioacchino, che era già morto e che quindi non poteva presentare le sue difese o discolpe, e l'organismo ecclesiastico si pronunciò a favore della tesi di Pietro Lombardo[2], che da allora diventò dottrina ufficiale della Chiesa in materia di dogma della Trinità, nella quale si riconosce unica sostanza divina, contro il triteismo, che sosteneva una distinzione sostanziale e cioè Unità come pura somiglianza e tre Persone come tre sostanze o tre dei.

Ma c'è di più: la condanna del 1215 contesta a Gioacchino il fatto di aver attribuito al Lombardo la convinzione che la sostanza divina fosse un quartum aliquid da cui poi derivassero le tre Persone e che perciò si dovesse parlare più di quaternità che di Trinità. Questa "perfidia" è rintracciabile nella tavola XXVI, fig. 1, del codice di Dresda (l'unico codice in cui è presente, perché - secondo il Tondelli - dagli altri codici potrebbe essere stata eliminata dall'Inquisizione), e in essa il nome di Pietro Lombardo è stato omesso (probabilmente dal copista), ma si desume dal contesto.

In questa tavola si attribuisce alla fede cattolica un globo con la parola Pater inscritta, dal quale si dipartono tre segmenti con rispettivamente Pater, Filius e Spiritus Sanctus: ne discende che il Pater è come la fonte delle tre Persone. Sotto questo disegno c'è la "perfidia" di Sabellio: Padre-Figlio-Spirito Santo è una sola persona. Sotto ancora è riportata la "perfidia" di Ario: il Padre è maggiore come l'oro, il Figlio è minore come l'argento, lo Spirito Santo è minimo come il rame o il bronzo. Ed è proprio in fondo a questa tavola che si trova la "perfidia" dell'anonimo teologo: una figura simile a quella della fede cattolica, ma nel cui globo manca la parola Pater; per cui le tre Persone vengono a derivare da quel quartum alìquid di cui si parlava.

La posizione del Lombardo fu intesa da Gioacchino o da chi per lui come una bestemmia. Ma che questa fosse la vera intenzione del Lombardo è negato dal Concilio, che perciò condanna Gioacchino.

Nella condanna si fa riferimento solo al Liber contro. Lombardum "De unitate seu essentia Trinitatis"[3] attribuito a Gioacchino; ma, come si vede, la tesi ritorna nella suesposta figura, oltre che nello Psalterium. In pratica Gioacchino avrebbe voluto essere più cattolico del Lombardo; ma questo zelo gli procurò la condanna e l'accusa d'ignorante e presuntuoso da parte di san Bonaventura. Il fatto poi che la figura sia solo nel codice di Dresda e non sia citata nella condanna può far pensare ad una interpolazione nello stesso codice, anziché ad una eliminazione dagli altri codici come supposto dal Tondelli. A favore di Gioacchino, perciò, potrebbero porsi questa interpolazione e il giudizio di non autenticità del suddetto libello (avanzato da vari studiosi), assente nell'elenco delle opere della lettera-testamento di Gioacchino. D'altronde una prova d'ortodossia Gioacchino la dà nelle figure dei cerchi e del salterio di cui parleremo.

Il Concilio di Nicea (anno 325) non aveva esplicitamente affermato l'unicità della sostanza delle tre Persone (preoccupato com'era di condannare la negazione della consustanzialità propugnata dall'eresia di Ario), ma solo l'uguaglianza delle Persone nella sostanza. Questo è quanto sostiene uno studioso che ha dedicato tempo e competenza alle ricerche sull'abate Gioacchino da Fiore: Carmelo Ottaviano[4]4. Peraltro alcuni (come lo stesso Ottaviano) escludono che il Liber contra Lombardum sia opera autentica di Gioacchino da Fiore, a cui è attribuito. Certo è che la tesi vera del Lombardo, assente anche lui al Concilio Lateranense IV perché premorto a Gioacchino, trionfò; e questo trionfo si trasformò in un lungo successo del novarese nelle scuole di teologia. Con ciò l'Ottaviano, pur ammirando il Lombardo, mostra viva ammirazione anche per Gioacchino, al quale attribuisce un ideale "romantico" per quel suo sogno di una società come una grande repubblica guidata da un clero puro e senza vizi: sogno utopistico difeso anche dai popolani, contadini, artigiani, accattoni e reietti, che prevedeva la spiritualizzazione dell'umanità a partire dall'Italia, Populus Latinus eletto da Dio dopo gli Ebrei (in Enchirìdion IV lo dice superiore per abbondanza di grazia). Perciò, secondo l'Ottaviano, Gioacchino intravede l'Italia come nazione e può essere paragonato al Gioberti del Primato morale e civile degli Italiani[5].

Alcuni fanno risalire l'idea dell'Italia come nazione all'anno 90 a. C, quando scoppiò una guerra detta sociale, tra Roma e gl'Italici, allora socii (= alleati) dei Romani. Gl'Italici si erano ribellati a Roma e, per i bisogni espressi senza fortuna meno di mezzo secolo prima dai fratelli Gracchi, chiedevano la cittadinanza romana, si erano uniti in confederazione, avevano eletto consoli propri e stabilito la loro capitale a Corfinio, città ribattezzata significativamente Italica. La guerra si concluse due anni dopo con lo sgretolamento della confederazione, ma con la concessione della cittadinanza romana a tutti gl'Italici. Ebbene, in questo desiderio degl'Italici di confederarsi per un migliore destino comune e in questa cittadinanza romana estesa a tutta l'Italia potrebbe esserci il germe della nazione italiana.

Ma per avere un'idea più chiara del concetto di nazione bisogna arrivare al XII sec. d. C, quando visse e operò l'abate Gioacchino da Fiore.

Con la romanizzazione del mondo allora conosciuto, nel III sec. d. C. ogni cittadino, in qualsiasi parte dell'Impero si trovasse, poteva dire come san Paolo "civis Romanus sum"[6]; ma col crollo dell'Impero ogni popolo si trovò di fronte all'altro, cominciando ad acquistare coscienza di sé e a configurarsi come nazione. Nei secoli XI e XII fioriscono i Comuni, che a Legnano (1176) ricevono il battesimo della libertà: attorno al Carroccio, guidato dalle autorità religiose, i rappresentanti della Lega Lombarda si proclamano Italiani e dichiarano di aver combattuto per l'onore e la libertà d'Italia. Nasce l'avversione storica per i germanici, ma anche il senso di una patria storica, unito alla viva religiosità. E in questo contesto l'idea della nazione italiana compresa nei suoi limiti geografici è maturata nella mente di Gioacchino da Fiore, che ha assegnato all'Italia la citata missione di spiritualizzazione, dell'Europa prima e dell'umanità tutta poi, grazie anche alla riconosciuta coscienza nazionale, ereditata dall'antica Roma con la mediazione della Chiesa: una Chiesa - beninteso - totalmente rinnovata; idea ripresa poi da Dante.

In Concordia VI, 16, Gioacchino deplora che l'Italia sia divisa da lotte interne e discordie, nonché devastata e insanguinata da stranieri in cerca di terre e di potere. La sua "miseram Italiam" si trasformerà in grido presso altri grandi italiani come Dante, Petrarca, Leopardi. E la renovatio auspicata da Gioacchino è nel nome stesso il Rinascimento e prelude ad un'altra grande rinascita: il Risorgimento nazionale[7].

° ° °

Mazzini, Foscolo, agitatori e rivoluzionari

Il riferimento all'ideale "romantico" e al Primato del Gioberti ci porta a soffermarci un po' sull'interesse che Gioacchino suscitò nell'Ottocento presso patrioti, agitatori e rivoluzionari: il famoso Introductorius in Evangelium æternum di G(h)erardo da Borgo San Donnino circolava ampiamente in società segrete italiane, francesi e inglesi. Ma sulla figura e l'opera di Gioacchino concentrò particolarmente la sua attenzione un grande patriota italiano: Giuseppe Mazzini. Ed è merito di Bianca Rosa avere trascritto e portato alla luce un manoscritto mazziniano di appunti finalizzati alla stesura di un trattato (poi non realizzato) su Gioacchino: Joachimo, appunti per uno studio storico sull'abate Gioacchino[8].

Nell'intelligente introduzione la Rosa fa notare che il Mazzini ebbe subito una simpatia particolare per Gioacchino, a motivo della comune finalità di annullare o ridurre il potere politico degli ecclesiastici e di dare l'avvio ad un'epoca nuova, basata sull'uguaglianza sociale. Perciò il patriota dovette rimanere incantato dalla profezia della Terza Età e si mise a visitare luoghi che accoglievano opere di Gioacchino o su Gioacchino, fra cui importanti quelle di Victor Leclerc. Egli inoltre tenne conto della simpatia che ebbero per Gioacchino calvinisti, anglicani e riformatori vari.

Secondo la Rosa, I doveri dell'uomo del Mazzini, anche se non vi è mai nominato Gioacchino, sono un'opera d'ispirazione gioachimita. E la studiosa traccia poi tutta la vicenda di Gioacchino, accennando alle confutazioni di san Tommaso e della Commissione di Anagni nel 1255 e alla glorificazione fattane da Dante con la definizione di profeta tradotta da un'antifona dei Vespri cantata nei monasteri florensi ai tempi di Dante stesso.

Gli appunti del Mazzini si rivelano molto interessanti per capire la sua visione morale e politica. Essi sono scritti in italiano e in francese, con brani in latino di Gioacchino, e costituiscono una specie di regesto delle opere di Gioacchino e su Gioacchino, una bibliografia ragionata, una successione di titoli, date, contenuti, pensieri, riferimenti; tutta una serie d'informazioni, citazioni, considerazioni preziosissime, da cui - fra l'altro - emerge la grande cultura del Mazzini. Tesi evidenziate sono: la corruzione degli ecclesiastici, i sacramenti inutili senza le opere, niente rappresentazioni visibili di Dio, tre Età, Gioacchino profeta. Infine è auspicata la pubblicazione di un'antologia gioachimita.

Ammirò Gioacchino anche una progressista come George Sand, amica del Mazzini; e inoltre lo ammirarono Marx, Hegel e perfino Hitler e Mussolini, i quali ultimi, a quanto sembra, presero da lui le rispettive espressioni Terzo Regno e Duce. Alcuni sostengono che comunismo, nazismo e fascismo abbiano potuto trovare radice in Gioacchino, deformando l'originario pensiero dell'abate calabrese.

Uno dei molti meriti di Giuseppe Mazzini fu, quand'era a Londra, di avere riordinato e curato gli scritti londinesi di Ugo Foscolo, fra cui l'importante saggio sulla Divina Commedia: scritti che sono arrivati a noi proprio grazie al Mazzini.

Il poderoso saggio foscoliano Discorso sul testo e sulle opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante, al quale l'autore attese negli ultimi dieci anni della sua vita e che dopo varie vicende redazionali ed editoriali uscì postumo nel 1842 a cura del Mazzini, nel cap. CLXXXIV, in cui tratta dell'eventuale credenza di Dante in oroscopi e profezie, influssi astrali, pronostici e predizioni varie, contiene una lunghissima nota-aggiunta interamente dedicata a Gioacchino da Fiore, la quale prende spunto dalla famosa terzina 139-141 di Par. XII.

Il Foscolo, dopo aver riferito di aver visto circolare da giovinetto a Venezia un certo "libercolo" attribuito a Gioacchino, in cui sono preconizzati i papi futuri anche con illustrazioni e simboli, afferma che la fama di esso era "santissima" fin dalla fine del sec. XVI, tanto che il filosofo francese Montaigne (1533-1592), che pure non era ingenuo, bramava di poter vedere questa "meraviglia": "le livre de Joachim Abbé Calabrois, qui prédisait tous les papes futurs, leurs noms et formes"[9]. Tuttavia tale libro, secondo il Foscolo, non era uscito ai tempi della condanna di Gioacchino da parte del Concilio Lateranense IV e forse non era uscito nemmeno ai tempi di Dante, che mostra d'ignorarlo.

A proposito di questo libro, di derivazione pseudo-gioachimita è il titolo del poemetto di Vincenzo Monti Il pellegrino apostolico: poiché nel libro si prediceva un papa "Pellegrinus Apostolicus", in questo fu identificato Pio VI, che si recò in missione a Vienna "con modestissima comitiva" (come dice il Foscolo). Gioacchino fu ritenuto profeta verace e il Monti attinse a questo libro il titolo del suo poemetto.

Il Foscolo si sofferma poi a valutare le qualità profetiche di Gioacchino. Premesso che di questo soltanto il trattato contro Pietro Lombardo fu condannato, mentre l'abate fu ritenuto veramente cattolico per avere scritto alla Santa Sede affidandosi ad essa per la revisione delle sue opere e per avere condiviso la stessa fede della Chiesa Cattolica, il Foscolo cita varie opinioni, a volte contrastanti, sullo spirito di profezia: da una parte Gioacchino è profeta per avere esposto i libri di Daniele e degli altri profeti, magari aggiungendovi sue predizioni che poi si avverarono, come quella della morte di Enrico VI, dall'altra non è profeta per avere sbagliato la predizione di vittoria nella terza crociata (1190) a Riccardo re d'Inghilterra e a Filippo re di Francia, come asserisce Ruggero di Hoveden nei suoi annali.

San Tommaso d'Aquino affermò che l'abate calabrese in alcune cose predisse il vero per sola forza di naturale intendimento, in altre s'ingannò. Poiché varie profezie gioachimite minacciavano la casa di Svevia, ed in particolare maltrattarono Federico II che regnò dopo la morte di Gioacchino, il Foscolo suggerisce di controllare gli originali di Gioacchino stesso. Ora, poiché l'abate era ritenuto profeta da oltre mezzo secolo prima della nascita di Dante, questi ne raccolse la voce.

Circa il famoso Evangelo eterno il Foscolo riferisce l'opinione di chi attribuisce questo al generale francescano Giovanni da Parma. In esso si prediceva che il Vangelo di Cristo sarebbe cessato nel 1260 con l'arrivo dell'Anticristo; e poiché il presunto Gioacchino sapeva scrivere in versi, egli sarebbe un poeta, oltre che un santo: "per beato anche l'abate Gioacchino si adora a' dì nostri. Benché la Chiesa non n'abbia mai riconosciuto i miracoli, tuttavia le parve di non opporsi che ne' conventi delle congregazioni Benedettine un santo di più fosse predicato alla venerazione e alla credulità della moltitudine".

Secondo il Foscolo, sebbene dai contemporanei Gioacchino fosse giudicato ora profeta ora impostore ora pazzo, "a Dante parve di dover seguitare la fama più prevalente e lo collocò fra' Beati; e poscia i monaci Benedettini e i frati Gesuiti ne scrissero in guisa che s'abbia da venerarlo per Santo".

Nell'aggiunta è riportata anche la terzina attribuita a Gioacchino in cui si pronostica l'avvento dell'Anticristo:

Cum decies seni fuerint et mille ducenti
anni, qui nato sumunt exordia Christo,
tum Antichristus noequissimus est oriturus.

Questa terzina risulta variata in certi codici. Il Tondelli la riporta così:

Cum fuerint anni transacti mille ducenti
seni decies post partum Virginis alme
tunc Anticristus nascetur
(variante regnabit) demone plenus
[10].

Tuttavia è da rilevare che la maggior parte dei critici esclude che Gioacchino abbia potuto realmente scrivere questi versi, anche perché l’Evangelo eterno fu composto circa cinquant'anni dopo la morte di lui, come lo stesso Foscolo riconosce.

Questo Discorso foscoliano fu stampato dal libraio italiano a Londra Pietro Rolandi come strumento di propaganda patriottica; e come tale fu osteggiato dalle polizie e dalle censure ecclesiastiche degli Stati italiani.

° ° °

Diffusione del profetismo e del carisma gioachimita

Anche il Mazzini, ammiratore fin da giovane di Dante e Foscolo, aveva visto il cosiddetto "Libro dei papi futuri" attribuito a Gioacchino. Ora un raro esemplare di tale libro di Profetie dell'Abbate Gioachino et di Anselmo Vescovo di Marsico, stampato a Venezia nel 1646, si trova nella Marciana di Venezia e un altro nella Biblioteca Comunale di Treviso. Esso c'interessa non tanto per i vaticini e per le modeste illustrazioni, quanto per l'introduzione e le annotazioni.

Nell'introduzione il francescano Gabriele Barrio (qui è detto proprio franciscano, mentre alcuni lo fanno francicano, cioè di Fràncica, CZ) racconta con ingenuità e fantasiosità la vita dell'abate calabrese, certi particolari della quale si rivelano interessanti. Anzitutto il nome Giovanni Gioacchino, che potrebbe essere considerato augurale per un uomo votato allo studio e all'imitazione di san Giovanni Evangelista. Il biografo ci dà poi i nomi dei genitori: Mauro Tabellione (= Notaio) e Gemma. Trascurando notizie aneddotiche e miracoli, ricordiamo lo studio della grammatica, il viaggio a Gerusalemme, la vita nel deserto, i digiuni, il ritiro in una spelonca della Sicilia, il ritorno in Calabria (dov'era nato), i soggiorni nei monasteri di Corazzo, Petr'alta, Fiore, e l'elenco di opere di Gioacchino.

Dal racconto di fra' Gabriele emerge che Gioacchino scrisse varie opere a richiesta di imperatori come Enrico VI e di pontefici come Lucio III, Urbano III, Clemente III e Innocenzo III. A quest'ultimo, secondo la lettera-testamento di Gioacchino (definita autografa da fra' Gabriele), avrebbero dovuto essere consegnate tutte le opere per essere approvate o emendate, perché Gioacchino ci teneva a vivere da cattolico, a morire nella Santa Chiesa e a non essere dichiarato eretico. Da questo fatto il biografo trae spunto per un'appassionata difesa di Gioacchino e del suo ordine. Egli cita il libretto "De unitate seu essentia Trinitatis" contro Pietro Lombardo, cita anche lo stesso libro "De Summis Pontificibus", ritiene profetizzati gli ordini domenicano e francescano che sarebbero sorti qualche anno dopo, discute sulla liceità del profetizzare e soprattutto si sofferma sulla lettera (da lui riportata) di Onorio III al vescovo di Cosenza in difesa di Gioacchino e del suo ordine da ogni accusa infamante[11].

A sua volta Pasqualino Regiselno nelle annotazioni finali afferma che Gioacchino conosceva il greco per essere nato nella Magna Grecia e imparò l'arte di predire in Oriente, addottrinandosi nei numeri.

Al cosiddetto "Libro dei papi futuri" può collegarsi la cosiddetta Profezia Gioachimita del sec. XIII delle regioni venete, anch'essa palesemente apocrifa, che c'interessa non tanto perché si fanno oscure minacce, si annuncia l'Anticristo per il 1260 e si danno attributi caratterizzanti ad alcuni papi, peraltro non facilmente identificabili, né per i particolari preconizzati per le città di Brescia, Verona e Mantova ("regioni venete" va inteso, quindi, in senso lato, non corrispondente alle attuali delimitazioni amministrative), quanto perché tale profezia, utilizzando apertamente schemi e frasi del Liber figurarum, ed in particolare della tavola col drago rosso, dimostra come fossero diffusi nel Nord-Italia il Liber stesso e il profetismo gioachimita; in sostanza, quale fosse il grado di ascendente che Gioacchino aveva come profeta, se è vero che a lui venivano attribuite miriadi di profeziole inventate da impostori vari.

Il Tondelli in un saggio su questa profezia ritiene che Dante abbia potuto vederla e magari abbia provato anche lui a scioglierne gli enigmi. In ogni caso lo studioso reggiano, per distinguere Gioacchino dai facili profeti che spuntarono come funghi dal sec. XIII in poi magari nel nome di Gioacchino da Fiore, proprio come l'autore di questa profezia che si conclude col nome di Gioacchino, ci tiene a precisare il senso di profeta per l'abate calabrese: "solo uno studioso che dal passato credeva poter dedurre per mirabili armonie e concordie il futuro". Ma sul significato esatto di questa parola torneremo più avanti.

La diffusione del carisma gioachimita nel Nord-Italia, come dimostra Francesco Foberti in un'appendice al suo appassionato studio[12], è documentata anche in quei codici della Biblioteca Marciana di Venezia nei quali vari cronisti veneziani del tempo riportano una tradizione scritta e orale secondo cui l'abate calabrese Gioacchino: fu a Venezia, abitò nella basilica di san Marco, ordinò i soggetti dei mosaici (ispirati alle sue profezie, alle sue teorie e al "pastor angelicus"), vi fece effigiare i santi Francesco e Domenico, fondatori di ordini religiosi da lui stesso predetti. E addirittura si indica il cap. 13° del Commentarium in Isaiam prophetam come prova dell' ideazione e disposizione di queste decorazioni operata da Gioacchino. Certamente la lettura di questi documenti storici (si veda la Parte Terza) è utile per capire la presa del gioachimismo sull'anima popolare fin dal suo sorgere. Ma, mentre ci sono prove della visita di Gioacchino a Verona nel 1186, non ha riscontro matematico la sua permanenza a Venezia.

Altra riprova del carisma gioachimita nel Nord-Italia è la presenza di varie comunità florensi anche in Toscana. Di esse fu primaziale l'abbazia di Camaiore (LU), sul frontone dell'arco d'ingresso della quale uno stemma reca la scritta tuttora leggibile "ORDO FLORENSIS". Tale abbazia, sorta come benedettina nel sec. VIII, passò ai florensi nel 1217 (cioè dopo la morte di Gioacchino) e questi vi rimasero fino al 1387, godendo di notevolissimo prestigio in tutta la regione, come ha ampiamente dimostrato Paolo Dinelli rifacendosi ai numerosi documenti d'archivio citati da F. Buonanoma nelle sue ottocentesche opere storiche[13].

Abbazia florense di Camaiore (Lucca)

Il Dinelli, citando inoltre Camillo Paoli[14], afferma che sotto il pontificato di Gregorio IX (1227-1241) l'ordine florense raggiunse il suo apogeo, avendo dopo soltanto mezzo secolo di vita una quarantina di abbazie sparse per l'Italia, fra le quali appunto quella di Camaiore stava in primo piano. Il Paoli poi riporta un brano della Cronica di Salimbene da Parma (1221-1290) nel quale si parla del prestigio dell'abbazia di Camaiore, il cui abate Benedetto istruì Salimbene nella dottrina di Gioacchino. Questo abate, temendo in seguito che l'imperatore Federico II facesse distruggere le opere di Gioacchino da Fiore conservate nell'abbazia camaiorese (e ciò, perché indicato come persecutore della Chiesa) ed essendo ardente seguace del profeta calabrese, fece trasferire tali opere nel convento francescano di Pisa, dove poi Salimbene le vide e poté studiarle.

È da notare che a Camaiore, come in mezza Italia, predicò san Bernardino da Siena (1380-1444), riformatore francescano tutto impregnato d'idealità gioachimite, che fondò o riformò oltre trecento monasteri e ammaliava le folle con il suo eloquio. Anche lui fu processato due volte per eresia, ma fu assolto entrambe le volte e dopo la morte fu presto canonizzato: privilegio - quest'ultimo - che non toccò mai al nostro abate calabrese. San Bernardino aveva adottato come suo simbolo l'Ostia con al centro il monogramma di Gesù JHS o YHS[15], che tuttora, quasi sempre dentro la raggiera dell'ostensorio, è posto sulle porte d'ingresso delle case e delle chiese, ma anche nei cortili e nei giardini, e segna il suo passaggio in tutta la Toscana e oltre, dalle cattedrali e dai palazzi della signoria delle grandi città come Firenze e Siena alle semplici abitazioni come quella del Pascoli a Castelvecchio di Barga (LU); ma è proprio a Camaiore (il quale potrebbe essere definito "paese votato all'Eucarestia") che non c'è casa - quasi - che non abbia tale simbolo: questo in occasione della tradizionale festa del Corpus Domini viene adornato con ghirlande, mentre sulla strada della solenne processione vengono preparati lunghi e artistici tappeti di sughero con disegni sacri che attirano numerosi turisti provenienti anche da lontano[16].

Ebbene, a Toledo, fra le pagine dei Sermoni di san Bernardino, per un intero quaresimale basati sull’Evangelo eterno e contenenti lodi a Gioacchino da Fiore, la studiosa spagnola Juana Mary Arcelus Ulibarrena ha trovato interpolata la profezia gioachimita (o pseudo-gioachimita) dei duo viri[17] (san Francesco e san Domenico) collegata ai mosaici veneziani di S. Marco, basilica "realizada por voluntad del abad Joaquìn a su paso (= passaggio) por Venecia, segùn una tradición medieval" (si veda la Parte Terza)[18]. Tale profezia, di cui esistono altre copie a Firenze e Napoli, attraverso la Spagna poi si diffuse in America, unitamente a tutto il pensiero gioachimita, francescano e domenicano. Di essa parla anche sant'Antonino da Firenze (1389-1459). In pratica questi due uomini avrebbero dovuto realizzare gl'ideali gioachimiti della Terza Età coi loro ordini religiosi. E a tale profezia pensò Dante (Par. XI, 28-36) traducendo duo viri con "due prìncipi" e hinc et inde con "quinci e quindi":

La provedenza che governa il mondo...
due prìncipi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

Premesso che l'espressione "evangelo eterno" è in Apocalisse XIV, 6 ("Poi vidi un altro angelo che, volando nel mezzo del cielo, recava un evangelo eterno per annunciarlo agli abitanti della terra; ad ogni nazione, tribù, lingua e popolo."), P. Gratien, quando definisce Gioacchino da Fiore "un sant'uomo di poco giudizio, di una scienza teologica limitatissima e dotato inoltre di un'immaginazione esaltata"[19], certamente mostra d'ignorare che molte profezie e interpretazioni bibliche attribuite al profeta calabrese erano opera di circoli gioachimiti costituitisi un po' dappertutto in Europa, in particolare tra i francescani e con lo scopo di esaltare il francescanesimo.

È il caso dell'identificazione di san Francesco con l'angelo del sesto sigillo di Apocalisse VII, 2-3 ("Poi vidi un altro angelo salire dall'Oriente, con il sigillo del Dio vivente..."), dove il sigillo del Dio vivente sarebbero le stìgmate ricevute da san Francesco.

Il generale francescano Giovanni da Parma (1209-1289), pur non affermando esplicitamente che san Francesco sia l'angelo del sesto sigillo, afferma che con lui comincia la nuova era di cui al sesto sigillo. E san Bonaventura, altro generale dello stesso ordine (1221-1274), pur dichiarandosi anti-gioachimita, afferma: "San Francesco è stato rappresentato, e non senza ragione, sotto la figura dell'Angelo che sale dall'Oriente recando il sigillo del Dio vivo"[20].

