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Buona parte del giornoNota poetessa, saggista, scrittrice, presente in Wikipedia, l’Enciclopedia Italiana, Lucia Gaddo Zanovello (Padova,1951) ha una potenza della parola tanto da entrare nella sapienza dell’esistenza, armonizzandoci alla sua/nostra resa e al suo/nostro coraggio. Radicalmente ci prende per le viscere provocando commozione, mai lacerazione, cercando nei fatti di maturare la coscienza. In “Buona parte del giorno” c’è un Corpomente unito dove né passato né presente si svuotano a vicenda, dove la verità non ha mistificazioni e la parola diventa testimone di fatti che vanno oltre l’occasione privata. Ogni verso passa da un’immediata registrazione di stimoli a una pacata riflessione emotiva, liberata dalla lattescenza dell’infanzia e dalla consolazione, al fine di riattualizzare il passato nelle azioni e nelle scelte di ogni giorno.
Rivisitando le cose legate al passato si legge un Nuovo ieri: “Poco resiste dell’ordine / che fu quotidiano corso, / evento noto, gesto abituale. / ... un nuovo ieri si leggeva nelle cose ... / I morti parlano, ho saputo poi, dalle righe vergate a mano / sugli oggetti consumati...”. L’accaduto ci guida ogni giorno: “..nel mare freddo e alto / dell’azione temeraria di esser sé, nell’azzardo fiero di volere ancora / tener fede alla promessa / sorrisa dentro l’infinito abbraccio dell’amore.”. Ma ciò che abbiamo costruito, anche sull’amore, può all’improvviso sparire. È sufficiente ... “Un solo istante e tutto muta il quadro / diverge e scosta ... “. Riconquistare la speranza è un atto affidato alla Volontà e alla Conoscenza: “Poi tutto coagulò nella speranza // il risveglio del suono del mattino / il dolce molo del giardino / sull’onda delle rose / il canto del fringuello sopra il noce / la limpida profondità dell’acqua in ogni dove caduta...”. Una metafora bellissima, quell’acqua in ogni dove caduta, per dire quanto la Conoscenza, in ogni dove, sia necessità come l’acqua. Ma la Conoscenza essendo una sostanza riflessa dal profondo, in essa vi è anche il mistero, quindi l’impossibilità di scorgere in tutta la sua verità il mondo e cioè “... l’altro esistere da sé / e tra vetro e vetro / volgeva appena solo / un ramo incline dello sguardo, / l’anima di un attimo / che per l’attimo si vede / rotolare piano via / nell’alto giorno mare / che si chiude / sulla vita che discorre / come fiume alla sua foce.” Se ci muoviamo tra vetro e vetro, allora la conoscenza si riduce a una rifrazione, cioè subisce delle deviazioni, figlie delle contraddizioni, che sono la parte oscura della vita che discorre. (Poesia chiave di questi concetti è “Giorno” a pag. 16.) Solo l’amore è il cantore che piega la vita oscura dentro la forma del canto. Lucia Gaddo Zanovello mi sembra ereditare i compiti dell’Orfeo di Rilke. Orfeo è un dio (anche se un “perduto dio”) che sovrasta l’umano senza annientarlo e riceve da Apollo la lira e con essa può tracciare, per l’ascolto, forme e figure che sono come le costellazioni celesti: un significato di luce e mistero che supera in sé la caducità: “Mistero e dubbio esala questo presente assente / alla risposta / ma la divisa luce nelle ombre / torreggianti della notte chiara vede, / con occhi di memoria, ciò che è / e con le dita legge ciò che recò il sole / aperto a squarciagola sull’ovvio quadro / acceso dell’infanzia. / Quel che disse la madre / è detto ancora qui / nel riverbero astuto della stanza / e nel vento che sospinge i teli bianchi appesi / disposti ad una danza.”. Vedere le cose con occhi di memoria significa viverle attraverso una descrizione di spazio (sole) – volume (quadro) – e parti non illuminate (ombre). Ascoltarle, invece, presuppone una voce, cioè l’equivalente acustico della forma, della figura. Ecco che torna l’Orfeo di Rilke, l’espansione della luce e la fusione con la voce come sentimento che sprigiona l’energia vitale. Ogni immagine si coniuga con il mito orfico che accorda spazio e tempo, luce ed ombra. “Solo Pico della Mirandola aveva visto in Orfeo l’ombra di Eraclito, del logos dei contrari, di quella contesa senza la quale non c’è nemmeno bellezza. Orfeo è oggi inseparabile dalla verità che Rilke vi ha scoperto. È la verità tragica di una terra che conosce il dolore , ma che può fare senza il male e la violenza ... in una terra di mezzo in cui, appunto, il possibile diventa reale.” (Franco Rella, Rifrazioni, 1991). Nella Zanovello quella terra di mezzo è la propria “stanza”, quel Sé disposto ad una danza che traduce la caducità della vita in movimento. Le verità imparate dal passato, di cui siamo cantori e sulle quali poniamo il nome dei nostri figli, immettono vita e amore e libertà nel quotidiano: “L’amore di una madre / distolto dalla morte corporale / stenta a dire la vicenda umana / ma caparbio immette nella strada quotidiana / vita.” . L’amore forma il telos della vita e soprattutto forma i sogni “lungo l’asse della notte”. C’è un verso indimenticabile: “Chi viene alla luce e poi tace / la vera sapienza del cuore, s’ammala / di nero presagio”, dove la Zanovello sembra cogliere l’adesione all’invito di Baudelaire, cioè di cercare “là, dove tutto è ordine e bellezza”. Ed è questo, e saldamente, il fondamentale, ossia la vita percepita nelle sue luci, anche quelle che provocano rifrazioni. Sembra di vederci nascere dal buio, guardare all’urlo e al soffitto, poi tacere, ma gli occhi cercano in alto la luce come desiderio bianco di amore: “Ma tu abbi luce anche per noi, amore, / e guardaci da questa nuvola bianca / che sfila alta nel cielo / guardami, nel luogo che volesti per noi, / libero e puro / e inventami, che tra i vivi vive / l’anima mia / che ti appartiene.”. Volano, 11 settembre 2014 |
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