Non c'è quindi da meravigliarsi se Dante (in Par. XI, 52-54), parlando di Assisi, scrive:

Però chi d'esso loco fa parole
non dica Ascesi, che direbbe corto,
ma Oriente, se proprio dir vuole.

Qui evidentemente Dante accoglie l'ipotesi d'identificazione di san Francesco con l'angelo del sesto sigillo proveniente dall'Oriente, ipotesi allora corrente tra i gioachimiti francescani.

A questo punto ci sembra opportuno riportare una giusta osservazione di Tommaso Casini[21]: "L'abate Gioacchino, dotato d'un profondo sentimento dell'infelicità presente e d'una viva aspirazione ad un mondo avvenire, propugnando il rinnovamento della Chiesa, par che facesse veramente alcune previsioni, che non sono profezie nel senso stretto della parola...; previsioni che non trascendono... i limiti dell'accorgimento umano: più tardi poi s'andò formando una vera letteratura gioachimita di visioni e profezie, che non procedono minimamente dalle opere dell'abate calabrese, ma che pure al tempo di Dante gli erano attribuite dai più".

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La visione profetica di Gioacchino

Gioacchino da Fiore può essere definito monaco, abate, teologo, esegeta, apologeta, pensatore, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta. Come abbiamo visto, la sua fama si diffuse presto dal sud al nord della Penisola, ma principalmente egli fu noto come profeta: il frontespizio di un'edizione veneta di sue opere lo definisce grande profeta ancora nel 1516, ben due secoli dopo la definizione datane da Dante. Le sue opere furono divulgate soprattutto nei conventi e sono state trascritte, lette e studiate per secoli, compresi i nostri giorni in cui studiosi e studenti italiani e stranieri vi si applicano: segno di persistente vitalità e interesse.

Gli scritti principali di Gioacchino sono: Concordia Veteris et Novi Testamenti, Expositio in Apocalypsim di cui l’Enchiridion super Apocalypsim si può considerare una sintesi, Tractatus super Quatuor Evangelii, Psalterium decem chordarum e Liber figurarum[22]. Quest'ultimo libro è una raccolta di disegni con cui Gioacchino esponeva o illustrava graficamente le sue teorie nelle varie opere; e su di esso fermeremo particolarmente la nostra attenzione, senza tuttavia esaminarne e spiegarne l'intero contenuto.

Non staremo qui ad esporre minutamente tutte le teorie di Gioacchino da Fiore, che risentirono delle dottrine dei Càtari e dei Patarini[23] e i cui influssi si ebbero - oltre che sui personaggi già considerati - su pensatori del livello di san Bonaventura e di Giambattista Vico o di agitatori come Cola di Rienzo e Girolamo Savonarola. A noi qui interessa soffermarci sulle ragioni della particolare simpatia di Dante per questo monaco.

In effetti Dante dovette ammirare di più in lui le qualità di moralista, quali si possono riscontrare in quella profezia che prevedeva l'avvento di una nuova Età per l'umanità. Sotto questo punto di vista, e più che da teologo, Gioacchino influì sui tanti movimenti d'ispirazione francescana che pullularono nel basso medioevo ed in particolare sugli spirituali, che poi filtrarono il gioachimismo su Dante stesso.

Si sa che, dopo la morte di san Francesco d'Assisi, i suoi seguaci si divisero in conventuali e spirituali. A questi ultimi, che davano un'interpretazione severa della regola, ben presto si affiancarono altri rigoristi: flagellanti, bizzocchi, zelatori, celestini, ecc.

Gioacchino da Fiore, dividendo la storia dell'umanità in tre Età, previde che dopo l'Età del Padre (caratterizzata dall'ira e dalla legge dell'odio, della violenza, del taglione) e quella del Figlio (caratterizzata dal perdono, ma anche dal falso amore, dall'ipocrisia, dalla simonia e dalla prepotenza della gerarchia ecclesiastica), sarebbe seguita l'Età dello Spirito Santo (caratterizzata dalla vera spiritualità e dal vero amore, secondo l'insegnamento evangelico).

Naturalmente una profezia di questo tenore non fu gradita ai dirigenti della curia romana: ci sarebbe voluto un papa come Celestino V per prenderla in seria considerazione. Ma quanti avevano a cuore il rinnovamento della Chiesa e il suo ritorno alle origini non potevano non sperare nell'avvento di quest'Età, restando in trepida attesa di essa, anche se non di una nuova discesa pentecostale dello Spirito Santo, ipotesi - quest'ultima - condannata dalla Chiesa.

Fra costoro ci fu certamente Dante: e tutta la Divina Commedia ne è una prova. E vero che egli non prese mai posizione a favore degli spirituali nelle dispute con i conventuali, perché anzi condannò entrambe le parti (Par. XII, 124-126); ma, se si ripensa alla profezia del Veltro (Inf. I, 101-111), si può avere qualche idea più chiara in proposito.

Dante, il quale fu tanto colpito dalle ricchezze e dall'alterigia degli ecclesiastici (che condannò in vari passi della Divina Commedia), non poteva non accogliere il messaggio di Gioacchino insito nel canis-clero inteso come custode e guida della nuova comunità (nazion) della Terza Età e lo trasfuse nel suo poema; e, nel definire l'abate "di spirito profetico dotato" assumendo in proprio le parole dei florensi, lo fece non tanto perché egli credesse nelle profezie, quanto perché era lui stesso che sperava in quel rinnovamento e faceva avallare la sua speranza dalla profezia dell'abate.

Non soltanto l'episodio del Veltro è d'ispirazione gioachimita, ma qualche studioso crede che tutta la Divina Commedia sia stata scritta in funzione gioachimita. In essa ci sono molte figure allegoriche derivate da Gioacchino: oltre al Veltro, la grande visione con cui si conclude il Purgatorio, la M che si trasforma in aquila, l'immagine dei cerchi trinitari, la mistica rosa dei beati e altre. Perfino il "Pape Satan" del canto VII dell'Inferno può essere ricondotto all'ideologia gioachimita, se inteso come "Tentatore del Papa" (genitivo papae, cioè del papa), in considerazione del fatto che le parole sono pronunciate da Pluto all'inizio del canto degli avari fra i quali vengono indicati espressamente papi e cardinali "in cui usa avarizia il suo soperchio", mentre lunga è l'attesa del "pastor angelicus" che si collocherà nella linea del Veltro.

Per convincersi di ciò basta sfogliare il Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, un'opera per tanto tempo ignorata o trascurata dagli studiosi di Dante e perfino da quelli di Gioacchino; la quale, dapprima creduta apocrifa e poi rifacimento della Concordia Veterìs et Novi Testamenti, è ora giudicata autografa e autonoma. Il merito di tale scoperta va allo studioso italiano Leone Tondelli[24], seguito dalle due inglesi Marjorie Reeves e Beatrice Hirsch-Reich[25], le quali anche hanno collaborato col Tondelli alla pubblicazione del Liber e sono intervenute con relazioni ai congressi calabresi di studi. È stato il Tondelli a spiegare molte delle allegorie dantesche con figure di Gioacchino (da cui Dante certamente prese ispirazione), dimostrando così la perfetta conoscenza che il divino poeta aveva delle opere di Gioacchino.

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Il discredito della personalità di Gioacchino

Nel sempre vivo dibattito sugl'ideali gioachimiti si è inserito opportunamente Antonio Piromalli con un suo saggio posteriore al prezioso lavoro del Tondelli[26]. Egli è dell'avviso che la buona reputazione di Gioacchino sia stata artatamente e deliberatamente guastata dai cistercensi e dal fanatico G(h)erardo da Borgo San Donnino. I primi sarebbero autori del famigerato Liber contro Lombardum, che, come sopra detto, nel 1215 provocò la condanna da parte del Concilio Lateranense IV. Scopo dei cistercensi sarebbe stato quello di vendicarsi di Gioacchino per la sua fuga dal loro ordine e la costituzione di un nuovo ordine, farlo dichiarare eretico e quindi provocare la distruzione dell'ordine florense. Il fanatico G(h)erardo, poi, lettore di teologia all'università di Parigi e autore dell'altrettanto famigerato Introductorius, attribuì ai libri di Gioacchino il valore di una nuova Rivelazione, definendoli Evangelium æternum ed effettuando una strana predicazione che provocò una nuova pronuncia di condanna da parte della Commissione di Anagni, la quale, visti i risultati a cui era pervenuta la commissione teologica dei magistri della Sorbona l'anno precedente, col protocollo del 1255 accusò Gioacchino di sovvertire il clero e di non farlo più obbedire alla Chiesa, anche perché G(h)erardo annunciava per il 1260 l'inizio dell' "Evangelo eterno" e la fine del Nuovo Testamento. La Commissione era formata da tre cardinali e fece languire quel fanatico per 18 anni in prigione, anche su parere di san Bonaventura.

Effetti negativi ebbero anche i vari movimenti penitenziali, cominciando da quello degli spirituali (che si dissero gioachimiti) e continuando con Iacopone da Todi, il "pazzo di Dio", laudisti, disciplinati, apostolici, "alleluia" (1233), fraticelli che giravano di notte a migliaia, in processione, con candele accese. Però Onorio III considerò cattolico Gioacchino - come abbiamo visto - e intervenne per sedare le lotte fra cistercensi e florensi. Anche altri papi furono favorevoli a Gioacchino.

Per il Piromalli è esagerato intendere tutta la Divina Commedia ispirata da Gioacchino. In essa Dante ha voluto celebrare l'essenza della spiritualità di san Francesco, facendo non soltanto bella poesia, ma anche profezia, intesa - questa - come anelito di rinnovamento.

Circa il Liber figurarum il Piromalli, pur non essendo completamente convinto dell'attribuzione a Gioacchino, concorda col Tondelli sull'interpretazione "dantesca" di molte figure, concludendo che Dante non accettò le profezie gioachimite sul piano dottrinario, né quella visione che precede la "Città del Sole" di Tommaso Campanella: unico regno retto da una religione razionale naturalistica.

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Gioacchino e Dante

Nel codice 1411 (sec. XIV) della Biblioteca Casanatense di Roma contenente le opere di Gioacchino Expositio in Apocalypsim e Concordia l'Ottaviano notò un foglio aggiuntivo, il 191 r, che si riferisce alla condanna del 1215; e l'importanza della scoperta fu riconosciuta dalla Reeves in "Sophia" del 1951. Premesso che la dottrina triteistica era universalmente presentata come dottrina gioachimita, il filosofo siciliano rilevò in quel foglio aggiuntivo: a) lo sgomento che la condanna portò fra i seguaci di Gioacchino; b) la fama miracolosa di Gioacchino, accompagnata dalla convinzione popolare dell'ortodossia di quella dottrina e dell'attesa di un talis vir[27] (che per l'Ottaviano potrebbe essere il Veltro dantesco), il quale avrebbe cambiato in gioia il dolore di coloro (seguaci) che furono turbati dalla condanna dell'opera del profeta; e) la rappresentazione di Pietro Lombardo come creatura infernale; d) la previsione che i migliori dottori della Chiesa si sarebbero schierati purtroppo col Lombardo.

Gabriele Rossetti, patriota e letterato, nei suoi commenti all’Inferno, in uno studio sulla Riforma e in altre opere tutte pubblicate a Londra, dove fu esule dal 1824 al 1854, sostenne addirittura un Dante eretico e acattolico, capo di una non meglio specificata "setta ghibellina" e adepto di una comunità iniziatica.

Fin dal 1861 Xavier Rousselot, scrivendo una storia dell’Evangelo eterno pubblicata a Parigi[28], insinuava che Dante, oltre alla terminologia, dovesse qualcosa allo spirito non proprio ortodosso di Gioacchino. Poi qualche altro presentò Dante addirittura come scomunicato e coinvolto nella rivolta dei francescani toscani che accompagnò la discesa di Arrigo VII di Lussemburgo.

Ambrogio Donini, in un confronto del pensiero di Dante col movimento gioachimita, osserva invece che vari profeti, anche dopo di Gioacchino e Dante, previdero la fine del potere temporale dei papi e il trionfo dell'Aquila (motivo, questo, della particolare avversione di certi ecclesiastici nei confronti di Dante) senza per questo essere dichiarati o definiti eretici[29].

Bisogna aggiungere che nel 1263, qualche anno dopo la condanna da parte della Commissione di Anagni, il Concilio Provinciale di Arles (nel quale fra l'altro si decise l'istituzione della festa della Trinità) lanciò l'anatema contro Gioacchino e tutti i suoi seguaci.

Setta ereticale fu considerata anche quella dei pauperes Celestini, gruppi di poveri riuniti attorno all'ex pontefice Celestino V. Pietro di Morrone, eletto papa nel 1294, era fedele a Gioacchino e aveva accolto alcuni spirituali esuli, entusiasti dell'abate calabrese. La sua abdicazione generò sconforto in tutti i gioachimiti e in Dante a causa del subentro di Bonifacio VIIl; e Dante, accusandolo di viltà, condannò Celestino V nel vestibolo dell'inferno, nonostante che la Chiesa l'avesse dichiarato santo nel 1213[30].

Gioacchino morì a Pietralta o Petrafitta, secondo alcuni; secondo altri, a Corazzo o S. Martino di Canale o S. Giovanni in Fiore. La sua morte avvenne quando san Francesco, nella malattia della sua prigionia a Perugia, concepiva i primi germi della sua conversione tutta basata sul principio di povertà. E già prima ancora delle mistiche nozze del serafico santo con madonna povertà Gioacchino aveva proclamato che il vero monaco non doveva ritenere suo null'altro che la cetra. Nell'ordine francescano si videro praticamente realizzate le previsioni di Gioacchino; e i francescani rigorosi (veri e propri gioachimiti) si dissero "spirituali" con tipico termine gioachimita dedotto dalla profezia relativa alla Terza Età, detta dello Spirito Santo.

Il Donini ricorda che Gioacchino è figlio di una terra che aveva conosciuto le organizzazioni mistico-politiche del neopitagorismo e che Enrico VI, il "secondo vento di Soave" di dantesca memoria[31], aveva elargito i suoi favori all'ordine florense; e ciò, nonostante che l'abate lo avesse indicato come persecutore della Chiesa.

A questo punto non si può dimenticare inoltre che i ghibellini italiani avevano come punto di riferimento Federico II, figlio di Enrico VI: la sua avversione alla Chiesa, intesa come eresia, fece sì che tutti i suoi seguaci fossero ritenuti eretici e lui stesso identificato con l'atteso Anticristo. (Inf. X)

Ma contro ogni esasperazione del pensiero dantesco e per una giusta collocazione di Dante nell'ortodossia cattolica - cosa peraltro riconosciuta dalla stragrande maggioranza dei critici - è opportuno concludere quest'argomento con un'affermazione di Pasquini-Quaglio: "Fermenti apocalittici di rigenerazione messianica agirono certo in lui, ma senza estremismi di sorta; e nutrirono la sua maturità, nonché la concezione stessa del poema"[32]; senza dimenticare il congruo giudizio del Figurelli: "La dottrina religiosa di Dante è certo strettamente aderente all'ortodossia cristiana, alle correnti spirituali francescane e domenicane e alla teologia scolastica, indenne da ogni concessione a correnti ereticali. Ma la poesia che nasce da essa è fuori dalle formulazioni dottrinali..."[33].

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San Giovanni in Fiore

San Giovanni in Fiore è un comune in provincia di Cosenza con oltre 20.000 abitanti, sito a m. 1049 s.l.m. in una zona impervia e scoscesa della Sila Grande, oggi in certa misura disboscata. Esso è tuttora punto di riferimento del gioachimismo, perché, oltre alla monumentale abbazia e alle spoglie del profeta, ospita dal 1982 il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, riconosciuto dall'Amministrazione Provinciale e da quella Regionale, il quale pubblica la rivista "Florensia", è dotato di un patrimonio librario di grande rarità ed interesse e raccoglie nella biblioteca strumenti d'indagine e ricerca quali libri, codici, microfilm, ecc.

L'attuale abitato è l'espansione dell'antico borgo medievale che si era costituito attorno al monasterium florense, fondato dall'abate Gioacchino nel 1189. Il toponimo odierno risulta dall'associazione del nome di san Giovanni Battista, patrono della città, al toponimo latino Flos[34], che può riferirsi ad un personaggio di nome Fiore, ad un fiore materiale o ad un fiore spirituale. Probabilmente fu lo stesso Gioacchino che chiamò Fiore il suo cenobio in senso spirituale.

Qui, per inciso, non si può non notare la stranezza del patrocinio di san Giovanni Battista in un luogo che dall'abate Gioacchino era stato consacrato a san Giovanni Evangelista, di cui lo stesso Gioacchino era stato devoto, interprete ed epigono, proponendo a modello la sua contemplatività e facendo di quel luogo un centro di studi giovanneo-evangelistano. Il patrocinio del Battista è dovuto probabilmente ad una confusione, allo scambio di un Giovanni con l'altro. L'Evangelista, infatti, è poco noto per il fatto che l'iconografia sacra non si è occupata che marginalmente di lui, senza peraltro rappresentarlo con un'immagine appariscente che potesse colpire la fantasia e la memoria, rimanendo impressa: lo si raffigura con un libro aperto (Apocalisse), una piuma per scrivere e un'aquila accanto ovvero accanto a Gesù nell'Ultima Cena, quale suo prediletto. Al contrario il Battista è più conosciuto e venerato dal popolo per quei particolari non solo della vita ma anche delle raffigurazioni che facilmente sono attecchiti presso il popolo: il vestito di pelle, la croce con la scritta Ecce Agnus Dei[35], l'agnello e la mano protesa nel battezzare, magari con sopra la colomba dello Spirito Santo; e poi c'è il fatto importante che fu il battezzatore di Gesù e fu decapitato per i capricci di una donna scostumata, per cui a volte si rappresenta anche la sua testa mozzata su un vassoio: particolare raccapricciante che rimane indelebile nella memoria di chicchessia. Sul Battista ci sono leggende, sacre rappresentazioni, commedie[36]; la sua immagine finì anche sui fiorini, tanto che Dante ne parlò quasi con apparente disprezzo (Par. XVIII, 133-136)

Ben puoi tu dire: "I' ho fermo ‘l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro
Ch'io non conosco il Pescator né Polo".

Insomma, da un san Giovanni ad un altro san Giovanni: l'Evangelista non è un santo popolare e per questo probabilmente ha dovuto cedere il posto al Battista[37].

Non è da sottacere qui che per chi conosce la vita, il pensiero e l'opera del profeta Gioacchino il toponimo San Giovanni in Fiore ha un solo significato: Monastero di san Giovanni Evangelista sito in Fiore. Pertanto una diversa interpretazione o un diverso effetto sorto nel tempo (come il patrocinio, il culto e il simulacro del Battista esposto sull'altar maggiore della chiesa di quel monastero) sono una stonatura e una delusione.

La regola della congregazione florense, approvata da Celestino III nel 1196, era ispirata a quella cistercense, della quale lo stesso Gioacchino era stato monaco e nella quale essa confluì quattro secoli dopo la sua fondazione.

Oggi nell'abbazia non c'è più alcuna comunità monastica; la chiesa - per il culto - è sotto la giurisdizione del parroco della vicina chiesa matrice (o duomo) di Santa Maria delle Grazie, il quale conserva il titolo onorifico di abate. L'abbazia è in parte chiusa, in parte trasformata in casa di riposo per anziani, scuola materna, museo demologico e centro sociale cittadino per incontri, riunioni, mostre, ecc.

Di solito, quando si parla di monasteri, si pensa a luoghi isolati e di montagna a cui si arriva dopo una salita più o meno ripida. All'abbazia florense, invece, si giunge facendo l'ultimo tratto di strada in discesa, attraverso un groviglio di vicoli e case che di fatto le stanno a ridosso, soffocandola e togliendole spazio, respiro e maestosità. Solo nel retro è stato ricavato uno spazio per automobili e corriere.

Il complesso monumentale è in condizioni precarie, nonostante i recenti restauri, ma conserva le caratteristiche dell'epoca. Una lapide all'esterno ricorda un episodio di resistenza nella 2a guerra mondiale; nulla invece di Gioacchino e della sua vicenda.

La chiesa è una basilica romanica a una navata senza affresco né intonaco, ma in nuda pietra, grezza e mal amalgamata.

Entrando nella chiesa si ha l'impressione di essere tornati indietro di molti secoli e di essere precipitati nel buio del medioevo, non soltanto per la scarsezza della luce che a stento vi filtra dalle sei finestrelle dell'abside e da poche altre laterali, ma anche per lo stato dell'edificio, del suo arredo e delle sue suppellettili.

Interno della chiesa dell'abbazia

All'interno, ai lati del portone d'ingresso, due lapidi finalmente ci confermano che siamo nel monastero di Gioacchino da Fiore: la sinistra in italiano "A Gioacchino da Fiore profeta dello Spirito" ricorda il primo congresso di studi gioachimiti svoltosi nel 1979; la destra in latino (neanche murata, ma solo appoggiata al pavimento, forse a causa del suo eccessivo peso oppure in attesa di essere murata e poi dimenticata a terra) ricorda la storia del "pervetustum hoc templum", di questo antichissimo tempio dedicato già da tempo allo Spirito Santo e a san Giovanni Apostolo (ovviamente l'Evangelista) e recentemente anche alla Beata Vergine Maria, i restauri, il 3° congresso di studi gioachimiti e la celebrazione dell'8° centenario della fondazione nel 1989.

Nell'attigua sacrestia sono esposti messali d'epoca, breviari, pannelli con la regola dell'ordine e altro materiale attinente alla vita dell'abbazia.

Dirigendosi verso la cripta sotterranea si nota un grande busto marmoreo dell'abate Gioacchino.

Busto marmoreo di Gioacchino

Nella cripta, naturalmente molto buia ma con buona illuminazione elettrica, si nota a sinistra la nicchia con la preziosa urna d'argento artisticamente lavorato che contiene le spoglie di Gioacchino, visibili attraverso le pareti di vetro. Nonostante siano trascorsi quasi otto secoli dalla sua morte, esse sono ben conservate: si riconoscono chiaramente il cranio e altre ossa. Ed è un miracolo se sono arrivate fino a noi dopo tanto tempo.

Di fronte a quest'urna ogni devoto o studioso non può non sentirsi attraversare il corpo da un brivido di emozione. Sopra la nicchia si leggono i versi di Dante:

... e lucemi da lato
il calabrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.

Tomba di Gioacchino

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Fiore e frutto

Gioacchino da Fiore per la Chiesa non è né santo né beato, anzi alcune sue teorie incorsero nella condanna ecclesiastica; ma è stato sempre venerato come un beato. Infatti nell'uffizio quotidiano dei monaci florensi e nella ricorrenza della sua festa, celebrata il 30 Marzo e il 29 Maggio, egli veniva esaltato così: "Beatus Joachim, spiritu dotatus prophetico, decoratus intelligentia, errore procul heretico, dixit futura ut presentia"[38]. Tuttora la sua urna e il suo simulacro sono oggetto di devozione, onorati con pellegrinaggi e adornati con fiori, perché la pietà popolare lo ha dichiarato beato pur in assenza di una decisione pontificia. Un tempo tanti santi nascevano dalla pietà popolare (vox populi vox Dei)[39] e poi finivano sul calendario.

Se - come pensiamo - è stato lo stesso Gioacchino a dare il nome di Fiore al suo cenobio, egli lo ha fatto sulla scorta del vangelo di Giovanni 15, 1-8: "Io sono la vite. Voi siete i tralci. Se uno rimane unito a me e io a lui, egli produce molto frutto... La gloria del Padre mio risplende quando portate molto frutto...". Infatti, è naturale che dopo ogni fiore venga il frutto: era negli auspici del profeta calabrese che dal Fiore da lui fondato derivasse l'atteso Frutto spirituale.

Ci sono sempre stati coloro che hanno creduto nelle profezie di Gioacchino da Fiore e che tuttora ci credono. Fra costoro ci fu Dante Alighieri, che, pur non aderendo alle tesi condannate, rimase in attesa del rinnovamento della Chiesa e della società, secondo le indicazioni del profeta calabrese; rinnovamento che avrebbe portato quel "frutto" da lui fatto preannunciare anche da parte di Beatrice nel canto XXVII del Paradiso, verso 148:

E vero frutto verrà dopo il fiore.

A nessuno sfugge in questo verso l'accostamento del frutto al fiore, con probabile riferimento allo stesso citato brano del vangelo di Giovanni. Grazie al rinnovamento previsto da Beatrice, a breve scadenza sarebbe venuto un vero frutto, che avrebbe portato a compimento il fiore della buona volontà degli uomini non accecati dalla cupidigia (vv. 121-126), E non è escluso che nella mente di Dante questo fiore possa essere stato per sinèddoche proprio Gioacchino da Fiore, con le sue idee legittime, le sue speranze, le sue profezie, il suo laicato (populus, ovis, nazion) guidato da un clero rinnovato (canis, Veltro), il suo monastero di San Giovanni in Fiore e la sua comunità, a conferma del carisma da questo profeta esercitato anche sul divino poeta: un carisma e una notorietà che, a quanto affermano il De Felice e la Sala, determinarono dal Duecento in poi la diffusione del nome personale Gio(v)ac(c)chino[40].

Quanto alla parola profeta, è da precisare che il greco προφήτεϛ[41] significa: chi parla per un dio e proclama la sua volontà; quindi colui che interpreta e annunzia la volontà divina; predicatore, maestro, ispirato, rivelatore di decisioni divine relative al futuro. Il corrispondente termine ebraico nabì nel suo significato comprende anche il senso della vocazione: inviato, chiamato ad annunziare il pensiero divino. Come si vede, l'annuncio delle cose future deriva dalla piena conoscenza della volontà divina: il significato della conoscenza, dell'annuncio e dell'invio per scelta da parte di Dio è preminente su quello della predizione. Del resto, nella professione di fede cattolica - il Credo, simbolo apostolico - il fedele proclama di credere nello Spirito Santo "qui locutus est per prophetas", cioè che ha parlato per mezzo dei profeti. Praticamente il profeta è visto come portavoce di Dio-Spirito Santo.

E in tale dimensione Gioacchino da Fiore è stato visto dai suoi contemporanei, da Dante, dai seguaci e dai devoti di tutti i tempi. Gioacchino nelle sue visioni aveva un rapporto immediato con Dio; il futuro, secondo lui, era basato su somiglianze o "concordie" col passato: il che ha qualcosa di vichiano. E una giustificazione logica e consequenziale della definizione di "profeta" per Gioacchino è data per successivi passaggi dal Tagliapietra, partendo proprio dalla spiegazione dettagliata del termine "concordia"[42].

San Gregorio Magno (540-604) aveva previsto come prossima la fine del mondo e l'attendeva vigilando e ammonendo secondo l'insegnamento evangelico. In questo senso furono profeti anche lui e san Bernardo di Chiaravalle (1091-1153).

Il nostro profeta calabrese prevedeva e predicava una renovatio generale preparatoria alla fine del mondo, ma poi i suoi seguaci parlarono in nome suo di prossima fine del mondo. Egli vaticinava invece la prossima fine di quella struttura della Chiesa allora vigente, a favore di una Chiesa contemplativa.

Il messaggio gioachimita fermentò tutto il sec. XIII; e toccò proprio ad un pontefice avverso a Dante rendersi interprete di esso, sia pure involontariamente. Quando nel 1300 Bonifacio VIIl indisse il Giubileo, di fatto venne incontro all'attesa di un perdono generale in vista di un evento straordinario che avrebbe potuto essere prossimo; e in ciò si metteva sulla linea del profetismo e delle attese gioachimite.

Perciò Dante collocò il suo viaggio e la sua visione proprio nel 1300, anno giubilare e fatale. Egli non poteva fare a meno d'imbattersi nel profetismo gioachimita frequentando il convento francescano di Santa Croce dove visse Pietro di Giovanni Olivi che nel 1297 pubblicò un clamoroso commento all'Apocalisse (poi condannato) e fece di quel convento fiorentino il centro del profetismo.

E che il messaggio gioachimita abbia inciso profondamente in Dante si nota anche da certe analogie, prima fra tutte quella della selva oscura: in alcuni versi attribuiti a Gioacchino (Visio de gloria Paradisi) un uomo si smarrisce in una selva oscura ed è impedito nel suo cammino da bestie come linci, leoni e serpenti.

Tuttavia Dante trasse dal profeta calabrese - ripetiamo - non la sua dottrina ma solo immagini e fermenti per la sua poesia.


Parte seconda
Liber figurarum
e Divina Commedia

Il Liber figurarum

Del Liber figurarum esistono pochi manoscritti. Copie complete, o quasi, sono quelle del seminario vescovile di Reggio nell'Emilia, del Corpus Christi College di Oxford e della Sächsische Landesbibliothek di Dresda. Esistono poi frammenti vari nella Biblioteca Vaticana, nella Nazionale di Parigi, nell'Ambrosiana di Milano, nella Marciana di Venezia, nel British Museum di Londra, nella Centrale di Vienna.

Seminario di Reggio Emilia

Però le tavole più nitide e vivaci, veri e propri gioielli dell'arte della miniatura sono quelle del codice di Reggio, a cui in maggior parte qui ci riferiremo. Premesso che il codice di Reggio si trova in una custodia contenente un altro manoscritto con altre opere di Gioacchino, potrà interessare conoscere come si arrivò alla loro scoperta.

Il prof. don Pietro Ferraboschi in una memoria depositata nella stessa custodia dei due codici racconta che nell'estate del 1936 il vescovo chiese ad alcuni seminaristi di riordinare e schedare alcuni libri raccolti in un salone del vescovado, che costituivano una parte della biblioteca del seminario. Si trattava per lo più di libri sacri, perché ai tempi della repubblica cisalpina per costituire le biblioteche civiche l'autorità municipale aveva portato via tutti i libri profani, lasciando quelli sacri.

In questo lavoro il Ferraboschi e un altro seminarista notarono due splendidi manoscritti su pergamena, illustrati e miniati, che non riuscirono né a catalogare né a decifrare, neanche ricorrendo ad uno studente di paleografia. Fortunatamente quest'ultimo ebbe ad incontrare mons. Leone Tondelli, arciprete della cattedrale e docente del seminario, al quale consegnò i due codici; e il Tondelli, studioso di chiara fama, dopo qualche giorno ebbe la certezza che si trattava di opere di Gioacchino da Fiore, una delle quali il Liber figurarum. Era il gennaio del 1937. Da allora lo studioso reggiano dedicò la sua vita allo studio, all'interpretazione, alla diffusione e alla valorizzazione di questo Libro delle figure, al pensiero di Gioacchino e ai suoi rapporti con Dante, fino alla morte, avvenuta nel 1953.

Da notare anche che i due codici si trovavano in una cassa contenente anche libri di genealogia della famiglia Buonaparte, oltre che classici come quelli del Leopardi, e appartenevano quindi ad un collezionista intenditore. Il nome di un proprietario risulta nel retro della copertina del Liber: il conte Francesco della Rocca, sacerdote di Reggio; sotto il quale un appunto precisa: "Magnifico nobile lavoro, di cui il simile non si scorge nelle più rinomate Biblioteche".

I due codici misurano circa cm. 25 x 35 e hanno uguale copertina, rossa. Il Liber figurarum consta di 20 fogli, miniati e scritti solo nel recto, ad eccezione dell'ultimo, scritto anche nel verso.

L'altro codice consta di 37 fogli, scritti su due colonne ciascuno nel recto e nel verso. Le uniche illustrazioni sono quelle delle lettere capitali, bellissime. Questo codice contiene i Tractatus e scritti minori di Gioacchino, che figurano anche nel codice dell'Antoniana di Padova.

Sia consentito esprimere qui l'emozione provata nell'avere fra le mani e sotto gli occhi un libro così raro e prezioso, sul quale molto probabilmente studiò anche Dante. Solo chi ha avuto la fortuna di vedere direttamente e personalmente un libro siffatto può rendersi conto del mirabile splendore delle tavole, della finezza della lavorazione, della scelta e dosatura dei colori[43].

Per inciso qui ricordiamo che l'emiliana città di Reggio fu probabilmente la sesta tappa dell'esilio di Dante; ma in ogni caso - come abbiamo detto - prima dell'esilio c'era stato per lui, a sua disposizione, il convento fiorentino di Santa Croce, centro di cultura francescana e gioachimita.

Davanti a questa stupenda opera sembra che il tempo si sia fermato e che si sia ritornati indietro di otto secoli. Infatti, per l'età che ha, il libro è in condizioni pressoché ottime; e non sembra che sia stato restaurato.

Il titolo Liber figurarum e alcuni particolari di esso, unitamente al nome di Gioacchino chiaramente indicato come suo autore, risultano anzitutto nella Cronica di fra' Salimbene da Parma, scritta nel sec. XIII. Ciò è una delle prove della genuinità dell'opera. Ma già nel protocollo di Anagni del 1255 si parla di un'ispezione fatta anche alle "figure eseguite dallo stesso Gioacchino": e delle sue figure parla lui stesso nelle sue lettere. Importante è infine la testimonianza di tre cronisti inglesi al seguito di Riccardo Cuor di Leone nella terza crociata (1190): Raul di Coggeshall, Ruggero di Hoveden e Benedetto di Peterborough.

Il re inglese, trovandosi di passaggio in Sicilia e avendo conosciuto la fama del profeta calabrese, volle incontrarsi con lui per avere una profezia sulla spedizione contro il Saladino.

Nella Cronaca di Ruggero di Hoveden è descritto l'incontro di Messina ed è ampiamente citata la figura del drago rosso con la testa del Saladino, la quale fu da Gioacchino esibita al re e al suo seguito. In quest'opera non si dice se in quell'occasione Gioacchino abbia donato al re una copia del Liber figurarum e se poi il re l'abbia portata a Oxford, sua città natale. Per quanto fantasioso, viene spontaneo pensare ciò, sapendo che una copia di quell'opera è oggi conservata nel Corpus Christi College di Oxford e quindi ipotizzando così l'arrivo della copia in quella città. Ma quest'ipotesi finora non è confortata da prove.

Circa l'attribuzione del Liber a Gioacchino, dunque, si può affermare senza ombra di dubbio che esso è opera, se non della mano, della fervida mente del nostro abate calabrese, eseguito materialmente su suo ordine e sotto la sua guida, quale trasposizione ed esplicazione del pensiero gioachimita dettagliatamente esposto in varie sue opere.

A favore della genuinità depone anche il fatto che il Liber fu scoperto insieme ad un altro codice di Gioacchino, dello stesso formato, della stessa rilegatura e stessa copertina. Il Tondelli ha fatto diversi interventi sulla genuinità del Liber: nella biblioteca del seminario reggiano esiste una raccolta di suoi scritti di contenuto gioachimita.

Non si deve dimenticare poi la lunga tradizione che vuole Gioacchino bravo pittore: ne è prova l'attribuzione a lui (come ideatore e ordinatore) dei mosaici della basilica veneziana di san Marco.

Anche il D'Elia, in un'opera posteriore di mezzo secolo a quella del Tondelli e pur essa preziosa per il contributo d'idee e di documentazione, riconosce senza incertezze l'autenticità del Liber figurarum: "La compresenza di non poche figure nelle tre maggiori opere gioachimite, e poi il tono profetico e il linguaggio allegorico figurale e, ancor più, l'essenzialità delle dottrine esegetiche e storico-escatologiche dell'abate florense richiamano all'inconfondibile universo gioachimita"[44].

Le tavole del Liber figurarum, poi, sono ben descritte, interpretate e spiegate anche da Andrea Tagliapietra nel suo recente e profondo lavoro sull'Apocalisse[45]. Tuttavia questo studioso non depone con piena convinzione a favore dell'autenticità del Liber, collocandolo nell'Introduzione sotto la voce "Opere perdute, dubbie o apocrife" del profeta calabrese e nella Bibliografia sotto la voce "Opere di Gioacchino da Fiore" (nella Bibliografia c'è anche la voce "Principali apocrifi" dove non figura il Liber). Nell'Introduzione egli dà al Liber il dovuto rilievo come opera gioachimita, illustrandone ampiamente caratteristiche e particolari, pur non dando apprezzabile importanza al rapporto tra le figure e la Divina Commedia, di cui tuttavia riferisce le varie ipotesi e i motivi del sostegno.

Ci soffermiamo ora su alcune figure che più stretto rapporto hanno con la Divina Commedia.

° ° °

Disposizione del nuovo ordine nella Terza Età / Il Veltro (tav. XII)[46]

Tav. XII

Questa tavola rappresenta una grande croce greca con due basamenti di differente larghezza. Ai quattro lati della croce ci sono i quattro attributi che nella tradizione medievale si usavano per indicare allegoricamente il Cristo: homo perché s'incarnò, vitulus perché s'immolò, leo perché risorse, aquila perché ascese al cielo. Al centro della croce domina columba, tradizionalmente simbolo dello Spirito Santo e della Terza Età profetizzata da Gioacchino, mentre i due basamenti sono dominati rispettivamente da canis e ovis; e ogni terminazione ha elementi del corpo umano (sei dei sette sensi), che a partire dall'alto sono oculus, auris, nasus, manus, os, pes, per concludersi in basso con corpus[47].

La tavola gravita su Apocalisse XXI e sul salmo 95(94).

Oltre alla grande croce nella figura si ritrovano altre due o anche tre croci.

Anzitutto una nota tecnica: nel codice di Reggio manca la parola ovis, presente invece nei codici di Oxford, Vaticano e Dresda. Ad un'attenta osservazione il codice di Reggio non rivela abrasioni o cancellature di qualsivoglia natura nel punto in cui questa parola avrebbe dovuto essere scritta. Non resta dunque che pensare ad un'omissione del copista. Peraltro il senso dell’ovis (e tutto il discorso che ne deriva a proposito dell'utilizzazione della figura da parte di Dante) è implicito nella frase che sovrasta il basamento più basso, scritta in caratteri piuttosto evidenti, a sinistra: "Nos autem populus eius et oves pascue eius" (pascue sta per pascuae). La frase, che continua a destra, è presa dal salmo 95(94), dove si parla chiaramente del "gregge che egli conduce"; e introduce così al sottostante oratorium riferito al popolo di Cristo, detto "pecore del suo pascolo", su cui deve vegliare il canis.

E importante notare fin da ora la parola populus, che Dante nell'episodio del Veltro tradusse con nazion.

Come si vede la Terza Età, che ha al centro la colomba dello Spirito Santo e ai lati vari ordini (o congregazioni) religiosi è tutta basata su un laicato (popolus, ovis, nazion) e su un clero (canis, Veltro) rinnovati e ridisegnati da Gioacchino, i quali costituiscono i due basamenti della costruzione logica e figurativa di questa tavola.

Diciamo subito che per il D'Elia questa tavola altro non sarebbe che il progetto poliforme di un'abitazione monastica, una specie di disegno architettonico in cui sono anche indicate delle distanze. Egli è perciò contro l'ipotesi di delineazione di una nuova società nella Terza Età e più particolarmente del canis-Veltro-clero formulata dal Tondelli (di cui stiamo per parlare), rimanendo tuttavia favorevole ad un'interpretazione estensiva del Veltro, quale può scaturire da tutta l'opera gioachimita: cioè, attesa di una palingenesi e di un "pastor angelicus" che col suo esempio guidi la nuova società. Ma l'intitolazione della tavola "Disposizione del nuovo ordinamento relativo al terzo stato a somiglianza della celeste Gerusalemme" e altri particolari danno ragione al Tondelli.

Ad ogni animale, compresa la colomba, è assegnato da Gioacchino un oratorium (quindi sette oratoria, quanti sono i doni dello Spirito Santo), cioè una congregazione religiosa nel contesto dell'Ordinamento generale della Terza Età, ordinamento o ordine qui definito corpus.

L'attenzione del Tondelli[48] si è appuntata sulla parola canis in rapporto ad ovis e sui rispettivi oratoria, individuando proprio in questo cane il Veltro di Dante (Inf. I, 100-105):

Molti son li animali a cui s'ammoglia
e più saranno ancora, infin che ‘l Veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Delle varie interpretazioni del Veltro avanzate nei secoli, finora nessuna si è dimostrata sicuramente valida. Si è parlato di un imperatore o di un suo rappresentante (Arrigo VII di Lussemburgo, Uguccione della Faggiola, Cangrande della Scala, ecc.), di Gesù Cristo o di un suo vicario (es. Benedetto XI), di Dante stesso e della sua opera, di una persona indeterminata. Chiaro riferimento a Gioacchino da Fiore ha fatto il Papini[49], il quale ha proposto lo Spirito Santo per il fatto che questo avrebbe dominato la Terza Età, la cui nazion (intesa in questo caso come popolazione e non come nascita) sarebbe vestita di "feltro e feltro", cioè di umilissimi panni come voluto da Gioacchino nell'idea della sua riforma.

Ora, alla luce di questa tavola di Gioacchino, la proposta del Papini, pur rimanendo valida nella sostanza, viene rettificata nei particolari. Qui il canis di Gioacchino è simbolo del nuovo clero, il quale fa da guida e guardia all'ovis (gregge) che è simbolo del laicato. Insomma, in quella famosa Terza Età il canis-clero guiderà l'ovis-gregge del laicato con l'esempio della povertà e della penitenza.

Nell’oratorium del canis-clero, intitolato a san Giovanni Battista e a tutti i santi profeti, i sacerdoti e i chierici (oltre al fatto che devono essere celibi e badare a studiare la grammatica e ad insegnare ai fanciulli e giovani a parlare in latino, leggere, scrivere e imparare a memoria la Bibbia) non devono usare pallii, ma soltanto cappe; devono digiunare, obbedire e versare le elemosine raccolte ai superiori per le necessità dei poveri. Sono i continenti o casti.

Nell’oratorium dell'ovis-laicato, intitolato a sant' Abramo e a tutti i santi patriarchi, le disposizioni sono varie: i laici possono sposarsi non per libidine, ma per procreare, e ogni tanto devono praticare l'astinenza e il digiuno per darsi alla penitenza e alla preghiera; devono prendere in comune il vitto e il vestiario, obbedire ai superiori, evitare l'ozio ed esercitare delle arti, ognuna delle quali con un suo preposto, usare vestiti semplici e non colorati; le donne lavoreranno la lana per i poveri, facendo da madri ed educatrici di giovinette e ragazze nel timor di Dio; tutti devono versare le decime ai chierici per il sostegno dei poveri e pellegrini, distribuendo il di più fra i meno abbienti. Sono i coniugati.

Questa, dunque, è la nazion del Veltro, nel quadro del rinnovamento gioachimita: una comunità di laici a guisa di "terz'ordine" posta a base del nuovo ordinamento sociale visto a somiglianza della Gerusalemme celeste.

Ora, se si tiene conto che Dante viveva in un periodo fortemente impregnato della spiritualità dei francescani e di altri movimenti religiosi, che lui stesso condivideva il bisogno di una riforma della Chiesa e della società, che il Veltro, praticando saggezza-amore-virtù, avrebbe dovuto opporsi alla lupa-cupidigia (ma anche lupa romana, curia romana, papato), contrastandola con l'esempio della sua povertà e del suo disprezzo per i beni materiali, il cane dantesco non può che essere il canis-clero di questa tavola di Gioacchino. Infatti più volte Dante rimproverò agli ecclesiastici di inseguire i beni terreni e perdere di vista lo scopo della loro missione tra gli uomini, "tutti sviati dietro al malo esemplo" (Par. XVIII, 126), poiché "in terra non è chi governi / onde si svia l'umana famiglia" (Par. XVII, 140-141).

Accettare da parte di Dante l'idea di una nuova discesa pentecostale dello Spirito Santo nella Terza Età avrebbe significato per lui porsi al di fuori della Chiesa. Che poi il canis-clero possa compendiarsi nella figura di un alto esponente come Benedetto XI, ciò è possibile considerando la lunga attesa del "pastor angelicus" della tradizione medievale e che questo papa succedeva ad un altro come Bonifacio VIII, che tanto aveva deluso Dante, non senza un riferimento al fatto che il trevisano Benedetto XI[50], poi beatificato (ma qui non c'entra la posizione di Treviso nell'asse piuttosto vago Feltre-Montefeltro come alcuni hanno inteso l'indicazione "tra feltro e feltro" della sua nazion, quanto piuttosto il fatto che, di umili origini, egli non se ne vergognò mai e accolse alla presenza della corte romana la madre ricoperta di panni vilissimi), era un generale domenicano, cioè di quell'ordine dei predicatori o Domini canes che aveva nello stemma un cane e il cui fondatore san Domenico, esaltato da Dante nel canto XII del Paradiso, era stato preconizzato alla madre proprio come un cane.

Insomma, nel Veltro Dante siglò l'aspirazione costante della sua vita e della sua opera al rinnovamento della Chiesa e della società, secondo lo spirito di povertà voluto da Gesù, san Francesco d'Assisi, san Domenico e Gioacchino da Fiore stesso, il quale ultimo gli fornì con la sua figura l'idea del canis. Perciò egli pone fin dall'inizio tutto il poema sotto la profezia di rinnovamento del Veltro.

E a proposito di sigle, ad analoghe conclusioni perviene chi, per l'interpretazione del Veltro si rifà non a questa figura, ma ad un brano della Concordia in cui Gioacchino scrive che il mondo è in attesa di un uomo simile a Zaccaria, Giovanni Battista e Cristo, per predicare e sciogliere la durezza dei cuori. Poiché nell’Introductorius G(h)erardo vide in quest'uomo un nuovo Elia vestito di umili panni, la parola Veltro sarebbe l'acrostico o sigla di "Veniet Elia Totum Renovabit Orbem", alludendo a quella renovatio attesa da Dante per il nuovo mondo; e il significato misterioso della parola sarebbe "Un nuovo Elia verrà a rinnovare tutto il mondo". In questo modo il Veltro si collegherebbe al "dux" visto nel "cinquecento diece e cinque" di Purg. XXXIII, 43, anagrammando le tre cifre romane DXV; "dux" profetizzato nella stessa Concordìa. Ora, se le conclusioni attengono alla stessa attesa di rinnovamento, questa interpretazione riportata da Luigi Verardi in un suo articolo[51] è piuttosto enigmistica o cabalistica; e, se potrebbe andar bene per un personaggio come Gioacchino, ci sembra inadatta ad uno come Dante. Sono più verosimili i riferimenti alla figura del canis per tutto quello che abbiamo esposto.

Con questo, fermo restando il riferimento "visivo" al canis-clero della figura gioachimita, è bene tener presente che nel Veltro di Dante c'è l'idea di un rinnovamento basato non soltanto sulla purificazione del clero, sul ritorno alla povertà e alla semplicità, ma anche sul ristabilimento dell'ordine mondiale secondo l'ideologia dantesca. In questo senso si può parlare di un collegamento, ma non d'identità, fra il Veltro, la Croce, la M di Iustitiam, Monarchia e Mundus, l'Aquila, il "cinquecento diece e cinque" e il DXV-"dux".

Certamente la tavola XII è meglio descritta dal Tagliapietra[52], il quale, oltre a vedere nella figura il profilo di un ostensorio, afferma che essa rappresenta la pianta della Gerusalemme celeste di cui in Apocalisse XXI, la rappresentazione grafica dell'ordine ascetico venturo e il progetto architettonico di un monastero, pur non negando il significato dantesco del canis. In realtà è lo stesso Gioacchino che in Enchiridìon XIV-XV spiega la Gerusalemme celeste in modo tale da farci capire che la tavola XII è la sintesi figurale di quanto esposto nell'Enchiridion stesso, dove la discussione continua anche al XVI con la citazione della Città del Sole di cui in Isaia 19,18. La corrispondenza tra la spiegazione e la tavola non è perfetta: ad esempio, nella prima mancano le indicazioni canis e ovis; ma questo non toglie che il pensiero sia sempre rivolto alla migliore organizzazione della società terrena in una Civitas Solis (Città del Sole, di Dio o di Cristo) a somiglianza della Gerusalemme celeste.

Per evidenziarne il processo logico e capire meglio le conclusioni della tavola XII, ne cerchiamo i precedenti nell'Enchiridion XIV-XVI, integrando elementi dell'una con elementi dell'altra opera.

Nella sua attività speculativa, dunque, il veggente calabrese immagina la Città di Dio o Città del Sole, somigliante alla Gerusalemme celeste, come un blocco di quartieri centrali, a cui si aggiungono i sobborghi (canis) e i quartieri periferici (ovis), costituendo il complesso denominato corpus. Poiché il centro e motore della Terza Età è lo Spirito Santo, cioè la colomba, tutto gravita attorno alla colomba; e tutto in numero di sette: sette animali, sette sensi, sette chiese, sette ordini religiosi, sette doni dello Spirito Santo.

SETTE ANIMALI: uomo, vitello, leone, aquila, colomba, cane, pecora o gregge; i primi quattro sono quelli dell'Apocalisse e rappresentano anche i quattro evangelisti (rispettivamente Matteo, Luca, Marco e Giovanni) e quattro delle cinque opere di Gesù (rispettivamente nascita, passione, resurrezione, ascensione); la quinta opera di Gesù è il battesimo, simboleggiato dalla colomba.

SETTE SENSI: orecchio-udito, bocca-gusto, mano-tatto, occhio-vista, naso-olfatto, piede-locomozione, "opus matrimonii"-sessualità.

SETTE CHIESE: Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, Roma, Venezia, Aquileia; le prime cinque sono quelle fondate da san Pietro, a cui si aggiungono le altre due, dipendenti da quella di Roma e quindi ricadenti nella sua orbita.

SETTE ORDINI RELIGIOSI: pastori (apostoli), diaconi, dottori, vergini, contemplanti, chiesa in generale-papato, continenti o casti (sacerdoti e chierici), coniugati (laici).

SETTE DONI: fortezza (mano), consiglio (bocca), intelletto (orecchio), sapienza (occhio), scienza (naso), pietà (locomozione), timor di Dio (sessualità).

Per i sette doni abbiamo riportato gli abbinamenti coi sensi che Gioacchino dà unitamente alle relative spiegazioni; ma altri abbinamenti, "concordie", somiglianze o parallelismi si trovano nella citata opera Enchiridion: qui basta dire che tutto ciò che si riferisce al canis nell'elenco di sopra occupa il sesto posto e ciò che si riferisce all'ovis occupa il settimo posto. Molto utile è perciò un raffronto fra le suddette parti dell'Enchiridion e la tavola XII anche per rilevarne qualche differenza e per costituire, come qui si è tentato di fare, anche con l'ausilio del Tagliapietra, un testo integrato.

A proposito dei sette doni qui per inciso diciamo che Gioacchino in Enchiridion I parla della sacralità del numero 7 per il fatto che esso pervade l'intera Apocalisse: segno - dice - che tale numero è "familiare" a Colui che generosamente largisce agli uomini i sette doni del suo Spirito. Ma torneremo su questo argomento.

La quasi perfetta corrispondenza fra Enchiridion XIV-XVI e la tavola XII del Liber figurarum è un'altra prova decisiva del fatto che il Liber suddetto non è apocrifo: esso è opera autentica di Gioacchino da Fiore.

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Il drago a sette teste e l'Anticristo (tav. XIV)

Tav. XIV

Questa figura di rosso vivace (che, sia pure meno appariscente, si trova anche nel Commentarium della Biblioteca Marciana di Venezia) interpreta la visione di Apocalisse XII: "... un drago enorme, rosso fuoco, con sette teste e dieci corna. Su ogni testa aveva un diadema, e la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le scagliava sulla terra". Essa c'interessa anzitutto perché una delle sette teste (che rappresentano i principali persecutori della Chiesa) è incoronata.

Per quanto riguarda Gioacchino da Fiore, questo particolare si può spiegare col fatto che il Saladino (unica testa incoronata) era l'unico in vita al momento in cui fu realizzata la tavola. Ma Dante, rimasto impressionato da questa particolarità, nel nobile castello del limbo pose il personaggio in disparte, in posizione isolata e di riguardo, addirittura salvandolo dal vero inferno, grazie anche alle leggende di liberalità e munificenza che correvano su di lui (celebrato anche nel Novellino e nel Decameron); ed è così che fra eroi, poeti, filosofi, saggi, sapienti e scienziati - pagani o infedeli - si trova nel canto IV dell'Inferno, v. 129:

E solo, in parte, vidi il Saladino.

Incidentalmente facciamo notare che la testa accanto a quella del Saladino è di Mesemothus, nome variamente scritto in altri codici e commenti: Melsemuthus, Meselmothus, Miselmutus, Masimuth, Muthselmutus, ecc. Si tratta quindi di un sovrano della dinastia musulmana degli Almohadi, detti anche Massamuti o Masmudi, da cui derivò il nome di una moneta circolante in Europa e il cognome siciliano Mazzamuto. La dinastia, che prende nome dalla tribù bèrbera Masmuda, nel sec. XII conquistò tutta l'Africa Settentrionale e la Spagna Meridionale, combattendo ferocemente contro i cristiani.

Questa è la figura che Gioacchino esibì ai re Riccardo I d'Inghilterra e al suo seguito, fra cui i tre cronisti-testimoni, che poi descrissero l'incontro e i particolari della figura, comprese le teste del Saladino e di Meselmothus.

In questa tavola Gioacchino non dà un nome all'Anticristo né accanto alla settima testa né nella descrizione della figura, limitandosi a pronostici generici. Invece in un codice vaticano e nella corrispondente figura del Commentarium della Marciana la quinta testa è quella di Enrico I (al posto di quella di Mesemothus del Liber) e la settima quella di Federico II.

La tradizione vuole che l'imperatore Enrico VI di Svevia abbia affermato che sua moglie Costanza d'Altavilla avrebbe generato l'Anticristo, identificato in Federico II anche nella Cronica di Salimbene da Parma. Costanza a sua volta aveva sognato di essere resa incinta da un dragone e di dover dare alla luce la fiaccola fiammeggiante dell'Italia, in ciò simile a Ecuba, la quale sognò Paride come fiaccola bruciante Troia.

Questa tradizione è riportata anche in un libro di storia della Germania scritto da Hubertus Prinz zu Löwenstein[53]: "A causa di questo pronostico, così si concluse che la regina avesse tentato di escludere dal trono Federico, in modo che egli (la sua potenza doveva in realtà superare l'umano) non potesse minacciare l'esistenza di tutta la Cristianità. Federico in persona ha onorato negli anni seguenti sua madre con espressioni che non sono più conformi all'umanità antica. Egli chiamò sua madre divina e parlò del suo luogo di nascita, Iesi, come della nostra Betlemme".

Ora, da una parte la tradizione può essere messa in collegamento con la figura del drago di Gioacchino, dall'altra le parole dello storico tedesco illuminano meglio i versi di Dante dedicati a Costanza, al marito e al figlio (Par. III, 118-120):

Questa è la luce della gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò il terzo e ultima possanza.

E a proposito dell'imperatrice Costanza riteniamo opportuno riferire qui quanto racconta Luca Campano, biografo di Gioacchino, suo scrivano e ammiratore, poi divenuto vescovo di Cosenza; e cioè che Gioacchino, mentre si trovava a Palermo, chiamato il venerdì santo alla reggia per confessare Costanza e trovatala seduta sul trono, la invitò a scendere da esso, dicendo: "Poiché io ora faccio le veci di Cristo e tu sei come Maddalena penitente, scendi, siedi a terra e confessati quindi da fedele; altrimenti, infatti, non ti ascolterò". Dopo di che Costanza scese a terra, con meraviglia di tutti, e confessò umilmente i suoi peccati, riconoscendo nell'abate l'autorità apostolica. Inoltre divenne protettrice di lui e dell'ordine florense. Questo episodio è raccontato anche in uno dei miracoli riportati nella Parte Terza di questo lavoro.

Il Foberti, però, che dedica largo spazio a queste vicende, nega la monacazione di Costanza e le altre leggende su di lei[54].

Infine ricordiamo che del drago apocalittico restano tracce nelle tradizioni popolari: in occasione di violenti temporali e trombe d'aria alcuni vedono nel cielo, specie se rossastro, un drago che, soffiando vento e agitando l'enorme coda, sommuove l'aria e suscita il maltempo. Perciò in qualche regione, come la Sicilia, i contadini si affacciavano dalle loro capanne o fattorie e con una falce in pugno cercavano di "tagliare la coda al drago", mentre uno gridava "Di cchi veni a Scinsioni?" e l'altro rispondeva "Di iovi, di iovi!”[55]. La professione di fede che l'Ascensione veniva di giovedì e che Cristo risorto e asceso al cielo poteva sconfiggere il drago-Anticristo, rendeva più sicuri quei contadini e quanti ascoltavano il rincorrersi delle loro grida nella desolata campagna succuba della bufera. Ma oggi l'Ascensione non viene più di giovedì e non ci sono neanche tanti contadini, i quali in ogni caso non praticano questi esorcismi; e quindi anche questa tradizione è scomparsa. Tuttavia, sempre in Sicilia, la piena dei fiumi - improvvisa, gonfia, paurosa, devastatrice e spesso micidiale - è ancor oggi detta dragunara o traunara quale calamità derivante, anche linguisticamente, dal "dragone" apocalittico; e in vari ex-voto esposti in chiese e santuari si vedono dipinti ingenuamente i malcapitati che annaspano in mezzo alla dragunara o traunara, la Madonna o il santo che ha compiuto il miracolo della loro salvezza e il drago sconfitto.

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Il cocchio d'Ezechiele (tav. XV) e l'albero dell'umanità (tav. II)

Tav. XV

La tavola XV (che nel Commentarium della Biblioteca Marciana di Venezia è più vivace, anche se non identica) rappresenta in modo stilizzato e allegorico il cocchio divino della visione d'Ezechiele. Accanto alle quattro ruote ci sono i nomi dei quattro animali apparsi ad Ezechiele (Profezia di Ezechiele I, 5-21; X, 14) e a Giovanni (Apocalisse IV, 1-11): homo, vitulus, leo, aquila.

In questi animali gli antichi videro i quattro evangelisti, poi precisati da san Girolamo e nello stesso modo interpretati da Gioacchino in Enchiridion XIV: uomo Matteo, leone Marco, vitello Luca, aquila Giovanni. Alcuni, però, vi videro i loro quattro evangeli oppure i loro quattro modi d'intendere Gesù. Gioacchino riporta in questa tavola un'altra tradizione largamente diffusa, da lui accolta in Enchiridion XV, secondo la quale i quattro animali rappresentano quattro delle cinque opere di Gesù: rispettivamente nascita (incarnazione), passione, resurrezione, ascensione. Al riguardo il Tondelli cita un brano delle Collationes in Exaëmeron di san Bonaventura: "Significatur Christus per quattuor evangelistas: per Matthaeum dicitur homo mansuetus, per Marcum vero leo triumphans, per Lucam dicitur vitulus occisus, per Ioannem aquilae volantis habet figuram. Unde bene cantavit versificator:

Homo fit nascendo,
bos cruce moriendo,
leo resurgendo,
rex avium ascendendo"
[56].

Alcuni hanno accostato ai quattro animali-evangelisti i quattro grandi dottori della Chiesa: rispettivamente Gregorio, Ambrogio, Girolamo, Agostino. Al riguardo si veda quanto riferisce Nilo Faldon in un suo studio sulla millenaria Pieve di San Pietro di Feletto (TV), nella quale i suddetti dottori sono dipinti. Il Faldon riporta anche una prosa dell'abbazia di Marmouthiers (Svizzera) in cui sono delineate le caratteristiche degli stessi dottori[57].

Del Leone della tribù di Giuda si parla in Genesi XLIX, 9-10 e Apocalisse V, 5; e di esso, come Cristo Risorto, parla anche Gioacchino nella Concordia e nell'Enchiridion.

Per inciso ricordiamo che da questa tradizione deriva il leone alato dello stemma di Venezia, città che ha per patrono san Marco; del quale il poeta cristiano Celio Sedulio, vissuto nel sec. V, che ricavò dai quattro evangelisti materia per esaltare gli episodi della Passione di Cristo, interpretando san Girolamo, scrisse: "Marco freme come la potente voce del leone dei deserti"[58]. E anche il leone che protegge lo stemma di Firenze, detto Marzocco, potrebbe derivare dalla stessa tradizione.

La figura di Gioacchino da Fiore è stata dal Tondelli messa in relazione col carro trionfale del canto XXIX del Purgatorio; e ci sembra che ci siano elementi sufficienti per questo collegamento: Dante può essersi rifatto all'Apocalisse, come dichiara, ma passando attraverso la mediazione di Gioacchino. Così pure altri collegamenti fatti dallo stesso studioso tra figure di Gioacchino ed episodi del paradiso terrestre (mistica processione, le virtù, il "cinquecento diece e cinque", ecc.) di cui ai canti finali del Purgatorio ci dimostrano quale sia stata in questi canti l'influenza del profetismo apocalittico.

Studiando gl'influssi ovidiani nella Divina Commedia, Mariapina Settineri[59] ha notato che la Matelda del canto XXVIII è l'ultima reminiscenza ovidiana. È la Proserpina di Ovidio che ispira Dante nella sua creazione non solo della "bella donna" ma anche del paesaggio che la circonda. La "divina foresta" corrisponde alla "silva" dei Fasti e delle Metamorfosi; e Proserpina va scegliendo i fiori come Matelda soletta, "legendo varios flores". La mitologia, che (con Ovidio in testa) abbonda nel resto delle prime due cantiche, è assente, invece, dal XXIX al XXXIII canto del Purgatorio, perché ora Dante è tutto preso dall'Apocalisse.

I modelli figurativi di queste scene possono essere trovati nei mosaici veneziani di S. Marco e in quelli ravennati di S. Apollinare, ma anche nelle miniature dei codici gioachimiti. La lunghezza con la quale Dante si diffonde, poi, evidenzia ancor più la tensione apocalittica derivante dal profetismo gioachimita o pseudo-gioachimita in cui Dante stesso viveva. Si ricordi ancora che il viaggio di Dante si svolge nel 1300, anno del primo giubileo della storia, indetto da Bonifacio VIII proprio per addivenire ad una grande attesa di perdono generale in vista di una temuta fine del mondo o di altro evento straordinario: conclusione - si può dire - d'un lungo periodo di timori e penitenze, manifestati anche in pubblico e con alcuni episodi spettacolari di vasta portata.

Ma il perdono non può essere soltanto richiesta esteriore: esso presuppone una rinascita generale, che abbia al centro la rinascita della Chiesa, a sua volta strumento di salvezza.

La tradizione francescana del Lignum vite di san Bonaventura e dell'Arbor vite crucifixe di libertino da Casale (1259-1338)[60] aveva rappresentato l'umanità come un albero che ha radici in Dio; se per la colpa d'Adamo l'albero biblico del bene e del male si è spogliato ed è stata necessaria l'incarnazione di Cristo (posto al centro dell'albero-storia) per fare rifiorire l'albero, nella storia individuale ogni uomo può fare spogliare e rifiorire l'albero: specialmente se la storia è alle sue ultime battute, come predicavano i gioachimiti, annunciando prossima la Parusìa, avvento di Cristo nella fase finale del mondo.

Perciò in Dante c'è il Veltro, e c'è pure tutta la scenografia del paradiso terrestre che scorre fra simboli vari come il DXV.

Circa il "cinquecento diece e cinque" di Purg. XXXIII, 43, abbiamo già detto che il "dux" intravisto nel numero DXV potrebbe essere quello della Concordia: "novus dux", pontefice della nuova Gerusalemme, collegabile al Veltro, se non è il Veltro stesso; quindi personaggio dell'attesa di Gioacchino e di Dante.

E perciò un cenno almeno merita, anche per la sua bellezza artistica, la figura dell'albero dell'umanità (tav. II): tale figura (di cui esiste anche una successiva redazione, un po' meno riuscita artisticamente, ma più aggiornata ad esempio nella lista dei papi) è evidentemente in relazione con la pianta prima dispogliata e poi rifiorita di Purg. XXXII, 31-63, la cui chioma "fora dagli Indi / nei boschi lor per altezza ammirata". Questa pianta è simile a quella del biblico Daniele IV, 7-9; in essa vi è la storia umana da Adamo a Cristo, dal peccato originale alla redenzione, che è anche rinascita e rifioritura in Cristo: proprio quello che abbiamo detto a proposito del Lignum vite e dell'Arbor vite crucifixe.

Dato che abbiamo accennato alle virtù, cogliamo l'occasione, sempre per inciso, per mettere in rilievo che Dante nell'allegoria delle virtù teologali ha mirabilmente vaticinato i colori della bandiera italiana (Purg. XXIX, 121-126):

Tre donne in giro de la destra rota
venian danzando: l’una tanto rossa
ch'a pena fora dentro al foco nota;
L'altr'era come se la carne e l'ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza pareva neve testé mossa.

Sulle virtù teologali torneremo a proposito della figura gioachimita del salterio, dove la cassa di risonanza, fra l'altro sede figurale della Chiesa Cattolica, ha la forma di una rosa tricolore: verde, bianco e rosso, proprio i colori della bandiera italiana; la quale, guarda caso, nacque il 7.1.1797 proprio a Reggio nell'Emilia, detta "città del tricolore" e legata al Libro delle figure.

Tav. II

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Tribù e chiese / La M che si trasforma in aquila (tavv. V e VI)

Tav. VI

Queste due tavole sono fra le più splendide del Libro delle figure, vivaci nei colori e ricche nei particolari, mirabile esempio dell'arte della miniatura nel medioevo. Esse contengono due figure capovolte d'aquila con le ali aperte o d'alberi sorti da teste d'aquila capovolte; e invece di piume il santo uccello ha dei fiori: i gigli. La prima rappresenta le dodici tribù israelitiche e la seconda le dodici chiese originarie. Infatti, se lo schema del disegno è identico, il contenuto delle figure cambia. Insomma, non è la stessa figura semplicemente ripetuta, ma sono due figure allegoricamente diverse, tanto è vero che accanto alla testa dell'aquila nella prima c'è scritto ADAM e nella seconda OZAS.

Trascuriamo quant'altro scritto nelle due tavole, ma precisiamo che l'idea principale svolta da Gioacchino in esse è che alla Chiesa attiva di san Pietro seguirà la Chiesa contemplativa di san Giovanni, stadio migliore e perciò atteso: infatti l'aquila è anche simbolo dell'evangelista Giovanni e della contemplazione.

Queste tavole fornirono a Dante la magnifica immagine dell'M (iniziale di Monarchia e Mundus) che si trasforma in aquila "ingigliata", simbolo dell'impero romano e della giustizia, "uccel di Giove" (Purg. XXXII, 112) e "uccel di Dio" (Par. VI, 4).

Nel canto XVIII del Paradiso, lasciati il cielo di Marte e Cacciaguida, dal quale ha appreso il suo prossimo destino d'esule, Dante giunge nel cielo di Giove, dove incontra le anime dei giusti e pii. Ma qui dobbiamo dare la parola a Dante stesso per godere anche noi della meraviglia di quella scena (vv. 73-81 e 88-117):

E come augelli surti di riviera,
quasi congratulando a lor pasture
fanno di sé or tonda or larga schiera;
Sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi diventando l'un di questi segni
un poco s'arrestavano, e taciensi. [...]
Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; ed io notai
le parti sì, come mi parver dette.
"DILIGITE IUSTITIAM, "primai
fur verbo e nome di tutto il dipinto;
"QUI IUDICATIS TERRAM" fur sezzai.
Poscia nell'M del vocabol quinto
rimasero ordinate, sì che Giove
pareva argento lì d'oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo dell’emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch'a sé le muove.
Poi, come nel percuoter dei ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde gli stolti sogliono augurarsi;
Resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come il sol che le accende sortille;
E quietata ciascuna in suo loco,
la testa e ‘l collo d'un'aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipinge là non ha chi ‘l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù eh 'è forma per li nidi.
L'altra beatitudo, che contenta
pareva in prima d'ingigliarsi all'emme,
con poco moto seguitò la imprenta.
O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!

Il poeta deve invocare la Musa per poter riferire puntualmente quanto ha visto. Formando in successione trentacinque lettere alfabetiche, le anime composero la frase che dà inizio al Libro della Sapienza attribuito a Salomone ("Amate la giustizia, o voi che governate la terra!"). Quindi sostarono nell'M finale. Nel frattempo altre anime ("luci") si posarono all'apice dell'M; ma poco dopo più di mille anime "risorsero" come faville e salendo disegnarono il collo e la testa d'un'aquila; infine le altre anime, che s'"ingigliavano" all'M, con piccolo movimento completarono la figura.

Qui non possiamo soffermarci sulla bellezza di questo brano: molto bene è stato fatto da altri. Ci limitiamo a fare notare la vivacità e la brillantezza della scenografia, il movimento, la fantasmagoria: fra argento distinto d'oro, ciocchi arsi, faville che sorgono e luci che risorgono sembra di assistere ad uno spettacolo pirotecnico dove dopo ogni scoppio ci si attende una sorpresa: qualche scritta o qualche immagine in vari colori. E ora la sorpresa è l'aquila "ingigliata".

Circa la forma dell'aquila i commentatori si sono sbizzarriti: si è parlato di M araldica costituita da un asse centrale con due semicerchi laterali ristretti verso il basso, asse su cui si forma il "giglio" araldico. Basta ricordare il Parodi, il Caetani, il Cosmo, il Capetti, il Grabher e il Porena con la sua interessante sequenza grafica della trasformazione dell'M in aquila; le dispute e i rimproveri a Dante per la poca chiarezza. Invece, se si guardano le figure di Gioacchino da Fiore tutto diventa chiaro; anche perché, se smagliante è l'aquila di Dante ("smagliante figura di luce e di colore" la definì il Ferranti[61]), più smaglianti sono le tavole di Gioacchino.

Si noti nel brano sopra riportato il ricorso di Dante a riferimenti pittorici: "tutto il dipinto" al verso 92 e "Quei che dipinge lì, non ha chi 'l guidi" al verso 109: segno che Dante aveva davanti a sé un'opera pittorica come le figure del Liber di Gioacchino da Fiore e faceva considerazioni, derivazioni, confronti.

Sono stati cercati nel mondo antico e medievale i precedenti di questa scena dantesca: la serie di lumi in forma di figure geometriche con cui Cleopatra accolse Antonio, gli archi luminosi delle processioni medievali, le figurazioni alfabetiche di Rabano Mauro (776-856, beato collocato da Dante nel cielo del Sole accanto a Gioacchino da Fiore); ma solo con queste figure del profeta calabrese si ha un precedente "visivo".

Dopo averla messa in piedi, osserviamo attentamente quella con la scritta OZAS.

Questa figura non solo ha vivacità di colori ma acquista movimento grazie alle curvature e agl'intrecci di rami, foglie e fiori, accompagnati da gemme dorate come quelle di Dante, al quale l'idea dell'"ingigliarsi" potrà essere venuta meglio dalla tavola con ADAM[62]. Nella tavola con OZAS si notano chiaramente la M in basso, due fasci di gigli laterali in cima all'asse della M, che formano le ali aperte, e più in alto il collo e la testa dell'aquila.

È importante notare anche la posizione della testa dell'aquila, la fierezza dello sguardo e la maestà dell'atteggiamento del santo uccello, degno rappresentante della giustizia: particolari - questi - che colpiscono chicchessia e avranno colpito anche Dante, rimanendogli impressi e facendo sì ch'egli li trasferisse nella sua descrizione. Infatti nel canto successivo l'aquila con le ali aperte rifulge come un insieme di rubini al sole; Dante nota il "rostro" (Par. XIX, 10), il "collo come fosse bugio" (Par. XX, 27), il "becco" (id, 29); infine "l'occhio" che scintilla in testa (id, 35) e "la pupilla" (id, 37). Dante non dice "gli occhi e le pupille", ma "l'occhio e la pupilla", un solo occhio e una sola pupilla come nella figura di Gioacchino.

È evidentissimo che Dante nel comporre quest'episodio aveva davanti a sé la figura di Gioacchino con la testa dell'aquila girata da una parte, in cui si nota anche che dentro il collo "bugio", cioè forato, ci sono scritti fra gli altri i nomi di Zaccaria, Giovanni e col massimo rilievo Cristo, che sta alla base del collo: personaggi a cui è paragonato quello atteso e annunciato nella Concordia, perciò l'aquila non può parlare se non per dire cose sommamente giuste, parole che provengono da Dio stesso, essendo simbolo della giustizia. Delle due, questa è la figura della Chiesa avvenire, basata sulla giustizia, su Giovanni e su Cristo, tanto attesa da Gioacchino e da Dante.

Ad onor del vero nel codice di Dresda le due figure sono senza gigli e senza testa: perciò il Tondelli ha supposto che l'aggiunta della testa sia dovuta al capriccio di un fantasioso miniatore posteriore a Gioacchino; ma ciò non è comprovato. Non è trascurabile il fatto che l'aquila è - ripetiamo - l'attributo di Cristo volante nell'Ascensione, come simboleggiato dal vangelo di Giovanni, e quindi un simbolo caro a Gioacchino. In questo caso è evidente che Dante vide e seguì il codice di Reggio, ricavandone questo meraviglioso episodio della Divina Commedia.

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I cerchi trinitari di tre colori e il nome di Dio (tav. XI)

Tav. XI

Questa tavola è servita a Dante per tre passi della Divina Commedia. Di essa giustamente scrive il D'Elia: "E il capolavoro della 'teologia figurale' e della simbologia di Gioacchino, la figura paradigmatica che esprime in forma compiuta la sua originale visione teologica della storia del mondo, intesa nella sua totalità e nel suo divenire progressivo come 'teofania' o manifestazione temporale dell'eterno mistero di Dio-Trinità. Il suggestivo quadro simbolico sintetizza, infatti, col suo linguaggio visivo e immediato delle sue componenti figurative, i motivi fondamentali della dottrina di Gioacchino... Una rilevanza particolare e quasi esoterica ha nella figura il singolarissimo simbolismo del Tetragramma divino IEUE (o IEVE)..."[63]. Ma andiamo per ordine.

1) Nel canto XXXIII del Paradiso, a conclusione del suo viaggio e della sua opera, Dante riesce a vedere Dio e a percepirne i misteri, fra cui quello della Trinità, che egli rende coi versi 115-120:

Nella profonda e chiara sussistenza
dell'alto lume parve(r)mi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;
E l'un dall'altro, come iri da iri,
parea riflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Premesso che il cerchio è figura perfetta perché privo di principio e di fine, quindi ben adatto a simboleggiare Dio, diversi critici (es. Pistelli, Pietrobono, Steiner) hanno inteso che i tre cerchi fossero concentrici e sovrapposti: ma, se così fossero, come se ne potrebbe distinguere la pluralità e la diversità di colori? E giustamente si sono dissociati da questa interpretazione il Momigliano e il Poletto, pur senza citare l'abate Gioacchino.

Una chiara interpretazione del brano dantesco si ottiene invece guardando attentamente questa figura nella quale i tre cerchi sono, oltre che di tre colori e della stessa area, anche intersecati a vicenda o inanellati a spirale e, visti in tre dimensioni, costituiscono nell'insieme un cilindro, una specie di cannocchiale con tre lenti ugualmente distanziate ovvero un caleidoscopio che cambia disegni e colori secondo il movimento ricevuto (in questo caso secondo il variare delle capacità percettive di Dante); ecco perché egli può rilevarne la pluralità (tre), la diversità di colori (verde, blu, rosso), l'uguaglianza delle superfici (uguaglianza delle tre Persone), la riflessione di uno dall'altro (Figlio che procede dal Padre) e il fatto che il rosso spira ugualmente dal primo e dal secondo (Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio). Inoltre più avanti vedrà all'interno un'immagine umana (Figlio incarnato).

C'è un'osservazione non secondaria da fare: la tavola ripropone in piccolo, in alto a destra, altre due volte gli stessi cerchi, ma con qualche variante. Nella figura più in alto il rosso è a sinistra e in quella meno alta lo stesso colore è invece al centro: ora quest'ultima posizione del rosso meglio si confà al suo procedere dagli altri due secondo l'espressione dantesca "quinci e quindi" (dall'una e dall'altra parte). Dante tenne presenti tutt'e tre le versioni: la grande per la numerazione del rosso ("terzo"), la piccola per l'interscambio ("quinci e quindi") e quella di media grandezza, che presenta dei dischi colorati anche internamente, per il contrasto cromatico.

Come si vede, ogni cerchio (Persona) comprende parti degli altri due, e tutt'e tre insieme costituiscono un'unica figura (Trinità) nella quale campeggia a caratteri cubitali il tetragramma IEUE.

Naturalmente Gioacchino, teologo, è stato molto più dettagliato di Dante, poeta: le varie inscrizioni e colorazioni della tavola specificano successioni, simbologie, interferenze e interrelazioni del mistero trinitario, nonché momenti della storia biblica, Vecchio e Nuovo Testamento, dall'Alfa all'Omega, da Adamo alla fine del mondo. Precisiamo soltanto che l'immagine dell'iride e la successione dei tre colori ("unum viridem, alium caeruleum vel aëreum, tertium rubicundum"[64], così come miniati nella figura grande e come riferiti da Dante, si ritrovano in Expositio in Apocalypsim IV.

Quanto al fatto che "l'un dall'altro, come iri da iri, parea reflesso", il Busnelli[65] ha fatto presente che san Basilio (329-379) paragonò la Trinità ai colori dell'arcobaleno, fissati nel numero di tre, senza precisare quali; mentre i diversi esegeti hanno poi attribuito diversi colori all'iride, Gioacchino li indicò come sopra specificato, e solo in seguito si arrivò ad individuare sette colori nell'arcobaleno.

In effetti il modo d'incatenare i cerchi nella figura dà l'idea del proiettarsi a balzi di un arcobaleno dall'altro; e il Tondelli osserva che i cerchi, pur avendo ciascuno un colore fondamentale, "sembrano iridescenti per l'oro che li adorna, per le diversità di tono dello stesso colore, per la fine serpentina bianca segnata di punti che dona luminosità al colore fondamentale"[66].

2) Nel canto XXVI del Paradiso, cielo delle Stelle Fisse, Dante vuol sapere da Adamo - fra l'altro - quale fosse stata la lingua dei primi uomini. Adamo risponde che la lingua da lui parlata si spense tutta prima della Torre di Babele; e precisa (vv. 133-136):

Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia
I
s'appellava in terra il Sommo Bene
onde vien la letizia che mi fascia;
EL si chiamò da poi; e ciò conviene...

Ricordiamo per inciso che per Dante i due progenitori, nonostante la gravita del peccato originale, si salvarono; ed egli li vede nella rosa dei beati (Par. XXXII) vicinissimi alla Madonna: Eva ai piedi e Adamo al fianco.

Dunque, modificando la prima opinione espressa nel De vulgari eloquentia (1,4-9), in cui affermava che in principio Dio si chiamava EL (prima parola pronunciata da Adamo) e che la prima lingua (ebraica) cominciò ad evolversi e mutarsi solo dopo la confusione della Torre di Babele, qui Dante afferma che in principio Dio si chiamò I e in seguito EL.

Che cosa significhi questo I è stato variamente spiegato: semplice iniziale della parola Iehovah o numero 1 o non si sa che cosa. Casini-Barbi[67] ritiene che sia un termine inventato da Dante a scopi cabalistici, quasi come segno di spiritualità divina, perché la I ebraica s'interpretava come "scienza, principio, unità". Così, grosso modo, intendono anche Domenico Guerri[68] e Bruno Nardi[69]. In merito i pareri sono moltissimi e a volte contraddittori, tanto che, secondo il Cesari, "ci sarebbe da affogarne un gigante"[70]. Interessante è anche il discorso sulla concezione naturalistica delle lingue umane e sul ruolo del volgare presente nel commento di Pasquini-Quaglio[71].

Già sant'Isidoro di Siviglia (560-636, altro beato collocato da Dante nel cielo del Sole) aveva affermato che la I con la sottigliezza del suono e del segno simboleggia la spiritualità, e Ubertino da Casale che I è uguale a Iesus.

Ma veniamo alla figura gioachimita dei cerchi trinitari nella quale abbiamo subito notato il tetragramma IEUE che vi campeggia al centro. Tale tetragramma, sia pure scomposto nelle sue varie lettere, si trova nella pagina ben nove volte: tre volte nell'Alfa, una nella spiegazione sotto l'Alfa, una nella spiegazione sotto la parola ADAM, una nell'Omega, una all'apice di ogni cerchio, una campeggiante al centro della figura e una accanto alla I campeggiante nel primo cerchio. Esso poi ritorna in altre figure di Gioacchino.

Sopra il tetragramma centrale è riportato il passo di Esodo VI, 2: "Ego Dominus qui apparui Abraam et Ysaac et Jacob in Deo omnipotente et nomen meum non indicavi eis"[72]. Accanto alla I campeggiante nel primo cerchio c'è scritto: "Hoc est ineffabile nomen Domini Dei" (nel codice di Oxford, foglio 7°, solo "nomen Dei"); la scritta continua sotto il grande IEUE: "quod gerebat in fronte Aaron summus pontifex, scriptum quattuor litteris in hac pagina insignitis propter quod et a Grecis tetragrammaton nominatur"[73].

La spiegazione del tetragramma data da Gioacchino a sinistra della tavola e con il disegno stesso è strettamente correlata al mistero trinitario. Osserviamo attentamente la figura: le tre lettere IEU indicano rispettivamente il Padre, lo Spirito Santo e il Figlio; la E (Spirito) si accosta tanto a I (Padre), costituendo IE, quanto a U (Figlio), costituendo UE, perché lo Spirito procede sia dal Padre che dal Figlio; si ottengono così le combinazioni IE, EU, UE e poi l'insieme trinitario IEUE, corrispondente a quello che ora si scrive Jahve(h) o Jehovah, nome rivelato a Mosè[74], ineffabile perché non poteva essere pronunciato, al posto del quale gli Ebrei usavano Adonay (parola che si legge al centro della figura)[75] .

Ora Dante, che aveva davanti agli occhi la I del cerchio del Pater con accanto la parola ADAM, e sotto spiegato "Hoc est ineffabile nomen Domini Dei", desunse da qui la risposta di Adamo nel suo canto e così scrisse "I s'appellava in terra il Sommo Bene" in considerazione del fatto che ad Adamo e ai patriarchi non era stato rivelato il mistero della Trinità insito nel tetragramma IEUE. Insomma, I non è una semplice iniziale abbreviativa, ma una porzione del nome riferito ad un'Entità non ancora rivelata.

Come poi I diventò EL, nome con cui Dio si manifestò ai patriarchi, si può dedurre, secondo il Tondelli, tenendo presente che la citata espressione "in Deo omnipotente" dell'Esodo corrisponde all'ebraico El Saddai.

Riepilogando, ci sono tre momenti nella denominazione di Dio: I per Adamo, EL per i patriarchi ebrei, IEUE da Mosè in poi e praticamente con la nascita d'Israele come popolo.

E qui ci viene incontro il biblista: "In tutto il mondo semitico il nome è la realtà stessa di una cosa, la conoscenza del nome di una persona comporta una specie di potere sull'essere di cui si conosce così l'essenza e l'energia. Nella magia possedere il nome di Dio significa poterlo dominare o manipolare a proprio vantaggio. Dio non si rivela qui con un sostantivo ma con un verbo, hyh, essere, divenire, continuare ad essere. Per impedire l'uso magico di questo nome divino gli Ebrei sostituirono le quattro lettere JHWH (Jahvé) col termine Adonai, Signore, le cui vocali furono apposte alle consonanti JHWH causando la lettura deforme di Jehova (Geova), rinverdita ai nostri giorni dalla setta dei Testimoni di Geova. In realtà, più che una vera definizione e rivelazione del nome divino, il nostro testo forse si rifiuta di svelare l'inconoscibile essenza di Dio, proprio sulla base di quanto abbiamo detto a proposito dell'importanza del nome. Tuttavia Io sono = Jahvé non resta un vuoto appellativo perché evoca il punto esatto in cui Dio si rivela, la storia, nella quale, egli si presenta come liberatore e salvatore"[76].

Altra prova del fatto che Dante aveva davanti agli occhi, nel comporre questo canto, la tavola dei cerchi di Gioacchino è costituita dal fatto che all'inizio del canto il poeta fa riferimento all'Alfa e all'Omega, che in caratteri cubitali delimitano la sinistra della tavola stessa (Par. XXVI, 16-18):

Lo ben che fa contenta questa corte
Alfa ed Omega è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte.

In questa terzina ben si collega al Sommo Bene del verso 134 e la parola scrittura si può collegare al testo scritto da Gioacchino nella tavola stessa.

A prescindere da ciò, facciamo rilevare col Tondelli che l'episodio dantesco di Adamo è tutto permeato del mistero trinitario: da "Santo, Santo, Santo" del verso 69 del canto XXVI a "Al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo - cominciò - gloria! - tutto il Paradiso" dei versi 1-2 del canto XXVII; e possiamo aggiungere che Dante e i beati tutti esprimono la loro esultanza per l'esistenza del Dio Trino, cioè per aver potuto usufruire dei benefici eterni dell'Incarnazione e della discesa dello Spirito Santo: insomma per il completamento del nome di Dio dalla semplice I iniziale al tetragramma IEUE.

3) Nel canto XIV del Paradiso, cielo del Sole, i beati (fra cui quindi Francesco, Domenico, Tommaso, Bonaventura, Pietro Lombardo e lo stesso Gioacchino) cantano per tre volte un inno alla Trinità, cioè a (vv. 28-30)

Quell'Uno e Due e Tre che sempre vive
e regna sempre in Tre e 'n Due e 'n Uno.

L'inno può essere il Gloria Patri o qualche altra preghiera della dossologia cattolica, come la formula "Per Dominum nostrum Iesum Christum filium Tuum, qui Tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, per omnia saecula saeculorum"[77].

Carlo Grabher giustamente scrisse al riguardo: "... l'immedesimarsi e il distinguersi insieme delle tre persone: e prima il crescere quasi dell'una dall'altra nella loro distintiva unità - uno e due e tre -; poi l'eterno immanente ritorno della Trinità all'unità - in tre e 'n due e 'n uno -, sì che quella che sembra una ripetizione o una semplice inversione di termini serve a rappresentare il circolare mistero di Dio, che è uno, il Padre, ma anche due, Padre e Figlio, e anche tre, Padre, Figlio e Spirito Santo"[78]. Questa è anche l'interpretazione di Scartazzini-Vandelli.

Alcuni stranamente nel due vedono le due nature di Cristo. Ma, se si ritorna alla tavola dei cerchi trinitari, nell'angolo in basso a destra si notano sette cerchietti che rappresentano i sette modi in cui possono chiamarsi le tre Persone, sia singolarmente sia in coppia sia in triade, in un "gioco" intellettuale che sembra cabalistico. Dice il Tondelli: "Ciascuna delle tre Persone è Dio. Il due si ha tre volte, cioè nei due assiemi Padre-Spirito Santo; Padre e Figlio; Figlio e Spirito Santo; ed i tre gruppi: sono sempre un solo Dio. Il tre è dato dalle tre Persone divine, che assieme sono ancora un solo Dio. Si ha quindi in forme molteplici, l'uno, il due, il tre"[79].

In sostanza torniamo al discorso dell'IEUE.

Ma è nella ripetizione in piccolo della figura dei tre cerchi, in alto a destra, che si trova la radice dei citati versi di Dante, che sono non un semplice chiasmo né un gioco intellettuale o infantile ma una trasposizione della figura gioachimita, che indica in successione Pater unus, Pater et Filius duo, Pater et Filius et Spiritiis Sanctus tres, Filius et Spiritiis Sanctus duo, Spiritiis Sanctus unus, inscrivendoci in mezzo la dinastia da Abramo ad Efraim; insomma, Uno, Due e Tre / Tre, Due e Uno, peraltro tutte parole (Persone) formate da tre lettere: ogni cerchietto (Persona) possiede in sé gli altri due cerchietti, e l'insieme è uno e molteplice, cioè la Trinità, cantata tre volte da tre cerchi o corone di beati, in un trionfo della perfezione di Dio insita nel cerchio e nel tre.

° ° °

Una pagina dello Psalterium

Pagina dello Psalterium

Il ponderoso volume manoscritto dello Psalterium decem chordarum di Gioacchino da Fiore conservato nella Biblioteca Antoniana di Padova[80] ha il primo libro interamente dedicato al mistero trinitario e si rivela molto interessante relativamente a quanto sopra detto sulla Trinità e sull'enumerazione dantesca, sia per la rappresentazione grafica della Trinità stessa in insiemi di triangoli o trapezi o cerchi sia per la spiegazione delle relazioni fra le tre Persone. Ma più interessante è la pagina 27-verso che presenta nella prima colonna cinque cerchi, stavolta collocati in modo da costituire una specie di grappolo. I cerchi hanno analoghe inscrizioni dei precedenti e l'identica enumerazione: uno, due, tre, due, uno. I cerchi grandi sono collegati fra loro da cerchi piccoli.

I colori dei cerchi sono quelli che già conosciamo: verde l'uno, rosso il due e blu il tre nei cerchi grandi, abbinati nei cerchi piccoli di passaggio fra un cerchio grande e l'altro. Si noti l'errore IACAB invece del corretto IACOB.

La stessa pagina, in fondo alla seconda colonna, presenta altri sette cerchi (tre sopra, tre sotto, uno sotto ancora al centro), collegati fra loro da cerchietti bianchi. I colori di questi cerchi sono verde-rosso-blu nella fila di sopra, blu-verde-rosso nella fila di sotto e turchino l'isolato. Questa figura, che spiega le relazioni e associazioni fra le tre Persone, è completa perché contiene gli altri due possibili insiemi: Figlio e Padre-Spirito Santo, che portano a sette il numero dei cerchi; essa corrisponde esattamente a quella della tavola dei cerchi trinitari, nell'angolo in basso a destra, di cui è l'elaborazione artistica.

Tanto basta a dimostrare quale fu la fonte intellettuale, grafica e artistica dell' "Uno e Due e Tre / Tre e Due e Uno" di Dante. Infatti alla luce dello Psalterium si ottiene la seguente spiegazione:

Numero Cerchio Insieme di persone Colore
UNO/Unus In alto a sinistra Padre Verde
DUE/Duo In mezzo a sinistra Padre e Figlio Rosso
TRE/Tres In basso al centro Padre e Figlio e Spirito Santo Blu
TRE/Tres In basso al centro Padre e Figlio e Spirito Santo Blu
DUE/Duo In mezzo a destra Figlio e Spirito Santo Rosso
UNO/Unus In alto a destra Spirito Santo Verde

Nella spiegazione s'immagini di spostare con piccoli sollevamenti la pedina di una moderna dama dalla casella (cerchio) in alto a sinistra fino a quella in alto a destra, seguendo l'itinerario come sopra esposto e facendo una piccola sosta nella casella del TRE/TRES, con relativa nuova partenza: infatti il ritmo dei versi, con l'accentazione dei numeri-Persone, lo consente. Si capiranno meglio, così, i versi di Dante e la poesia che li sottende:

Quell'Uno e Due e Tre che sempre vive
e regna sempre in Tre, 'n Due e 'n Uno.

° ° °

Il salterio, l'ordinamento del Paradiso e la rosa dei beati (tav. XIII)

Tav. XIII

Questa è un'altra delle tavole artisticamente più riuscite, che, per impostazione, fregi, colori vivi e smaglianti, e delicati filamenti di porporina, ci ricorda la fantasmagoria dei fuochi d'artificio del nostro Meridione, caratterizzati da girandole e "ruote". Anch'essa, variata e molto meno appariscente, c'è nel Commentarium della Biblioteca Marciana di Venezia.

La figura svolge alcuni concetti relativi all'Unità e Trinità di Dio, con espressioni e riferimenti che risultano anche in altre tavole. Al centro di un grande triangolo-trapezio (che nel codice di Dresda reca agli angoli i nomi delle tre Persone con le relative porzioni del tetragramma divino) vi sono tre cerchi concentrici di tre colori (nel cui interno il codice di Dresda reca l'intero tetragramma IEUE), simbolo della Trinità, con alcune parole. I tre cerchi, che qui sono di color verde-bianco-rosso, hanno una didascalia sottostante, "Una sancta ecclesia catholica", e rappresentano l'apertura della cassa armonica di questo strumento musicale.

Ma soprattutto la tavola c'interessa per l'affermazione dell'ortodossia cattolica relativamente alla Trinità. Nel testo si legge chiaramente: "La fede cattolica è che veneriamo un solo Dio nella Trinità e la Trinità nell'Unità, non confondendo le Persone né separando la sostanza". L'espressione "neque confundentes Personas neque substantìam separantes" (dal simbolo pseudo-atanasiano Quicumque) fa cadere le accuse di eresia mosse a Gioacchino con l'attribuire a lui il triteismo, cioè l'opinione che la Trinità sia costituita da tre sostanze e non da una sola: qui Gioacchino sostiene con forza ("Fides catholica est... ") la trinità delle Persone e l'unicità della sostanza. Evidentemente neanche Carmelo Ottaviano, pur appassionato difensore della buona fede di Gioacchino, aveva visto questa tavola (ricordiamo che Il libro delle figure fu pubblicato nel 1940), la quale ci convince sempre più che il Liber contra Lombardum è apocrifo (come lo stesso Ottaviano, il Foberti e molti altri hanno sostenuto) e che invece Gioacchino condivide pienamente la "sentenza" del Lombardo e della Chiesa cattolica circa l'unicità della sostanza divina.

La tavola si apre con in alto la nota scritta "Hoc est ineffabile nomen Domini, quod gerebat in fronte Aaron, scriptum quattuor litteris in hac forma Psalterii altius insignitis..."[81]. La figura, dunque, rappresenta un salterio, strumento ebraico costituito da varie corde (quello di Davide ne aveva dieci), tese su una cassa triangolare o trapezoidale e suonate con le dita o il plettro.

Qui ci soffermiamo solo su alcuni elementi delia tavola: il lato sinistro reca in successione verso l'alto i nomi delle nove schiere angeliche e in apice la parola "homo", il lato destro reca in successione verso il basso i nomi delle tre virtù teologali e dei sette doni dello Spirito Santo. In tutto ci sono quindi nel salterio dieci corde e il vuoto circolare della cassa, figura che ha contribuito all'ordinamento del Paradiso dantesco. Infatti Dante in apertura del canto XV della terza cantica paragonò la melodia dei beati al suono di una lira le cui corde sono tirate da Dio stesso:

Benigna volontade, in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa nell'iniqua
Silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quietar le sante corde
che la destra di Dio allenta e tira.

Come potenza o intelligenza motrice Dante pose in ognuno dei nove cieli una schiera angelica, secondo la successione data dalla tradizione anche per quanto riguarda i riferimenti astronomici; e nell'Empireo fece la glorificazione di Cristo (l’homo-caritas di questa figura gioachimita) e di tutti gli uomini di buona volontà.

Già Tolomeo e Aristotele avevano parlato di nove cieli, quanti risultano anche nel Somnium Scipionis di Cicerone, dove il Cristallino-Primo Mobile di Dante è sostituito dalla Terra. Nell'opera di Cicerone i cieli sono elencati dall'alto al basso, dalle Stelle Fisse alla Terra, e quindi nell'ordine inverso in cui li elenca Dante; essi producono col loro movimento un'armonia derivante dall’armonizzarsi di sette note: sette, perché la Terra (ferma) non ha suono e Mercurio e Venere hanno la stessa velocità e perciò lo stesso suono. Cicerone accenna poi alla particolarità e sacralità del numero 7, "qui numerus rerum omnium fere nodus est", cioè che è come il fulcro di tutte le cose. Secondo i pitagorici, tale numero, formato dalla somma di 3 e 4 (numeri perfetti), è eterno, simile solo a sé stesso e capace di riunire in sé e tenere unito tutto l'universo. Si ricordi al riguardo che anche il Corano parla più volte dei sette cieli e del 7° in particolare, accennando alla sacralità di tale numero: sacralità conservatasi nella tradizione, dalla Bibbia in poi.

Nella figura di Gioacchino le dieci corde hanno, in successione dall'alto al basso, i seguenti abbinamenti:

Uomo.. Carità
Serafini....Speranza
Cherubini..................Fede
Troni............................Sapienza
Dominazioni..........................Intelletto
Principati......................................Consiglio
Potestà.....................................................Fortezza
Virtù.....................................................................Scienza
Arcangeli.........................................................................Pietà
Angeli......................................................................Timor di Dio

Questa disposizione delle schiere angeliche non trova perfetto riscontro in Dante, né in Convivio II, 5, 6, dove egli segue il secondo dei due ordinamenti formulati da san Gregorio Magno, ripreso da sant'Isidoro e poi da Brunetto Latini nel suo Trésor (Serafini, Cherubini, Potestà, Principati, Virtù, Dominazioni, Troni, Arcangeli, Angeli) né in Par. XXVIII, 98-139, dove segue il De cælesti hierarchia di Dionigi Areopagita (I sec. d. C., altro beato del cielo del Sole), che avrebbe ricevuto la rivelazione di tale ordinamento da san Paolo e che a sua volta fu seguito da teologi come Pietro Lombardo e san Tommaso d'Aquino (Serafini, Cherubini, Troni; Dominazioni, Virtù, Potestà; Principati, Arcangeli, Angeli: tre gerarchie di tre cori ciascuna). Smentendo il san Gregorio Magno di Moralia XXXII, 48, e il sé stesso del Convivio, Dante ha delineato così l'ordinamento del suo Paradiso, partendo dagli Angeli e arrivando ai Serafini.

Gioacchino invece si è rifatto al primo ordinamento di san Gregorio, da questo formulato nell'Omelia XXXIV sugli Evangeli, e cioè esattamente: Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Principati, Potestà, Virtù, Arcangeli, Angeli; ordinamento che forma la struttura del salterio gioachimita.

Certamente negli ambienti teologici si discusse a lungo sugli angeli: di natura, gerarchie, ordinamento e... sesso. Dante scartò entrambi gli ordinamenti formulati da san Gregorio (quindi compreso quello gioachimita) e quelli di altri teologi. La sua scelta finale cadde su quello dell'Areopagita o Pseudo-Areopagita, proprio perché costui affermava di averlo avuto da san Paolo, cosa che rendeva l'ipotesi più credibile in quanto più vicina al nascere della tradizione cristiana. La testimonianza oculare di san Paolo, che era stato da vivo in paradiso, doveva avere il suo peso per chicchessia ed in particolare per Dante stesso che stava andando anche lui da vivo in paradiso e riscontrava quello che aveva visto san Paolo.

Sempre ai fini di un rapporto con la Divina Commedia (argomento di questo lavoro) non trascuriamo, poi, un altro elemento importante di questa tavola. Il fatto che al centro della figura gioachimita ci siano i tre cerchi, che il D'Elia definisce subito "immagine floreale a forma di grande rosa"[82], con la sottostante didascalia "Una sancta ecclesia catholica", induce a pensare che Dante abbia preso da qui l'immagine della mistica rosa dei beati: essi infatti costituiscono, come dice il poeta in apertura del canto XXXI del Paradiso, "la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa": cioè la Chiesa trionfante, che, per la cosiddetta "comunione dei Santi", è unita a quella militante e a quella purgante, costituendo il corpo dell' "Una sancta ecclesia catholica". D'altronde nel Credo (professione di fede o Simbolo Apostolico) alla frase "la Santa Chiesa Cattolica" seguiva immediatamente la frase "la comunione dei Santi": due concetti strettamente connessi[83].

C'è quindi una coincidenza concettuale e - diremmo - grafica fra Dante e Gioacchino da Fiore, vista la somiglianza fra i tre cerchi concentrici e una rosa sbocciata: dall'Unità-Trinità-Incarnazione scaturisce la Chiesa cattolica, fonte di santità. Perciò giustamente dopo di loro il Manzoni nell'inno La Pentecoste scrisse della Chiesa:

Madre dei Santi; immagine
della città superna;
del sangue incorruttibile
conservatrice eterna.,.

A questo punto ci sembra interessante soffermarci sui tre colori dei cerchi che costituiscono la cassa di risonanza e rappresentano la Chiesa: verde, bianco, rosso. I tre colori non solo vanno collegati alle tre virtù teologali elencate in alto a destra, ma - come abbiamo detto - ci richiamano i colori della bandiera italiana; per cui Gioacchino da Fiore può esser considerato un precursore di Dante nel vaticinio dei nostri colori nazionali. Un altro elemento, dunque, lega il profeta calabrese a Dante.

Infine non sembra casuale il fatto che Dante sia stato esaminato sulle virtù teologali nell'ottavo cielo, visto che Gioacchino ha posto tali virtù alle tre corde terminali del suo salterio decacorde.

° ° °

Tavola della circolazione trinitaria (tav. XXII)

Tav. XXII

Questa figura di Gioacchino da Fiore rappresenta un ceppo o tralcio con la scritta "Noe vir justus" da cui si dipartono tre rami: Sem a sinistra, Cam al centro e Jafet a destra. Estintosi subito il ramo centrale, i due laterali s'innalzano incrociandosi tre volte e formando tre cerchi: dunque, ancora tre cerchi trinitari. Nella circonferenza del centrale c'è scritto a sinistra (ramo di Jafet) "populus gentilis" e a destra (ramo di Sem) "populus Judaicus"[84]. I rami hanno dato sviluppo ad una rigogliosa fronda, ricca di foglie, fiori e frutti.

Siamo ancora nella simbologia della Trinità: infatti in tre piccoli cerchi sono disegnati nel ceppo il Pater, al secondo incrocio il Filius e al terzo lo Spiritus Sanctus. Leggiamo ora i vv. 127-145 del canto XXXIII del Paradiso:

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
dagli occhi miei alquanto circumspetta,
Dentro da sé del suo colore stesso
mi parve pinta della nostra effige;
per che il mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geometra che tanto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritruova,
pensando, quel principio ond'elli indige;
Tal era io a quella vista nuova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio, e come vi s'indova;
Ma non eran da ciò le proprie penne;
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
All’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disiro e ’l velle,
sì come ruota ch'igualmente è mossa
L'Amor che move il sole e l'altre stelle.

E con questi versi si concludono il Paradiso e tutta la Divina Commedia.

Praticamente Dante nella sua visione finale, tanto agognata, riesce a percepire il mistero dell'Incarnazione innestato in quello della Trinità; vuole rendersene conto, ma da sé non ci riesce con la ragione: ci vuole la folgorazione della fede. E così avviene.

Solitamente "circulazion" è stata intesa semplicemente come sinonimo di cerchio o giro; ma come spiegare quell'immagine umana dello stesso colore del cerchio? e la parola "pinta" non fa pensare ad una pittura-miniatura?

Ebbene, Dante attinse a questa tavola (codici di Oxford, foglio 4,12; Vaticano Latino 4860; Dresda): la "circulazion" è anzitutto il lungo girare e triplice incrociarsi dei rami, i quali nel loro interno mostrano la linfa o circolazione vitale dell'albero della vite. Stando ai colori, questa circolazione sembrerebbe addirittura quella del sangue nel corpo umano: un lato (Sem) rosso come nelle arterie e uno (Jafet) blu come nelle vene. Ecco perché a Dante appare l'immagine umana di Cristo dipinta al secondo incrocio di quella "circulazion", che è una vera e propria circolazione linfatica, oltre che arborea: e il colore del Sacro Volto (Cristo-Dio è quasi incorporeo, senza mani e senza piedi) è quello stesso del fondo dei tre cerchi, come si può notare meglio nel codice Vaticano Latino.

La parola "pinta" del verso 131, poi, ci spinge anche qui a ritenere che Dante avesse davanti agli occhi un'opera pittorica come le figure del Liber e fosse portato ad esprimersi con termini pittorici.

La mancanza di questa tavola nel codice di Reggio può essere addebitata a varie cause (sottrazione, perdita, deperimento, ecc.) e può essere avvenuta dopo Dante.

E a conclusione di questa analisi di figure gioachimite (ma ce ne sono ancora altre nel Liber figurarum) utilizzate da Dante, vogliamo ribadire che il mistero trinitario ritorna più volte, e con gioia, anche nel divino poeta: si veda - fra l'altro – Par. X, 1-3 e XIII, 55-57. Inoltre non è da escludere che la terza corona di beati del cielo del Sole, quello appunto in cui appare il profeta calabrese, sia stata immaginata da Dante per suggerire, insieme con le altre due, proprio il concetto della Trinità, tanto caro al profeta stesso. Infatti, mentre la prima corona (guidata da san Tommaso) e la seconda (guidata da san Bonaventura) offrono al poeta diversi spunti per soffermarsi su di esse e sui beati che le formano, per la terza non ci sono né caratteristiche né menzioni; essa serve solo per fare numero: segno che a Dante interessava suggerire la perfezione del numero 3 e la Trinità.

E riaffiora la presenza dello Spirito Santo in quell'esclamazione del verso 76 del canto XIV: "Oh vero sfavillar del Santo Spiro...!": lo Spirito di cui Gioacchino era stato profeta.


Parte terza
Documentazione essenziale

(N. B.: in questa parte le traduzioni dal latino o da altre lingue sono in carattere corsivo.)

Alcuni testi del Liber figurarum

1) Tavola del Canis-Veltro (seconda metà verso il basso).

Cane

(Al centro) Oratorio di san Giovanni Battista e di tutti i santi profeti.

In quest'oratorio si riuniranno i sacerdoti e chierici che vogliono vivere in castità e in comunità, ma che tuttavia non vogliono astenersi del tutto dall'uso delle carni e d'indumenti di pelle. Costoro digiuneranno d'inverno il mercoledì e il venerdì e saranno obbedienti al loro priore secondo la disposizione e l'arbitrio del padre spirituale che sarà preposto a tutti. Non useranno pallii, ma soltanto cappe, in modo che ci sia differenza fra il loro abito e quello dei laici. Presso di costoro ci sarà lo studio dell'arte della grammatica e vi saranno istruiti ì fanciulli e gli adolescenti in modo che sappiano parlare e scrivere in latino e imparare a memoria secondo possibilità il testo dei due Testamenti. Essi consegneranno la decima del loro lavoro e quella della decima che riceveranno dai coniugati nelle mani del padre spirituale per il sostentamento dei poveri di Cristo nel caso che avessero bisogno di qualcosa.

(A sinistra) Costoro riceveranno le decime e le offerte dell'ordine dei laici, tanto per le necessità proprie e degli scolari che saranno presso di loro quanto per il sostentamento dei poveri e dei pellegrini. Tuttavia non accoglieranno nel loro oratorio né sorella né moglie, ma nei giorni festivi entreranno nell'oratorio dei laici e celebreranno presso di loro i divini uffici. Staranno attenti pure a che mai le donne osino pernottare nell'ambito della loro corte. Ma nessuno dei sacerdoti o chierici entrerà in casa di qualche sorella sana o inferma per visitarla senza fidati e idonei testimoni; e ciò per ordine del priore e secondo disposizione del padre spirituale che sarà nella chiesa madre.

(A destra) Presso costoro ci sarà un ospizio fuori dell'ambito della loro corte in cui ci saranno giacigli e tutte le altre cose necessarie ad uso degli ospiti sani o infermi: esso avrà propri redditi secondo la posizione del luogo e la qualità della patria, tanto di animali quanto di agricoltura, e servitori che abbiano timor di Dio e sappiano offrire a tutti un congruo rispetto affinché da tutti si benedica Dio. Se poi qualcuno dei ricchi volesse visitare gli oratori dei monaci per la salute della sua anima, lasciati lì ì cavalli, andrà ad essi con semplicità; e, consolidato (nella fede) dalla preghiera, ritornerà ai suoi.

PIEDE

Fra questi due oratori dovrà intercorrere uno spazio di quasi tre stadi.
Noi in verità (siamo) il suo popolo
e le pecore del suo pascolo.
Oggi, se avrete ascoltato la sua voce,
non rendete insensibili i vostri cuori.

PECORA

Oratorio del santo patriarca Abramo e di tutti i santi patriarchi. Sotto il nome di questo patriarca si riuniranno i coniugati con i loro figli e figlie in vita comune, i quali potranno fruire delle mogli più per (procreare) prole che per libidine: e in certi tempi o giorni si asterranno da esse di comune accordo per dedicarsi alla preghiera, considerando tuttavia nei giovani la complessione e l'età,, affinché non siano tentati da Satana. Costoro avranno proprie case e si guarderanno da ogni crimine. In comune invece prenderanno vitto e vestiario e obbediranno al loro maestro, secondo la disposizione e l'arbitrio del padre spirituale, al quale tutti questi ordini saranno obbedienti come se si dovesse comporre a pezzo a pezzo un'altra arca di Noè. Questi digiuneranno in inverno ogni venerdì se non malati: e si copriranno soltanto dì semplici pallii. Presso questi cristiani non si troverà alcun ozioso che non guadagni il pane suo, in modo che abbia di che darne in caso di necessità ai bisognosi. Ognuno lavorerà secondo la sua arte: e le singole arti o gli artigiani avranno i loro preposti. Chi dunque non vorrà lavorare secondo la possibilità, sarà scacciato dal maestro e rimproverato da tutti. Il vitto e il vestiario saranno semplici, come si conviene ai cristiani: tra di loro non si troveranno vestimenti bizzarri. Il colore della tintura sarà evitato da loro. Le donne anche lavoreranno onestamente e fedelmente la lana ad uso dei poveri di Cristo e saranno quasi madri di altre giovinette e fanciulle nell'educarle al timor di Dio. Costoro daranno ai chierici le decime di tutto ciò che possiedono per il sostentamento dei poveri e dei pellegrini, ma anche dei fanciulli che studiano la dottrina, in tal modo che, se questi avessero di troppo e alcuni di loro avessero di meno, ad arbitrio del padre spirituale si prenda da quelli che più hanno e si dia a quelli che hanno di meno, e non ci sia nessun bisognoso fra di loro: e questa sarà la regola per tutti.

CORPO

2) Tavola del drago a sette teste.

(Settima testa) Questo è quel re di cui si dice in Daniele: "Verrà un re impudente all'aspetto, e la sua fortezza si corroborerà, ma non con le sue forze, e devasterà l'universo al di là di quanto si possa credere ".

I re sono sette: cinque sono morti, uno è ancora vivo e uno non è ancora venuto: e quando verrà bisognerà che lui rimanga per poco tempo.

Questo è il settimo re che propriamente si chiama Anticristo. Sebbene ce ne sia un altro simile, non minore di lui in malvagità, indicato nella coda.

Alla fine dei tempi e degli anni Satana si scioglierà dal suo carcere, uscirà, sedurrà le genti che saranno per i quattro angoli della terra e le spingerà in battaglia: il loro numero sarà come la sabbia del deserto: e circonderanno gli accampamenti dei santi e la città diletta... Gog, questo è l'ultimo Anticristo.

3) Tavola del cocchio di Ezechiele.

Cristo nascendo si fece uomo; e da ciò molti uomini. Nell'uomo si rappresenta l'ordine dei dottori.

Cristo morendo si fece vitello: e da ciò molti vitelli sono ammazzati sull'altare di Cristo. Nel vitello si rappresenta l'ordine dei martiri.

Cristo risorgendo si fece leone: e da ciò molti sono diventati leoni con la forza della fede.

Cristo ascendendo al cielo si fece aquila: e da ciò cominciarono ad esserci molte aquile. Nell'aquila si rappresenta l'ordine dei contemplanti.

4) Tavola dei cerchi trinitari.

Definizione prima indicata nell'Alfa.

In questa definizione del sacro nome con la quale diciamo IE il Padre, EU il Figlio, UE lo Spirito Santo, si dimostra che tre sono le persone della Divinità, che le stesse persone sono indivisibili e inseparabili da sé stesse, che il Figlio è dal Padre (unica cosa che i greci condividono con noi) e che lo Spirito Santo procede dal Figlio (cosa che i greci negano).

Definizione seconda indicata nell'Omega.

In questa definizione del sacro nome con la quale diciamo I il Padre, E lo Spirito Santo, U il Figlio, E lo Spirito Santo, si dimostra che lo Spirito Santo procede dal Padre, che lo stesso Spirito Santo procede dal Figlio, che lo stesso unico Spirito coopera col Padre, il quale opera specialmente nel Vecchio Testamento e nel nuovo coopera col Figlio, il quale dice: ''Anch'io opero nel modo in cui opera il Padre mio ".

In questi cinque modi si deve intendere la relazione fra le persone della Divinità: o singolarmente di una verso l'altra o insieme di due verso l'una, o anche in comunità delle stesse tre verso i doni spirituali o anche verso ogni creatura.

A

Adamo I E U E Fine del mondo

Ω

Questo è l’ineffabile nome del Signore Dio che il sommo sacrificatore Aronne portava in fronte, composto delle quattro lettere disegnate più in alto in questa pagina, per cui dai greci è detto tetragramma.

In questi sette modi si riferiscono a sé le persone della Divinità o singolarmente o insieme due o tre.

5) Tavola del salterio.

Questo è l'ineffabile nome del Signore che Aronne portava in fronte, composto delle quattro lettere disegnate più in alto in questa figura di salterio, per la qual cosa è detto tetragramma, in cui meravigliosamente si raffigura il mistero della santa e indivisibile Trinità.

La fede cattolica è che veneriamo un solo Dio nella Trinità e la Trinità nell'Unità, non confondendo le Persone né separando la sostanza.

Salterio dalle dieci corde
Signore Dio Onnipotente I E U E Santa Trinità, Unico Dio
A lui gloria
Ma del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo
una sola è la divinità
E lo temano tutti i territori della terra
Una santa chiesa cattolica

Non due Spiriti, ma uno solo, mandato due volte: e in una missione si è dimostrato come proceda dal Padre, nell'altra come proceda dal Figlio: cioè come lo stesso proceda sempre insieme dall'uno e dall'altro.

Dieci corde, dieci comandamenti.

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Altri testi di Gioacchino da Fiore

1) Sulla Trinità (dallo Psalterium, foglio 229).

Dio è infatti uno senza confusione delle Persone, trino nelle Persone senza divisione della sostanza... È sempre ciò che è, e mai può essere se non trino e uno. Questa sostanza, che è Dio, è una e sommamente una, e al di là di quanto sia possibile dire è una sola semplice natura. Non neghiamo la Trinità nel credere in una sola sostanza, ma aborriamo quelle divisioni di parti che si finge l'intelletto carnale... Ma, se costretti da qualche necessità dobbiamo prendere un'immagine visibile, almeno prendiamo ciò che di più nobile c'è fra le cose prive di ragione, (prendiamo) questa luce (terrena), in qualche modo immagine (a quanto risulta) di quella vera Luce che illumina non tanto gli occhi esteriori degli uomini reprobi quanto i cuori degli eletti. Infatti da questa luce, che si chiama sole, nasce continuamente il raggio e deriva incessantemente il calore, i quali pure giungono a terra in modo tale da non staccarsi dalla fonte da cui provengono; sicuramente sul modello del Figlio, che discese ad illuminarci, senza staccarsi da colui che lo aveva mandato, il Padre, e sul modello dello Spirito Santo che con lui parimenti ci fu donato, affinché c'infiammasse col fuoco della sua carità. Hai dunque nell'unico sole il mistero della Trinità.

2) "Correggetemi se sbaglio" (dall’ Expositio in Apocalypsim, fogli 223-224).

Vi scongiuro, o fedeli, affinché, come io per la vostra salvezza mi sono assunto un lavoro di tanto peso desiderando darvi la spiegazione (delle Scritture)..., così anche voi mi diate una mano, poiché se in questa stessa o in altre mie modeste opere ho sbagliato in qualche cosa perché uomo (cosa che ho fatto inconsapevolmente e tuttavia non nego e non adduco scuse), Chi è buono sia indulgente per sua clemenza, conoscendo egli la mia umiltà, perché, se c'è qualcuno che pietosamente mi corregga mentre sono in vita, sono pronto ad accettare la correzione imitando umilmente colui che disse: "Mi correggerà il giusto nella sua misericordia, e l'olio del peccatore non impregni il mio capo" (Salmo 140, 5). Se invece una repentina chiamata del Signore mi avrà sottratto alla luce terrena, la Chiesa Romana, a cui fu assegnato il magistero universale e per mandato e permesso della quale ho scritto queste cose, ordini che queste siano presentate al suo capo cosicché egli conferisca autorità a quelle mie tesi che ne sono degne, mentre lo supplico che si degni di correggere quelle in cui egli avrà notato qualcosa d'indegno. Se perfino quel sommo Apostolo portò i suoi scritti davanti ai suoi apostoli che lo precedevano, affinché casualmente non corresse o fosse corso verso il vuoto, tanto più io, che sono un nulla, non voglio essere giudice dì me stesso, mentre dev'esserlo il sommo Pontefice che giudica tutti e da nessuno è giudicato.

Del resto, se in alcuni passi vi sono cose difettose, e perciò possono essere portate dagli avversari ad un senso illecito, l'amante della verità cerchi in altre parti delle nostre modeste opere e troverà sufficientemente nitido altrove quello che in un posto per caso la brevità rese oscuro. Se infatti non mancarono uomini malvagi che, come testimonia Pietro, deformarono le lettere di Paolo (cfr. 2a lettera di Pietro, 3, 16)..., tanto più è necessario che si compia ciò che l'Apostolo afferma che avverrà dei sovvertitori della verità, principalmente ora che vediamo incombere quei tempi di pericolo nei quali è previsto che accadano proprio queste cose e molte altre.

3) Lettera-testamento di Gioacchino, premessa al Libro della Concordia.

A tutti coloro a cui sarà mostrata questa lettera frate Gioacchino, detto abate di Fiore, augura salute eterna nel Signore.

Come si può capire dalla lettera di sua santità il defunto papa Clemente (III) da me conservata e sopra riportata, per mandato delle loro santità i papi Lucio (III) e Urbano (III) ho tentato di scrivere continuamente e finora non lascio di scrivere ciò che torna a gloria di Dio. In sostanza ho portato a compimento il Libro della Concordia composto di cinque volumi, l'Esposizione dell'Apocalisse, insignito dei titoli di otto parti, il Salterio dalle dieci corde, composto di tre volumi secondo che Dio ispirò e mi soccorse la capacità del mio ingegno, oltre ad altre cose che composi in piccoli libretti sia Contro i giudei sia Contro gli avversari della fede cattolica. E se, finché sono in questa vita, mi sarà data altra possibilità di edificazione dei fedeli di Cristo ed in particolare dei monaci, non trascurerò di dedicarmici.

Infatti per mancanza di tempo non ho potuto presentare alla Sede apostolica le mie modeste opere, tranne il Libro della Concordia, affinché venissero corrette da essa, se vi fosse alcunché da correggere, cosa che non nego, sebbene non ne sia cosciente; poiché per l'uomo è incerto il numero dei giorni che deve vivere, se mi capiterà di dover lasciare questa vita prima che io possa presentare quello che ho intrapreso a scrivere per il mandato ricevuto, dato che accettai di farlo alfine di presentare tutti i libri proprio a chi è dato tutto il magistero, supplico in nome di Dio onnipotente i miei coabati, i priori e tutti gli altri frati che temono il Signore, e con quell’autorità che mi sembra possibile comando che tutti coloro che possiedono il presente scritto o una sua copia e se per testamento gli opuscoli finora composti e quelli che di nuovi mi sarà dato di comporre fino al giorno del mio trapasso, il più presto possibile, raccolto tutto il materiale, lasciate in un posto sicuro alcune copie, lo presentino all'esame apostolico, ricevendo da quella Sede in mia vece la correzione. Essi esporranno la mia devozione alla stessa Sede, la mia fedeltà e il fatto che io sono sempre pronto a recepire quelle cose che essa stabilì o stabilirà e a non difendere nessuna mia opinione che dovesse risultare in contrasto con la sua santa fede, credendo profondamente in ciò in cui essa stessa crede, disposto ad accettare correzioni tanto nei comportamenti quanto nella dottrina, rifiutando ciò eh 'essa rifiuta, accettando ciò ch'essa accetta, e credendo fermamente che le porte dell'inferno non prevarranno su di essa e che, anche se a volte possa essere turbata e agitata da tempeste, la sua fede non tramonterà mai fino alla consumazione dei secoli.

Questo scritto l'ho fatto e corroborato con la mia propria mano io, abate Gioacchino, nell'anno dell'Incarnazione del Signore 1200. E dichiaro di volermi attenere fedelmente a quanto in esso è contenuto.

° ° °

La bolla di Onorio III del 1220

Nell'anno 1220
Affinché per tutta la Calabria si annunci pubblicamente che l’'Abate Gioacchino
è un uomo Cattolico, non eretico.

ONORIO

Vescovo, Servo dei Servi di Dio
all'Arcivescovo di Cosenza e Vescovo di Bisignano.

Da parte dei diletti figli Abati e dei Conventi dell'Ordine di Fiore, tanto del capo quanto dei membri, Ci è stato personalmente riferito che quello che trama contro la salvezza e la quiete degli uomini, presa occasione dal fatto che il libello pubblicato dall'Abate Gioacchino contro il maestro di buona memoria Pietro Lombardo fu condannato nel Concilio Generale, ha eccitato contro di loro parecchi soggetti, tanto chierici quanto laici e Prelati, i quali, per strapparli dall'ozio della contemplazione e porre ai loro piedi delle funi tese a forma di legaccio, procurano loro inciampo per la via, rimproverando che lo stesso Abate, che fu Padre e Fondatore del loro Ordine, sia ritenuto eretico dalla Chiesa di Dio; a causa di ciò non solo i semplici lattanti vengono allontanati dalla comunità di detto Ordine, ma anche i forti, che dovrebbero usare cibo solido e hanno i sensi esercitati per consuetudine alla conoscenza del bene e del male, cominciano a vacillare circa le regole del loro Ordine. E vero dunque che il predetto libello o trattato era stato condannato nel citato Concilio; tuttavia lo stesso Gioacchino dispose che tutti i suoi scritti fossero consegnati al Romano Pontefice per essere approvati o anche corretti a giudizio della Sede apostolica: ciò, con una lettera scritta e firmata di proprio pugno, in cui fermamente confessò di tenere quella Fede che tiene la Chiesa Romana, la quale per volontà di Dio è Madre e Maestra di tutti i fedeli. Per quanto sopra con questa bolla Apostolica ordiniamo a tua fraternità di fare annunciare per tutta la Calabria pubblicamente che Noi reputiamo lui Uomo cattolico e salutare l’istituzione religiosa da lui fondata; nel contempo, conosciuta la verità con la dovuta attenzione, castigheremo quelli che da ora in poi avranno osato denigrare o insultare il citato Ordine nel modo suddetto, dopo averli tutti richiamati.

° ° °

Documenti su Gioacchino e sue figure a Venezia

1) Da Documenti per la storia dell'augusta Basilica di San Marco, Ongania, Venezia, 1886:

"Del 1071 fo butà a terra la giesia de San Marcho et de San Teodoro, era una appresso l'altra et fo principià una magna giesia sola a honor de San Marcho, la qual è questa al presente, e fo fatta tutta de musaicho et ornata de propheti et de molti santi che dovea vegnir e tutti i disegni fò ordinadi da un abate Joachim che fo uno gran propheta..." (Doc. 54)

"MLXXXV-MLXXXXIV. In questo tempo l'Abate Gioachino habitava nella Chiesa di S. Marco, et come huomo di Dio ordinò molte figure di Santi, che furono tutte Profetie, come si può vedere per tutta detta Chiesa, et massime sopra la porta del tesoro si veggono quelle di S. Francesco e di S. Domenico con gli habiti loro fatti tanti anni avanti che venissero in questo mondo." (Doc. 64)

2) da Giovanni Stringa, La Chiesa di S. Marco, capella del Serenissimo Principe di Venetia descritta brevemente, Venetia, 1610, cap. V:

"Né è da passar sotto silentio quello che significar vogliono alcuni animali figurati su questo pavimento; impercioche alcuni di loro furono già ordinati da Gioachino Abate di S. Fiore con significato di cose venture."

3) da Nicolò Doglioni, Le cose notabili e meravigliose della città di Venetia, Venetia, 1662:

"Veneziano: Ma io voglio... mostrarvi qua di sopra in questo volto effigiate le due imagini di san Francesco, e di san Domenico, più di cento anni avanti che venissero al mondo, e son quelle che là vedete, che se ben non hanno il nome, si conoscono il san Francesco per le stimmate, habito e crocetta, e san Domenico per l'habito e il libro che tengono nelle mani. E ivi presso quella effigie vogliono molti, che ella sia il ritratto di quel pontefice, che dee venire, quando compirà la parola di Christo et in tal modo si ridurrà ad un sol culto, et sarà all'hora un sol pastore, et un ovile solamente.

Forestiero: Ma chi è stato, che ha dato ordine nel dipingervi le dette figure...

Veneziano: Fu costui Gioachino abbate sopradetto di san Fiore, il quale a questo tempo venne incognito e senza appalesarsi altrimenti ordinava ciò che dovevano fare, predicendo in tal modo molte cose avvenire, di che son piene d'ogni intorno le mura, et sin nel suolo ve ne fece scolpire..."

4) da Francesco Sansovino, Venetia Città Nobilissima et Singolare descritta in XIIII libri, Venetia, 1663, libro II, "Del Sestiero di S. Marco":

"Di sopra all'angiporto il colmo è sfondato in forma di quadrone, ma dalle bande corre con diverse cubette, dipinte di mosaico, con varie historie del Testamento Vecchio in campo d'oro con tanta ricchezza, che arreca stupore ad ogni uno. Sopra le quali historie di sotto, et da i lati, è scritta la loro significatione con versi, et spesso vi si leggono profetie delle cose future, perciocché si dice che l'Abate Ioachino si trovò in Venetia in quel tempo che si diede principio a lavorar di mosaico, et si mostra ancora in S. Marco il luogo dove esso habitava, et diede l'inventione di quanto si vede fatto, così dentro come fuori di Chiesa. Che i due frati et sopra la porta del Santuario furono preveduti da lui molti anni prima che venissero al mondo, significando l'uno per san Domenico, et l'altro per san Francesco, con molte altre cose appresso, attorno alle quali si pascono, et si sono pasciuti diversi ingegni troppo curiosi delle cose che hanno a venire..."

5) da Antonio Pagi, Critica Historico-Chronologica in Universos Annales Ecclesiasticos, Anversa, 1705, pag. 617:

"Così, avendo Gioacchino al cap. 13 del Super Isaiam predetto che due Ordini Religiosi stavano per nascere sotto la guida dei Santi Domenico e Francesco, alcuni, prima ancora che i medesimi Santi fondatori nascessero, immaginarono che Gioacchino ordinasse di dipingere nel tempio di San Marco a Venezia le loro immagini nell'abito che essi avrebbero dato ai loro Religiosi..."

6) da I mosaici di San Marco, a cura di Bruno Bertoli e con contributi di Wladimiro Dorigo e Antonio Niero, Electa, Milano, 1986, pagg. 16 e 36:

"In ogni chiesa dell'area bizantina la decorazione musiva veniva eseguita in fedele ossequio a rigide leggi iconografiche. Accadde così anche per San Marco? La tradizione locale, che tuttavia si rifà solo a fonti quattrocentesche, vi ravvisò l'intervento dell'abate Gioacchino da Fiore, 'di spirito profetico dotato', secondo la definizione di Dante. Certo, non risale all'abate calabrese l'insieme del piano iconografico marciano, né ha valore la sua presunta profezia circa san Francesco e san Domenico, che sarebbero stati preannunciati tramite l'indicazione del luogo ove effigiarli in basilica... Gioacchino da Fiore, nato nel 1145 circa[85], morì nel 1202: san Francesco di Assisi e san Domenico gli sono dunque coevi, l'uno essendo vissuto tra il 1182 circa e il 1226, l'altro fra il 1170 e il 1221. Otto Demus non esclude in modo assoluto la presenza nella laguna veneziana del monaco calabrese o di alcuni suoi collaboratori, se non per l'intero programma iconografico, almeno per sue modifiche o aggiunte, sia nelle immagini che nelle didascalie. In effetti, crediamo che a lui si sia guardato tanto per il rapporto tra le scene evangeliche e i profeti, quanto per la struttura geometrizzante e simbolica del pavimento. Il suo influsso si può anche avvertire, rileva il Demus, in alcune soluzioni quali l'inserimento delle virtù nella cupola dell'Ascensione, le raffigurazioni dei quattro fiumi biblici sui pennacchi e dell’Ecce homo nella scena della passione e del Noli me tangere nel ciclo della resurrezione o nell'accenno alla dottrina dello Spirito Santo nelle didascalie della cupola della Pentecoste.

Le questioni su Gioacchino da Fiore sono in chiara sintesi in P. Saccardo, Les mosaïques de Saint-Marc à Venise, Venezia 1897, pp. 157-161; ed ora con discussione e valutazione del problema in O. Demus, The mosaics of San Marco in Venice, vol. I, Chicago-London 1984, pp. 256-258; particolari curiosi sulla presenza dell'abate in San Marco si possono leggere in F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia, 1581, p. 34rv, precisato meglio nell'edizione successiva a cura di G. Stringa, Venezia 1604, p. 58. Per l'influsso gioachimita sui disegni geometrici del pavimento della basilica: S. Bettini, Mosaici antichi di San Marco a Venezia, Bergamo, 1944, pp. 13-14... A Venturi, Storia dell'arte italiana, vol. II, Milano 1902, p. 428 (sviluppa le tesi di derivazione gioachimita)..."

7) da Juana Mary Arcelus Ulibarrena, El cod. 9-29 de la Biblioteca del Cabildo de la Catedral de Toledo, in "Florensia", San Giovanni in Fiore, 1992, pagg. 45-54:

La profezia di questo testo è niente meno che quella dei "duo viri" attribuita all'abate calabrese Gioacchino da Fiore a partire dal Liber Concordie Novi ac Veterìs Testamenti (AB) e fece parte di una larga tradizione medievale che ha la sua origine nella stessa fondazione dei due Ordini Mendicanti: San Francesco e San Domenico, visti pure nella loro rappresentazione pittorica della Chiesa di San Marco di Venezia realizzata per volontà dell'abate Gioacchino da Fiore al suo passaggio per Venezia secondo una tradizione medievale...

Sant'Antonino da Firenze O.P. (1389-1459) dava questa interpretazione dei duo viri:

L'abate Gioacchino espone che le due verghe sono i due ordini dei mendicanti (...) ma più apertamente fu preannunciato e più particolarmente dichiarato in una pittura che si trova nella Chiesa di San Marco di Venezia, dove prima che Domenico nascesse nel mondo le immagini dei due sono dipinte.

Per Galvaneo della Fiamma O.P. la profezia si presentava così nel 1333 "L'abate Gioacchino nei suoi libri dipinse l'abito dei predicatori" ...

...la maggior parte delle versioni trovano la loro giustificazione nelle pitture famose della Chiesa di San Marco di Venezia...

L'abate Gioacchino
nella concordia maggiore dei nove ordini
così scrive di san Francesco

Ci saranno due uomini, l'uno di qua e l'altro di là[86], che rappresentano due ordini, l'uno italico e l'altro spagnolo. Il primo in verità (color di) colombo, il Secondo di corvo. E dopo questi due ordini verrà un altro ordine vestito di sacchi al cui tempo apparirà il figlio dell'iniquità, cioè l'angelo della morte detto anticristo...

8) da Damien Vorreux, TAU simbolo francescano, Messaggero, Padova, 1988, pagg. 64-65:

"Bartolomeo da Pisa non si lasciò sfuggire l'occasione di insistere sulla leggenda e affermò di aver visto il mosaico in San Marco a Venezia. Ancora all'inizio del sec. XVII il dotto e prudente Ribadeneira, gesuita, scrive: 'Prima che san Domenico e san Francesco fondassero le loro religioni, l'abate Gioacchino fece dipingere in San Marco di Venezia le immagini di san Francesco col suo abito e le stimmate, e di san Domenico con il suo abito (Vite dei santi, 4 ottobre)'. Un po' più tardi, Don Thomas Le Roy, storico fedelissimo, nel descrivere i lavori fatti nel 1228 dall'abate Radulphe de Villedieu nel chiostro della Meraviglia del Mont-Saint-Michel in Francia, annotò: 'Fece anche ritrarre nelle medesime arcate del suddetto chiostro, dalla parte del capitolo, cominciando verso l'occidente, la figura di san Francesco d'Assisi, sul prototipo di quella che l'abate Gioacchino aveva fatto dipingere in San Marco di Venezia prima del decesso del suddetto santo e della fondazione del suo Ordine...'"

9) da Gioacchino da Fiore, Sull'Apocalisse, a cura di Andrea Tagliapietra, Feltrinelli, Milano, 1994, pag. 101:

"Esiste una tradizione dossografica che descrive Gioacchino quale 'valente dipintore'... per non parlare del tema 'leggendario' e ricorrente in numerose vite dell'abate, di Gioacchino quale ideatore e ispiratore del ciclo iconografico dei mosaici della Basilica di San Marco, a Venezia."

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La santità e i miracoli di Gioacchino

La collocazione di Gioacchino da Fiore nel Paradiso dantesco, con la conseguente qualifica di beato, non è stata un arbitrio e un capriccio del divino poeta, al quale non potevano essere ignote le pronunce ecclesiastiche in merito a certe tesi e atteggiamenti dell'abate calabrese o a lui attribuiti, ma facevano propria una tradizione agiografica che aveva cominciato ad instaurarsi.

Già la frase "di spirito profetico dotato" proveniva, come abbiamo visto, da un'antifona dei vespri che i florensi cantavano o recitavano in onore del loro fondatore; e ciò presuppone un culto vero e proprio, con una sua festa e un suo uffizio. Ma Dante tenne conto anche della legenda agiografica che attribuiva doti taumaturgiche al beato. Questa legenda era sorta quando ancora Gioacchino era vivente e accorrevano a lui folle di poveri, ammalati, derelitti, in un clima di miseria, sofferenza e fame nel quale s'intravedevano facilmente comportamenti o eventi prodigiosi, ognuno dei quali veniva definito admirabile.

Questa legenda agiografica era già scritta ai tempi di fra' Salimbene da Parma, il quale nella sua Cronica parla della santità della vita di Gioacchino e fa riferimento alla legenda stessa, testimoniandone il carattere di opera scritta. D'altronde Gioacchino veniva chiamato col titolo di santo non solo oralmente dai suoi seguaci e ammiratori, ma anche per iscritto in certe copie di sue opere; tant'è che in un codice dell'Expositio in Apocalypsim della Biblioteca Vaticana (Chigi, A.VIII. 231) l'abate Gioacchino è raffigurato con una marcata aureola di santo intorno alla testa.

Miniatura di Gioacchino con l'aureola di santo

Nel 1249, in occasione della traslazione del corpo di Gioacchino in un nuovo sepolcro a San Giovanni in Fiore, furono notati vari eventi prodigiosi: e ciò contribuì alla sua glorificazione, essendo il passaggio della salma di un venerabile un momento solenne, capace di generare conversioni e miracoli. Continuava così la legenda, ripartita - come voleva la tradizione - in vita, in morte e dopo morte. E chiaro che a tale legenda per secoli si è attinto anche nella predicazione, per glorificare il beato ed edificare i fedeli.

Nel 1346 i florensi indirizzarono una supplica alla Santa Sede perché si aprisse il processo di beatificazione ufficiale di Gioacchino e all'uopo allegarono una copia della legenda, cioè della raccolta scritta dei miracoli attribuiti al venerabile. Secondo alcuni tale processo sortì l'effettiva beatificazione di Gioacchino, che però non poté essere proclamata né resa esecutiva a causa della forte ostilità dei cistercensi[87]. D'altra parte dopo il 1570, anno in cui i florensi confluirono nell'ordine cistercense, Gioacchino non ha trovato più alcun ordine religioso che facesse propria la memoria di lui, lo appoggiasse e ne perorasse la causa di beatificazione per portarlo alla gloria degli altari: ciò, anche se molti ignorano questa mancata beatificazione ufficiale e qualche dizionario o enciclopedia del nostro tempo, pur senza riferimento alla sua collocazione nel paradiso dantesco, che in qualche modo ne giustifica il titolo, lo qualifica senz'altro beato[88].

È certo che con gli anni la legenda andò ingrossandosi, fino a costituire un consistente volume di testimonianze, depositato nell'armadio del monastero di San Giovanni in Fiore, dove nel sec. XVII fu scoperto e rifatto singolarmente da due monaci di quella comunità, i quali ci hanno lasciato i due rispettivi manoscritti.

Mentre nulla si sa del primo raccoglitore della legenda conservata nel suddetto armadio, autore che cosi resta anonimo e la cui opera è smarrita, si conoscono i nomi dei due monaci che rifecero il libro: Giacomo Greco e Cornelio Pelusio.

Il Greco si mise all'opera nel 1586 e la prima parte del suo lavoro fu pubblicata nel 1612 col titolo Ioacchim Abbatis et Florensis Ordinis Chronologia. Fra il 1597 e il 1598 egli si dedicò a trascrivere, parafrasandolo, il manoscritto originario, testimone dei miracoli del profeta, purgandolo di tutto ciò che appariva fantasioso, come - ad esempio - la Visio Rogerii[89], di cui alla scoperta di Carmelo Ottaviano, codice 1411 della Biblioteca Casanatense di Roma (si veda la Parte Prima) e altre visioni: ciò, per dare più attendibilità alla santità di Gioacchino. Infatti il racconto dei miracoli a volte è fatto personalmente dai miracolati o da testimoni presenti o coevi. L'opera non poté essere stampata dallo stesso autore perché non gli pervenne in tempo il richiesto Imprimatur della Santa Sede.

Cornelio Pelusio lavorò negli stessi anni del Greco, utilizzando la stessa fonte; ma la disposizione dei miracoli, la parafrasi e lo stile sono diversi.

La copia principale del manoscritto del Greco, del quale si conoscevano già due esemplari, destinata ai posteri e perciò interessante anche dal punto di vista artistico e librario, fu conservata per molti anni nell'armadio del monastero di San Giovanni in Fiore, ma poi andò dispersa insieme con molte altre opere della stessa biblioteca. Il ritrovamento di essa, cucita in appendice ad una copia della Chronologia e insieme rilegata, con un frontespizio unico che reca annotato il deposito nel suddetto armadio nel 1614, è merito dello studioso Antonio Maria Adorisio, bibliotecario conservatore a Roma, direttore del Laboratorio romano per la documentazione del manoscritto e autore di pregevoli opere di ricerca fra cui appunto quella di cui stiamo parlando[90].

In quest'opera, oltre a molte preziose notizie sui miracoli e sulla costituzione della legenda di Gioacchino da Fiore, l'Adorisio riporta in successione il testo di Giacomo Greco, quello di Cornelio Pelusio e infine quello (brevissimo) della suddetta Visio Rogerii. Su quest'ultima, che descrive brevemente un'apparizione capitata allo scrivano Ruggero e sulla quale ci siamo soffermati nella Parte Prima, qui non ci soffermiamo. Ci sembra utile invece riportare, tradotti, tutti i titoli degli admirabilia del testo del Greco e alcuni dei racconti di lui e del Pelusio per dare un'idea della varietà e del genere dei miracoli di Gioacchino da Fiore. Al riguardo, anzi, notiamo che, mentre oggi bastano solo due miracoli per proclamare un beato, nel caso di Gioacchino i miracoli scritti sono alcune diecine: cosa che potrebbe spingere l'apposita commissione o congregazione pontificia a riaprire il caso e a pervenire, dopo il vaglio, a conclusioni ufficiali.

Perciò la pubblicazione curata dall' Adorisio, in seguito alla sua scoperta, appare utile anche in questa direzione.

Quanto al testo del Greco e a quello del Pelusio, osserviamo che essi sono riconducibili all'abbondante letteratura di devozione che caratterizzò il Due-Trecento. Era la letteratura di cui si nutrivano gli animi semplici e incolti e in cui risaltano La legenda aurea di Iacopo da Varazze e le Vite dei Santi Padri di Domenico Cavalca, ai quali i nostri testi sono vicini. Ma essi hanno anche la brevità, la freschezza e il candore del Novellino. E va dato atto all'Adorisio di avere immesso nel circuito letterario testi di questo valore.

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MIRACOLI COMPIUTI
CON LA COLLABORAZIONE DI DIO
DAL VENERABILE ABATE GIOACCHINO
FONDATORE DELL'ORDINE FLORENSE

raccolti da fra' Giacomo Greco di Scigliano Professore di Sacra Teologia
e conservati nell'armadio del Monastero Florense

PREFAZIONE

...In realtà ho deciso di trascrivere questi miracoli di tanto padre, con l'intenzione di far glorificare da tutti la santità di tale e tanto uomo e la bontà e maestà di Dio onnipotente... Il Signore Dio è grande in grandi e molte cose, come anche in piccole e poche cose: è sufficiente a dimostrare ciò come il Signore Dio adornò di molti miracoli, in vita, in morte e dopo morte, il suo servo abate Gioacchino, fondatore del monastero Florense e del relativo Ordine...

PRODIGIO Primo. Si sciolgono i vincoli di una lingua impedita.

PRODIGIO II. Allo stesso Luca è ridata nuovamente la salute e ottenuta l'astinenza.

PRODIGIO III. Un indemoniato è liberato per i meriti del santo Padre.

PRODIGIO IV. Un religioso è liberato dalla tentazione per i meriti del beato Gioacchino.

PRODIGIO V. Un adolescente, vocato alla milizia di Cristo, corona la sua vocazione sotto la regola del beato Uomo.

PRODIGIO VI. Anche gli animali vengono guariti per mezzo della santità dell'Uomo di Dio.

PRODIGIO VII. Uno zoppo viene riabilitato per mezzo dell'Uomo di Dio.

PRODIGIO VIII. Una donna implorante il beato Uomo guarisce.

PRODIGIO IX. Una grandissima inondazione d'acqua cessa per preghiera dell'Uomo di Dio.

PRODIGIO X. Ad un religioso è data la luce dell'intelletto per i meriti di Gioacchino.

PRODIGIO XI. Un indemoniato parimenti è liberato all'implorazione dell'Uomo.

PRODIGIO XII. Moltissimi sono liberati dalla morte grazie all'Uomo di Dio che annunzia il futuro.

PRODIGIO XIII. Animali incoscienti obbediscono al servo di Dio.

...All’ Uomo di Dio nella suddetta città di Palermo obbedirono non soltanto animali di poco conto, ma anche i re di essa con meraviglia di tutti. Come poi lì egli avesse umiliato Costanza Imperatrice lo abbiamo lasciato vedere più diffusamente in un nostro opuscolo...

PRODIGIO XIV. Una donna, con l'aiuto dell'Uomo di Dio, guarisce da una grave malattia.

PRODIGIO XV. Uno che disprezza gli ammonimenti dell'Uomo di Dio è punito gravemente.

PRODIGIO XVI. Parimenti uno che schernisce gli ordini del beato Uomo è assalito atrocemente.

PRODIGIO XVII. Una donna è liberata dall'oftalmia per i meriti del sant'Uomo.

PRODIGIO XVIII. Durante la traslazione del corpo del beato Gioacchino un infermo guarisce.

PRODIGIO XIX. Dei ladroni sono immobilizzati con la protezione dell'Uomo di Dio.

PRODIGIO XX. Un monaco guarisce al sepolcro dell'Uomo di Dio.

PRODIGIO XXI. Parimenti un novizio guarisce al sepolcro del beato Uomo.

PRODIGIO XXII. Parimenti allo stesso sepolcro tanti ricevono la salute.

PRODIGIO XXIII. Un folle, per i meriti del beato Uomo, rinsavisce.

PRODIGIO XXIV. Un monaco, per i meriti del beato Gioacchino, recede dall'apostasia.

PRODIGIO XXV. Un furioso, per i meriti del santo Padre, guarisce.

PRODIGIO XXVI. La lampada che sta davanti al sepolcro del santo Padre si accende per miracolo.

PRODIGIO XXVII. Un cieco riprende la vista al sepolcro dell'Uomo di Dio.

Il misericordioso e compassionevole Signore, essendo non sfornito di luce ma creatore di tutte le luci, illuminando ogni uomo che viene in questo mondo, senza badare alle cose che ha fatto, per i meriti e l'invocazione del servo suo Gioacchino, si è degnato di dare tutta la vista ad un cieco...

Nel predetto monastero di Fiore c'era un monaco di venerata memoria che aveva nome Giovanni. Costui, mentre godeva di ottima salute, di sera all'improvviso con gran dolore perse il lume degli occhi. Stando dunque nella sua cella a piangere e urlare per giorni, era afflitto sia per il dolore sia per la cecità, tanto che al quarto giorno il dolore diventava intollerabile; perciò fu visitato dai frati e dal priore, il quale, in procinto di uscire dal chiostro per cose necessarie al monastero, esortò il confratello infermo a sopportare pazientemente sull'esempio di Tobia e Giobbe. Tuttavia l'infermo, allontanatisi loro, proruppe in queste parole: "II santo e venerabile padre nostro Gioacchino si è presentato ora alla mia mente come visto nella sua traslazione da noi solennemente celebrata, nel luogo dove piamente e devotamente è venerato". Dette queste parole, poiché non aveva ancora perso tutte le forze, conoscendo bene i locali, con moltissima devozione si portò a passo a passo alla cappella e al sepolcro del santissimo padre, dove, giunto quasi per miracolo, prostratosi a terra, andava palpando con le mani il sepolcro, quasi volendo con questo sistema entrare in esso, se avesse potuto.

Infine, stando attaccato ad esso, preso da grande contrizione e devozione, umiliandosi in compunzione di cuore, si sciolse in pianto e grande pioggia di lacrime, non diversamente dal ghiaccio al sole e dalla cera vicina al fuoco.

Frattanto dentro quel sarcofago solidissimo percepì un certo movimento, come se qualcuno si movesse da lato a lato; con tali pensieri, dunque, presto fu preso dal sonno, e nel frattempo gli sembrò come se un amico parlasse ad un amico. Svegliatosi finalmente per il troppo dolore, reclinò il capo sopra il sepolcro, ma non per troppo, perché subito si accorse che da entrambi gli occhi sgorgava in gran quantità acqua calda: e (cosa che egli stesso soleva riferire lacrimando) quando poi l'umore defluente dagli occhi cessò, cessarono la cecità e il dolore.

Restituito, dunque, alla precedente sanità, non cessava di predicare questi fatti fino alla morte. Ai curiosi e a quanti chiedevano che ripetesse il racconto, soleva rispondere in questo modo: "Non so. Una sola cosa so, che quand'ero dolente e cieco stetti ad effondere lacrime e acqua al sepolcro del servo di Dio Gioacchino, e ora ci vedo ".

PRODIGIO XXVIII. La lampada posta davanti allo stesso sepolcro di Gioacchino cadendo non si rompe.

PRODIGIO XXIX. Ad un canonico di Cosenza, per i meriti del beato Gioacchino, è ridata due volte la salute.

PRODIGIO XXX. Parimenti ad un altro canonico di Cosenza, per i meriti del beato Uomo, è restituita la salute.

PRODIGIO XXXI. Un religioso pazzo, per i meriti del beato Gioacchino, rinsavisce.

PRODIGIO XXXII. Un fanciullo indemoniato, per i meriti del beato Uomo, è liberato.

PRODIGIO XXXIII. Ad un infermiere florense, appena invocato l'Uomo di Dio, accade un miracolo.

PRODIGIO XXXIV. Un blasfemo, per istruzione di lui e di altri, è tormentato.

PRODIGIO XXXV. Un bambino quasi morto, per i meriti del santo Padre, è richiamato alla vita.

PRODIGIO XXXVI. L'incendio di una villa, all'invocazione dell'Uomo di Dio, si estingue.

PRODIGIO XXXVII. Un uomo, che andava vagando in pericolo di vita, è ricondotto sicuro al cammino.

PRODIGIO XXXVIII. Un monaco, all'invocazione del santo Padre, è strappato al fiume.

PRODIGIO XXXIX. Per i meriti dell'Uomo di Dio, ad un viaggiatore è donata la sicurezza dai ladroni.

PRODIGIO XL. Un religioso sacerdote è guarito dalla tonsura (di Gioacchino).

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Alcuni dei miracoli raccolti da Cornelio Pelusio

* Nel casale di Diano una donna sofferente di mal caduco con molta fede supplicò a lungo lui perché avesse misericordia di lei. Lui le disse di venire al monastero e appena venuta le diede l'acqua in cui aveva lavato le reliquie. Subito fu liberata.

* Mentre ognuno sedeva alla mensa e il lettore della mensa era pronto a leggere, aperto il libro della lettura enuncia il titolo: "Esposizione di don Gioacchino, primo abate florense". Senza indugio un religioso a piedi scalzi entra nel refettorio dei frati e quasi indignato si avvicina al lettore dicendo: "Non leggere di don Gioacchino, ma d'ora in avanti di san (Gioacchino)". Fatta la correzione, se ne andò e dopo non apparve ad alcuno.

* Nell'anno 1249, settima indizione, fu volontà comune dei frati del monastero florense di spostare il corpo del padre nostro Gioacchino, uomo beato, dal suo luogo ad un altro; alfine di agire decorosamente e rispettosamente a causa della paterna reverenza e della maggiore dignità c'erano tre abati e con loro uno dei frati più stimati. Allora, quando con molto riguardo si venne a contatto del corpo, uno degli abati priori, di nome Guglielmo, che prima era stato infermo e si era sforzato di venire per sola devozione, andando al di là delle sue stesse forze fisiche, appena con altri toccò il corpo del pio padre, sparito il suo dolore, fu restituito alla desiderata salute dello stomaco, senza più febbre quartana; e così il già detto abate ritornò alle proprie cose con la salute.

* C'era un uomo di nome Basiano in una villa murata che si chiama Cuccurio. Questi, godendo solitamente di buona salute, improvvisamente ha un colpo e, abbandonate tutte le cose, giace in un letto, senza potere né stare in piedi né camminare. Intanto riceve visite, ora si lamenta, ora si vergogna, e non si sa che cosa di buono consigliargli; quando gli viene in mente la memoria di don Gioacchino uomo beato, il quale potrebbe curarlo dalla presente infermità per i suoi meriti e con preghiere. E così, aiutato dai suoi, viene portato dall'uomo beato in Fiore e in pochi giorni ottiene la sospirata salute che aveva perduto. Dunque, quello che fino a poco tempo prima era malato divenne sano e ritornò ai suoi giocondo e lieto e in perfetta salute. La notizia si sparse per i campi; e da tutti è benedetto Dio, il quale per mezzo dei suoi servi opera queste cose ed altre tantissime. A lui è onore e gloria nei secoli dei secoli; amen.


Conclusione

Da quanto esposto risulta che la personalità e l'opera di Gioacchino da Fiore, dopo avere interessato e influenzato per secoli, continua a suscitare interesse anche oggi, alla fine del secondo millennio dell'era cristiana. Si auspica, quindi, dopo la pubblicazione dell'antologia gioachimita di Francesco D'Elia e dell'Enchiridion o manuale Sull'Apocalisse a cura di Andrea Tagliapietra, una moderna trascrizione, traduzione e raccolta di tutti i suoi scritti, compresi quelli di dubbia autenticità: un vero e proprio Corpus come progettato dal Donini[91].

Non ci sembra che possa essere accettata l'ipotesi di una visione gioachimita della Divina Commedia, finalizzata "in toto" a dottrine e ideali di Gioacchino. Piuttosto si può parlare di visione francescana della Divina Commedia, perché Dante ha cercato di essere fedele all'ideale e al messaggio di san Francesco, non solo con la glorificazione fattane nel canto XI del Paradiso, ma in tutta la sua opera, proponendo alla società la purezza e l'alto valore di quell'ideale e di quel messaggio pauperistico[92]. Tutto quello che il poeta assunse da Gioacchino, quanto a dottrina e ideali, doveva essere ed è compatibile, come giusto seguito, con l'ideale e il messaggio di san Francesco e con la dottrina di san Domenico e del suo più insigne seguace, san Tommaso, come pure di san Bonaventura: i quattro santi che fanno da mallevadori a Gioacchino e da fulcro al Paradiso (canti X, XI, XII, XIII).

Tuttavia nessuno può negare che, conoscitore profondo dell'abate calabrese, Dante trasse da lui numerosi elementi per il suo poema, foggiando addirittura certe immagini poetiche su figure di Gioacchino. Perciò, dopo la scoperta del Liber figurarum fatta dal Tondelli, si attende che i nuovi commenti danteschi siano adeguatamente corredati d'illustrazioni a colori riproducenti quelle figure di Gioacchino che suffragano le nuove chiose.

In effetti i nuovi commenti mostrano più interesse per Gioacchino da Fiore e per i suoi influssi sulla Divina Commedia. Ciò è in linea col nuovo interesse generale per la personalità e l'opera di Gioacchino. Basta citare per tutti quello di Tommaso Di Salvo[93], che a pag. 233 del Paradiso arriva a proporre per gli studenti una ricerca su Gioacchino, i suoi ideali, il gioachimismo e i suoi influssi su Dante, indicando una sia pur limitata bibliografia, essenziale: il che è sommamente lodevole, ancorché utopistico, in un'epoca in cui la Divina Commedia quasi non si legge più neanche nei licei! Lo stesso Di Salvo a pag. 634 dello stesso volume ipotizza che l'immagine dei cerchi trinitari "poté essere giunta a Dante attraverso il Liber figurarum composto sulla linea dell'insegnamento di Gioacchino da Fiore": timido accenno al rapporto Liber figurarum-Divina Commedia che, suffragato da illustrazioni e studi, darebbe più respiro al pensiero e alla poesia di Dante.

Più risoluto appare il D'Elia nell'affermare che la figura dei tre cerchi trinitari dovette essere presente a Dante nella composizione dei canti XXVI (vv. 133-136) e XXXIII (vv. 116 e segg.) del Paradiso: risolutezza che si spera possa influire positivamente nella compilazione dei futuri commenti. Non si può continuare a pubblicare nuovi commenti alla Divina Commedia ignorando il Liber figurarum e la sua influenza su Dante.

E poiché siamo venuti a parlare ancora del D'Elia ci sembra opportuno in questa conclusione, anche per un doveroso riconoscimento alla sua opera, citare un altro suo giudizio, che è nello stesso tempo di sintesi e di saggezza profonda: "Gioacchino, il genio apocalittico, l'immaginifico del sublime e dei 'misteri di Dio', ricorre di preferenza alla raffigurazione iconografica per esprimere l'inesprimibile di Dio, per veicolare, attraverso il linguaggio allusivo ed evocativo dell'immagine, l'incomunicabile verità dello Spirito. I suoi scritti sono impreziositi da 'figure', che poi, potenziate nell'accorta e armonica distribuzione delle tonalità cromatiche e nel suggestivo fraseggio dei dettagli decorativi, confluiranno nel Libro delle figure, giustamente definito il supplemento iconografico alle opere maggiori dell'Abate, ma che può essere considerato il capolavoro della letteratura figurale del Medioevo"[94].

Infine, dalla sia pure scarna documentazione presentata nella Parte Terza di questo lavoro, emerge chiaramente che sul problema trinitario Gioacchino era perfettamente in regola, che compose la maggior parte dei suoi scritti a richiesta della Santa Sede e che, consapevole di aver potuto errare in qualcosa, chiedeva di essere corretto dai confratelli o dalla stessa Santa Sede, disponendo che fossero consegnate ad essa tutte le sue opere per una cernita e rimettendosi ad essa come figlio devoto che vuole vivere e morire da buon cristiano cattolico. Non a caso Gioacchino è collocato nel canto in cui si fa l'apoteosi di san Domenico, paladino della lotta contro gli eretici, il quale (Par. XII, 100-102)

E negli sterpi eretici percosse
      l'impeto suo, più vivamente quivi
      dove le resistenze eran più grosse
[95].

Ebbene, questo fatto significa che Dante non aveva nulla da rimproverare al profeta calabrese quanto a ortodossia e fedeltà alla Chiesa, comprendendo semmai l'eventuale umana fragilità che si può riscontrare in chicchessia, pensatore o esegeta ancorché grande: cosa che comunque non costituisce delitto se si è operato con onestà e dichiarata fedeltà.

Questo e in più la profonda conoscenza delle Scritture, l'acutezza del pensiero, l'ampiezza della produzione e l'efficacia stilistica resero questo beato degno di apparire a Dante nel Paradiso alla destra di san Bonaventura (che pur non era stato sempre concorde con lui) e di essere presentato con le solenni parole

                        ... e lucemi (d)a lato
il calabrese abate Gio(v)a(c)chino
di spirito profetico dotato.

Di questa terzina dantesca Francesco Foberti scrive: "Essa è la grande voce della giustizia e della storia scaturita dal rappresentante più alto dell'anima collettiva italiana per annullare il torto del 1215[96]. Non fu una grande libertà di pensiero, alla Giordano Bruno, che indusse l'Alighieri a porre fra i grandi teologi un mezzo eretico... Il calabrese abate Gioacchino non poteva che essere collocato in questo regno dal giusto giudizio di Dante"[97].

Il Foberti impiegò buona parte della sua vita a dimostrare l'ortodossia di Gioacchino, smantellando ad una ad una tutte le accuse contro di lui, nonché gli errori d'interpretazione e valutazione compiuti anche dagli organismi ecclesiastici. La sua fu non solo un'appassionata difesa, ma anche un'acuta contrapposizione intellettuale esposta con amore e ingegno in un saggio che è anche un panegirico, un'apoteosi, un'agiografia. L'intento è chiaro: ristabilire la verità al fine di portare Gioacchino da Fiore alla gloria degli altari.

Ora, se è vero che una decisione pontificia in questo senso era stata già ottenuta dai seguaci del profeta, ma poi non era stata né attuata né resa pubblica, la terzina dantesca - alla luce di quanto dimostrato e sostenuto dal Foberti, da altri studiosi e dalla "vox populi" - potrebbe concorrere a far riesaminare il caso e a far emanare un provvedimento pontificio di beatificazione ufficiale, anche in considerazione dei numerosi miracoli attribuiti a questo beato, i quali costituiscono una consistente legenda agiografica (intelligentemente riportata all'attenzione dall'Adorisio), di gran lunga superiore a quella relativa ad altri santi o beati della stessa epoca o di epoca successiva.


Appendice

A chiusura di questo lavoro appare doveroso riservare una nota particolare al Tondelli e rendergli onore per avere scoperto, interpretato, trascritto, commentato e valorizzato il Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, mettendone in relazione le figure e il pensiero con la Divina Commedia.

LEONE TONDELLI, nato a Reggio nell'Emilia nel 1883 da genitori insegnanti elementari, quintogenito e con due zii sacerdoti, a soli due anni rimase orfano della madre. Dopo le elementari nella sua città, frequentò il ginnasio a Parma e proseguì gli studi nel seminario di Reggio, divenendo sacerdote mentre frequentava la pontificia università gregoriana di Roma.

Cominciò subito ad insegnare dogmatica e storia della Chiesa nei seminari. Si laureò quindi in filosofia, passando poi ad insegnare lingua ebraica ed esegesi biblica nel seminario di Reggio. Dopo il servizio militare come soldato di sanità nella prima guerra mondiale, collaborò alla fondazione di un Istituto Biblico. Per l'acquisita competenza e notorietà fu chiamato a collaborare all'Enciclopedia Treccani. Nel frattempo erano già usciti un suo libro su san Paolo e uno sulla vita di Gesù. Da ricordare anche Le odi di Salomone.

Nel 1928 diventò preside degli studi seminariali della diocesi, nel 1930 arciprete della cattedrale di Reggio e priore del capitolo, nel 1936 membro della Pontificia Commissione Biblica. Nello stesso 1936 pubblicò un libro sulle fonti, il pensiero e l'opera di Gesù e nel 1940 Il libro delle figure dell'abate Gioachino da Fiore.

Con la scoperta dei codici gioachimiti, per diversi anni fu assorbito dagli studi su questo argomento, pubblicando vari interventi in merito. Nel 1943 stampò il libro Gesù secondo Giovanni. Durante la seconda guerra mondiale soffrì per le atrocità, svolse varie missioni di pace fra nemici e opposte fazioni e si adoperò perché alla sua città fosse risparmiata la distruzione, facendola dichiarare città aperta.

Nel 1947 uscì Il disegno divino nella storia e nel 1950 Gnostici e L'Eucarestia vista da un esegeta.

Come assistente della gioventù femminile di azione cattolica fece sorgere uno studio teologico per laici.

Intanto faceva viaggi all'estero, dove frequentava famose biblioteche, venendo a contatto con studiosi stranieri, e collaborava a riviste prestigiose, anche laiche, come "Humanitas" e "Sophia" (quest'ultima, diretta da Carmelo Ottaviano). In collaborazione con due studiose inglesi preparò la nuova edizione del Libro delle figure, poi uscita nel 1953; e, appassionato di Dante, lavorò a Beatrice e Dante, uscito postumo anche questo nel 1954.

Nel 1952 conseguì la libera docenza in storia delle religioni e si apprestava a salire in cattedra all'università di Bologna, dov'era stato nominato, quando ai primi giorni del 1953 lo colse la morte. In suo onore nel 1980 fu pubblicato da Nerio Artioli il poderoso volume In memoria di Leone Tondelli, in cui figurano contributi di molti autori.

Il suo lavoro sul Liber figurarum resta per noi l'opera più importante e più prestigiosa, di altissimo livello. In essa il Tondelli si rivela biblista, esegeta, paleografo, classicista, medievalista, dantista. Ma accanto alla profonda dottrina si percepiscono in lui un grande amore per la cultura, e per la poesia in particolare, e un forte sentimento umano. Il suo stile è piano, scorrevole e accessibile a tutti, pur nella necessaria precisione scientifica. I suoi contatti con studiosi italiani e stranieri, con letterati come il Papini e il Mazzoni, che riconobbero pubblicamente i suoi meriti, e con filosofi come l'Ottaviano, collocano il Tondelli in una dimensione interdisciplinare europea.

Scrisse il Mazzoni: "Volentieri riconosco d'avere imparato dal Tondelli alcune, nonché possibili, probabili suggestioni offerte al Poeta da Il libro delle figure" (Studi su Dante, Società Dantesca, Milano, 1941, pag. 20).

Le ricerche e le intuizioni del Tondelli hanno avvicinato molti, pur per motivi di studio, alla ricerca della verità e della spiritualità e hanno aperto nuovi orizzonti alla conoscenza della Divina Commedia.

Onore, dunque, ai meriti di Leone Tondelli!

Il suo esempio sia di stimolo alle nuove generazioni perché amino ancora lo studio e la ricerca.


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“Dante e Gioacchino da Fiore”

Carmelo Ciccia ha affrontato uno dei temi teologici più suggestivi della Commedia: il rapporto tra il pensiero gioachimita e quello di Dante.

Benché il profetismo dantesco sia assai più fiero e passionale del messaggio del mistico calabrese, che predicava la non violenza e la concordia universale, non c’è dubbio che qualche traccia del suo radicalismo morale e della particolare visione teologica presente nei suoi trattati, specie nell’Expositio in Apocalipsim, abbia affascinato anche il sommo poeta.

La prova di questi influssi ci viene offerta dalla presenza nella Commedia di alcuni simboli contenuti nel Libro delle figure, che l’Abate aveva ideato per rappresentare in modo ancor più evidente il suo sistema esegetico.

È strano — ha osservato Carmelo Ciccia — che i commentatori moderni della Divina Commedia non abbiano fatto ricorso a questo prezioso repertorio per illustrare i canti danteschi. Queste “figure” infatti sono di grande interesse non tanto perché concorrono a chiarire qualche dettaglio interpretativo, ma perché gettano luce sulla concezione complessiva del poema, come potuto constatare sia dalle immagini, sia dalle dotte spiegazioni di esse fornite dall’autore.

Il Veltro dantesco, per esempio, che tanto ha fatto e fa discutere gli interpreti della Commedia, si ritrova, con prerogative non diverse, anche tra i simboli dell’abate calabrese, introdotto per rappresentare quella casta sacerdotale che, praticando una vita religiosa e sociale più elevata, del tutto aliena da interessi mondani, veniva posta a guardia del gregge dei semplici fedeli.

Ancor più curiosa è la rappresentazione dell’aquila che s’ingiglia nell’emme finale del motto di Paradiso XVIII (“Diligite iustitiam qui iudicatis terram”). La figura non può non richiamare alla memoria la posizione assunta dalle anime nel cielo di Giove, grazie all’invenzione dantesca.

Un esempio ancor più convincente della suggestione che questo Libro ha esercitato su Dante ci è offerto dalla rappresentazione della Trinità divina con tre cerchi di tre colori diversi e “d’una contenenza”, cioè della stessa circonferenza, incatenati l’un l’altro, proprio come ci sono descritti dal Poeta nell’ultimo canto del Paradiso. Dante aveva dunque visto il Libro delle figure! In quei versi sublimi, posti quasi a suggello del Poema, trionfa sullo spirito poetico dell’abate Giovacchino la potenza e lo splendore della grande poesia dantesca.

Giorgio Ronconi
(Università di Padova)


Note

[1] Il testo della condanna conciliare può leggersi in nota alle pagg. 174-175 dello studio del Tondelli Il Libro delle figure dell'abate Gioachino da Fiore, voi. II, SEI, Torino, 1953.
[2] Pietro Lombardo (Novara 1100 - Parigi 1160), autore di Libri quattuor Sententiarum, fu detto "Maestro delle sentenze". Il suo testo, commentato dai santi Tommaso e Bonaventura, trionfò nelle scuole di teologia. Egli insegnò anche a Parigi, città di cui poi fu vescovo. È presentato a Dante da san Tommaso nella prima corona del cielo del Sole, Par. X, 106-108.
[3] "Sull'unità o essenza della Trinità".
[4] CARMELO OTTAVIANO, Pier Lombardo, discorso tenuto a Novara il 17.IX.1935, incluso poi in Celebrazioni piemontesi, voi. I, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione del Libro, Urbino, 1936. Il filosofo Carmelo Ottaviano (Mòdica 1906 -Terni 1980) fra le tante opere ha lasciato anche una traduzione del Monologion di sant'Anselmo d'Aosta, una dell'Itinerarium mentis in Deum di san Bonaventura, il noto trattato La metafisica dell'essere parziale e una poderosa Storia della filosofia in tre volumi. Si veda anche il mio saggio Attualità di Gioacchino da Fiore in "Silarus", Battipaglia, genn.-febbr. 1995, in cui ho esposto tutte le ricerche e ipotesi gioachimite dell'Ottaviano, fra l'altro direttore a suo tempo della rivista filosofica "Sophia" edita dalla CEDAM di Padova.
[5] Vincenzo Gioberti (Torino 1801 - Parigi 1852) fondò una specie di partito federalista neoguelfo, auspicando per l'Italia una confederazione di Stati presieduta dal pontefice. Come filosofo si avvicinò al panteismo, che poi cercò di evitare con la formula "l'Ente crea l'esistente".
[6] “Sono cittadino romano".
[7] Per il problema delle origini della nazione italiana si veda anche ATTILIO PEPE, Si deve alla Calabria l'origine del nome Italia, Pellegrini, Cosenza, 1963.
[8] Gli appunti manoscritti di Giuseppe Mazzini, a cura di Bianca Rosa, Impronta, Torino, 1977.
[9] "II libro dell'abate calabrese Gioacchino, che prediceva tutti i papi futuri, i loro nomi e forme".
[10] Foscolo: Quando gli anni che cominciano dalla nascita di Cristo saranno 1260, allora sarà in arrivo il tristissimo Anticristo. Tondelli (Op. cit., pag. 206): Quando saranno passati 1260 anni dal parto dell'alma Vergine allora nascerà (variante regnerà) l'indemoniato Anticristo. (Alme sta per almae).
[11] Si veda nella Parte Terza la traduzione della lettera-testamento e della bolla di Onorio III.
[12] FRANCESCO FOBERTI, Gioacchino da Fiore, Sansoni, Firenze, 1934, pagg. 183-186.
[13] PAOLO DINELLI, Camaiore dalle origini ai nostri giorni, Arti Grafiche, Camaiore, 1971, pagg. 197-231.
[14] CAMILLO PAOLI, Il riformatore Veltro, Giardini, Pisa, 1969.
[15] A lungo si è discusso sul significato esatto del monogramma: per alcuni le tre lettere sono la sigla della parola Jesus (Gesù), per altri delle parole Jesus Homo Salvator (Gesù Uomo Salvatore) o Jesus Hominum Salvator (Gesù salvatore degli uomini) o Jesus Humanitatis Salvator (Gesù salvatore dell'umanità).
[16] Per inciso va ricordato che sulla particolare solennità della festa del Corpus Domini a Camaiore e in altre località della Toscana ha anche influito la tradizione absburgica, la quale per l'occasione prevedeva una processione straordinariamente solenne, fastosa e spettacolare: festa di una dinastia. E l'imperatrice Zita, moglie dell'ultimo imperatore Carlo I d'Absburgo, era toscana, e proprio di Camaiore.
[17] Due uomini.
[18] JUANA MARY ARCELUS ULIBARRENA, El Cod. 9-29 de la Biblioteca del Cahildo de la Catedral de Toledo: "Ab(b)as Joachim, in Concordia maiori de novem ordinibus, sic scribit de Sancto Francisco ", in "Florensia", San Giovanni in Fiore, 1992, pagg. 45-54. Si fa riferimento ad un codice della biblioteca del capitolo della cattedrale di Toledo.
[19] P. GRATIEN, Histoire de la fondation et de l'évolution de l'OFM au XIII siècle, Société S. François d'Assise, Paris, 1928, pag. 228.
[20] Leggenda maggiore di San Bonaventura, prologo 1,1 e 13,9.
[21] TOMMASO CASINI, Commento alla Divina Commedia, Sansoni, Firenze, 1892, ristampa 1985, pag. 621
[22] Concordia del Vecchio e del Nuovo Testamento, Esposizione dell'Apocalisse, Manuale sull'Apocalisse, Trattati sopra i Quattro Evangeli, Salterio dalle dieci corde, Libro delle figure.
[23] I Càtari (in greco puri) erano preoccupati pessimisticamente della corruzione del mondo, che avrebbe lasciato il posto all'avvento del regno di Dio, e professavano la castità assoluta, l'astinenza dalla carne di animali e il coraggio nell'affrontare la morte e le torture. Si erano formati nel sec. XI fra gli slavi della Macedonia, ma ben presto si diffusero in Italia, Provenza, Francia e Germania, provocando altre correnti eretiche (patarini, valdesi, albigesi, ecc.). Essendosi messi contro il cattolicesimo per avere negato - fra l'altro - il battesimo, la transustanziazione e il purgatorio, furono perseguitati e a volte sterminati dall'Inquisizione. I Patarini, a loro volta, lottarono contro gli ecclesiastici corrotti, la mondanità della Chiesa, la gerarchia ecclesiastica e i Sacramenti.
[24] LEONE TONDELLI, Il libro delle figure dell'abate Gioachino da Fiore, SEI, Torino, 1a ediz. 1940, 2a 1953. Si veda il profilo di questo benemerito studioso nell'Appendice.
[25] MARJORIE REEVES e BEATRICE HIRSCH-REICH, Studies in the Liber figurarum, Oxford, 1954.
[26] ANTONIO PIROMALLI, Gioacchino da Fiore e Dante, Longo, Ravenna, 1966.
[27] Tale uomo.
[28] XAVIER ROUSSELOT, Etudes d'histoire réligieuse: Joachim de Flore, Jean de Panne et la doctrine de l'Evangile éternel, Paris, 1861.
[29] AMBROGIO DONINI, Per una storia del pensiero di Dante in rapporto al movimento gioachimita, in Studi storici in onore di Gabriele Pepe, Università di Bari, 1969.
[30] Tuttavia vari studiosi di Dante, specialmente di recente, ritengono che in "colui che fece per viltate il gran rifiuto" (Inf. III, 59-60) non si possa vedere Celestino V con matematica certezza. In ogni caso Dante non poteva conoscere l’avvenuta canonizzazione, perché questa fu resa pubblica soltanto dopo la morte del poeta.
[31] Par. III, 119.
[32] E. PASQUIN1-A. QUAGLIO, Commento al Paradiso, Garzanti, Milano, 1988, pag.178.
[33] FERNANDO FIGURELLI, Dante nella scuola, estratto da "Annali della Pubblica Istruzione", anno XI, n° 1-2, Le Monnier, Firenze, 1965, pag. 20.
[34] Fiore.
[35] Ecco l'Agnello di Dio.
[36] Famosa è la commedia San Giuvanni decullatu (in dialetto siciliano) di Nino Martoglio (1870-1921), interpretata dall'altrettanto famoso attore Angelo Musco (1872-1938) e poi - in traduzione - dal grande Totò. Fra le opere del Martoglio ci sembra opportuno ricordare qui anche La Divina Commedia di don Procopio Ballaccheri, parodia della Commedia dantesca, in un italiano maccheronico a base di siciliano, curata da Salvatore Calleri per la casa EDAS di Messina nel 1986.
[37] Qualcuno, però, pensa che Gioacchino da Fiore possa essere paragonato al Battista: costui profetizzò l'avvento di Cristo e Gioacchino quello dello Spirito Santo.
[38] “II beato Gioacchino, dotato di spirito profetico, ornato d'intelligenza, lontano dall'errore eretico, disse cose future come presenti”.
[39] "Voce di popolo voce di Dio".
[40] EMIDIO DE FELICE, Nomi d'Italia, voi. II, Mondadori, Milano, 1978, pag. 73; ORIETTA SALA, Il Dizionario dei Nomi, Vallardi, Milano, 1993, pag. 155.
[41] Profétes.
[42] GIOACCHINO DA FIORE, Sull'Apocalisse, a cura di Andrea Tagliapietra, Feltrinelli, Milano, 1994, pagg. 21-29.
[43] Approfitto per ringraziare qui don Daniele Gianotti, direttore della biblioteca del seminario vescovile reggiano, per la cortesia con cui mi ha accolto, per aver affidato alle mie mani - sia pure momentaneamente - un'opera così preziosa e per le utili informazioni che mi ha fornito. Ringrazio anche Orazio Laudani per la collaborazione tecnica.
[44] FRANCESCO D'ELIA, Gioacchino da Fiore / Un maestro della civiltà contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1991, pag. 184.
[45] Op cit., alla nota 42.
[46] Il numero romano delle tavole è quello che risulta nel Libro delle figure.
[47] Significato delle parole latine in successione: uomo, vitello, leone, aquila, colomba, cane, pecora (ma nel nostro caso, per sinèddoche, gregge), occhio, orecchio, naso, mano, bocca, piede, corpo. Gioacchino nell'Enchiridion o manuale Sull'Apocalisse (di cui abbiamo più volte parlato) XVI, ai tradizionali cinque sensi ne aggiunge altri due, e cioè la locomozione (pes) e la sessualità (quest'ultima è detta opus matrimonii), cosicché anche i sensi corporei raggiungono il magico numero di sette.
[48] Op. cit., voi. I, pagg. 350-375.
[49] GIOVANNI PAPINI, Dante vivo, Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1933, pagg. 367-390; Storia della letteratura italiana, vol. I, Vallecchi, Firenze, 1937, pagg. 208-209.
[50] Benedetto XI, al secolo Nicola Boccasini, pontificò per pochi mesi, dal 1303 al 1304, essendo stato ucciso con fichi avvelenati. Fu autore di commenti alle Sacre Scritture.
[51] LUIGI VERARDI, Echi gioachimiti nella Divina Commedia, in "Nuova secondaria", Brescia, 15.XII.1991.
[52] Op. cit., pagg. 103-104 e 369-370.
[53] HUBERTUS ZU LÖWENSTEIN, Deutche Geschlchte, Herbig, Miinchen-Berlin, 1976, pag. 153, traduzione di Angelo D'Urso, che ringrazio anche per avermi segnalato e fornito questo brano.
[54] Op. cit., pagg. 22-23.
[55] "In che giorno viene l'Ascensione?" "Di giovedì, di giovedì!"
[56] “Tramite i quattro evangelisti Cristo assume i seguenti significati: per Matteo è detto uomo mansueto, per Marco in verità leone trionfante, per Luca vitello ucciso, per Giovanni ha l'aspetto di aquila volante. Onde bene cantò un versificatore: Diventa uomo nascendo, bue morendo in croce, leone risorgendo, re degli uccelli ascendendo".
[57] NILO FALDON, La millenaria Pieve di San Pietro di Feletto, Marini, Villorba, 1994, pag. 44.
[58] F. GALANTI, S. Marco, in "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, to. LX, 1901, parte I, pag. 255.
[59] MARIAPINA SETTINERI, Influssi ovidiani nella "Divina Commedia", estratto da "Siculorum Gymnasium", Università di Catania, N. S., anno XII, genn.-giu. 1959.
[60] "Legno della vita", "Albero della vita crocifissa" (genitivo femminile in e anziché in ae). Di san Bonaventura è stato già detto; Ubertino da Casale fu prima lettore di teologia all'università di Parigi, francescano, seguace di Pietro di Giovanni Olivi e capo degli spirituali, e poi benedettino.
[61] UGOLINO FERRANTI, La Divina Commedia illustrata, voi. Ili, A. & C, Milano-Roma, 1954, pag. 158.
[62] Per inciso notiamo che nella tavola con OZAS il miniatore ha omesso di completare la coloritura in rosso del primo giglio di sinistra, riferito alla Chiesa costantinopolitana; ma forse potrebbe trattarsi di una scoloritura dovuta alla macchia.
[63] Op. cit., pagg. 113-114.
[64] "Uno verde, l'altro ceruleo o aereo, il terzo rosso".
[65] GIOVANNI BUSNELLI, Il concetto e l'ordine del "Paradiso" dantesco, S. Lapi, Città di Castello, 1911-12, p. I, pagg. 257 e segg.
[66] Op.cit., pagg. 223-224
[67] T.CASINI-S.A.BARBI, Commento al Paradiso, Sansoni, Firenze, 1960, pagg. 983-984.
[68] DOMENICO GUERRI, Di alcuni versi dotti della Divina Commedia (Il nome adamitico di Dio), S. Lapi, Città di Castello, 1908, pagg. 166-167.
[69] BRUNO NARDI, Due capitoli di filosofia dantesca, suppl. XIX al "Giornale storico della letteratura italiana", pagg. 254-264.
[70] LEONE TONDELLI, Op. cit., pag. 225.
[71] E.PASQUINI-A.QUAGLIO, Op. cit., pag. 380.
[72] “Io sono il Signore che apparve ad Abramo, Isacco e Giacobbe come Dio onnipotente e non rivelai loro il mio nome".
[73] "Questo è l'ineffabile nome del Signore Dio che il sommo sacrificatore Aronne portava in fronte, composto delle quattro lettere disegnate in questa pagina, per cui dai greci è detto tetragramma"(Grecis sta per Graecis).
[74] Si noti la comune radice linguistica fra Ieve, Jahve(h), Jehovah = Geova, Yeshua' o Yeho'shua' = Gesù (cioè Dio salva o Dio è salvezza, concetto che ci riporta al Dio liberatore e salvatore), Jahave(h) Hannäh o Yôhânâh = Giovanni (cioè per grazia o misericordia di Dio, figlio donato ai genitori), Jahve(h) qu(i)m = Gioacchino (cioè rafforzato da Dio, raddrizzato, messo sulla buona strada).
[75] L'origine del tetragramma nella forma JHWH è dovuta al filosofo Filone Alessandrino (20 a.C.-54 d.C.). Questi, detto Platone Ebreo, di lingua e civiltà greco-ellenistica, riorganizzò, interpretò e commentò (anche alla luce delle convinzioni derivate dal platonismo) le Sacre Scritture del Vecchio Testamento, concentrando la sua attenzione sul "Colui che è" o "Io sono". Sull'argomento è interessante anche l'articolo di Annunziata Chirico Luce e tenebre / II Dio di Mosè: una ispirazione egiziana?, in "La Procellaria", Reggio di Calabria, ott.-dic.1991, nel quale però il tetragramma risulta erroneamente JHWM (anziché correttamente JHWH).
[76] La Bibbia, novissima versione dai testi originali, ediz. Paoline, Cinisello Balsamo, 8a ediz. 1991, pagg. 79-80, note.
[77] Per il Signore nostro Gesù Cristo, figlio Tuo, che con Te vive e regna in unione con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli".
[78] CARLO GRABHER, Commento, al Paradiso, La Nuova Italia, Firenze, 1936, pag. 174; nuova ediz. Principato, Milano, 1957, pag. 165. Il critico letterario Carlo Grabher (Terni 1897-Firenze 1968) oltre al noto commento alla Divina Commedia lasciò opere su Di Giacomo, Giusti, Boccaccio, Ruzzante (da lui personalmente valorizzato), Ariosto e Foscolo. Importante e documentato è il saggio su di lui scritto da Gaetano Mariani nel voi. IV de I critici, Marzorati, Milano, 1976, pagg. 3533-3546.
[79] Op. cit., pag. 228. "Due assiemi" (così scritto erroneamente) deve intendersi "tre assiemi".
[80] Codice membranaceo della seconda metà del sec. XIII, scaffale XIV, numero 322.
[81] È una variante di quanto scritto nella precedente tav. XI. Qui: "composto delle quattro lettere disegnate più in alto in questa figura di salterio, per la qual cosa è detto tetragramma, in cui meravigliosamente si raffigura il mistero della santa e indivisibile Trinità".
[82] Op.cit., pag. 118.
[83] Per secoli le due cose sono state presenti nel Credo: l’Ordo ad faciendum baptismum secundum Cenetensem Ecclesiam, rituale del battesimo nella diocesi di Ceneda (oggi Vittorio Veneto), stampato a Venezia da Giovanni Patavino nel 1547, recentemente ritrovato al British Museum di Londra da Guglielmo Strazzeri e ristampato a cura di Nilo Faldon (editore De Bastiani, Vittorio Veneto) contiene nel Credo o Simbolo Apostolico queste parole: "Credo in Spiritum Sanctum: et Sanctam Ecclesiam Catholicam, Sanctorum communionem". Si veda anche il citato libro del Faldon sulla millenaria Pieve di San Pietro di Feletto (pag. 29) in cui, in un affresco del sec. XV, sono rappresentati i 12 articoli del Credo e il 9° riquadro è "la Santa Chiesa Cattolica; la comunione dei Santi". Nella formulazione attuale del Credo, invalsa con l'abolizione del latino nella liturgia e con l’uso per quasi tutto l’anno liturgico della versione italiana del Simbolo niceno-costantiniano, la "comunione dei Santi" è stata soppressa. Essa però continua a trovarsi nel rito della cresima (rinnovo delle promesse battesimali); e ad essa fa riferimento Giovanni Paolo II nel libro Varcare la soglia della speranza (Mondadori, Milano, 1994, pag. 90).
[84] "Noè uomo giusto, popolo gentile, popolo giudaico".
[85] Sulla nascita si veda quanto detto precedentemente: questa data risulta notevolmente ritardata.
[86] In latino "Erunt duo viri unus hinc et alius inde", che - come detto nella Parte Prima - Dante tradusse con "Due prìncipi... che quinci e quindi..." (Par. XI, 35-36).
[87] Al riguardo si veda E. ANITCHKOF, Joachim de Flore et les milieux courtois, Collezione meridionale, Roma, 1931.
[88] È il caso, solo per fare qualche esempio, del dizionario enciclopedico Larousse stampato a Parigi nel 1967.
[89] Visione di Ruggero.
[90] ANTONIO MARIA ADORISIO, La "legenda" del Santo di Fiore / B. Ioachimi abbatis miracula, Vecchiarelli, Manziana, 1989.
[91] Anche il Mazzini, ripreso dalla Rosa, aveva auspicato qualcosa del genere.
[92] II pauperismo è nota dominante in Dante, come in Gioacchino da Fiore e san Francesco.
[93] TOMMASO DI SALVO, Commento alla Divina Commedia, Zanichelli, Bologna, 1985-1989.
[94] Op.cit., pag. 106.
[95] Si noti nella terzina di Dante l'impronta di decisione e vigore con cui si muove san Domenico.
[96] Condanna della presunta tesi di Gioacchino da parte del Concilio Lateranense IV.
[97] Op.cit.., pagg. 113 e segg., in cui si citano anche giudizi del De Sanctis e del Grundmann.
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