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Giovanni Duca e il racconto sforbiciato
Giovanni Duca Il racconto è un genere impegnativo, con un nucleo di storia i cui temi umani devono essere identificati e in parte risolti. Ci sono grandi autori che hanno fatto del racconto la loro forma prediletta: Kafka, Cecov, Gogol, Maupassant, Poe, Heminguway, Pirandello, Verga, Soldati, Buzzati, etc. Fra i primi e convinti sostenitori, in epoca moderna, della superiorità del racconto rispetto al romanzo ci fu lo scrittore Edgar Allan Poe, il quale ne sottolineò le virtù espressive fissando i limiti e le tecniche di costruzione. Su questo si basa la narrativa breve moderna e contemporanea dove la creatività letteraria consiste soprattutto nel riuscire a mettere in relazione tra loro oggetti, persone, eventi. In un suo libro sulla creatività, lo scrittore Antonio Rossetto, sostiene questa stessa tesi spiegando che un buon racconto nasce dal rapporto equilibrato di tutti gli ingredienti e afferma quanto sia rischioso prevedere cambiamenti di scena troppo numerosi e diversi tra loro. Un altro famoso autore, l’americano Wilson R. Thornley propone addirittura uno schema generale che prevede le scene iniziali, le scene centrali, la scena finale e la soluzione definitiva. Come fosse una pièce teatrale, in piccolo. A tutto ciò non si attiene Giovanni Duca, che mai propone una trama ma solo uno spazio per l’osservazione scavalcando le unità di tempo, di luogo e di azione.
Su una prima matrice di suggestione costruttivista si innesta la scomposizione della realtà che viene tagliata come accadeva nei tessuti rinascimentali detti sforbiciati per lasciar passare la luce sul colore cromatico di base. Sulla matrice dei dettagli, lo scrittore fa immaginare una catena di eventi che il lettore tenta di associare sperando in una trama, ma inutilmente essendo la sfida quella di rappresentare i confini dell’essere umano, i suoi limiti, dove la vasta proprietà è la fuga e l’evanescenza. Ciò richiede una grandissima precisione di taglio affinché la “luce” raggiunga la densità concettuale di base. La densità concettuale ci consegna il colore di fondo come una vertigine meravigliosa, fatta di crudezza e tantissima ironia, di tempi divergenti, paralleli, a volte astratti come l’infinito e le teorie sull’Universo. In Avvampi il tempo divergente è il vero protagonista, l’unica trama possibile. Il tempo convergente è fatto di attimi, che subito si ramificano e tutto si ricomincia daccapo, in una moltiplicazione di conseguenze. Non si tratta di un labirinto “fisico” ma di un labirinto di molti mondi che ricordano l’interpretazione della meccanica quantistica. Solo il grande poeta e scrittore argentino Jorge Luis Borges, sfidando le possibilità del racconto, si è cimentato (in parte) a tale livello, e lo ha fatto con grande capacità virtuosistica ne “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, scritto nel 1941; la vicenda è come a scatole cinesi, costruite intorno a un’indagine, creando diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta si biforcano e proliferano, interrogando la coscienza. Però la conclusione c’è, una fine c’è. Anche il popolo di Giovanni Duca è ambientato in varie atmosfere (come in scatole cinesi appunto) e “non è” consapevole di vivere nell’assurdo. Ma l’indagine di Duca si sofferma solo intorno ai ragionamenti mutilati, all’assurdità degli eventi, alla brevità delle emozioni sentimentali e carnali. L’atto, anche se ripetuto, non cerca il fine, la ricerca è il confine, solo il confine. Come nel teatro dell’assurdo di Jean Genet (1910-1986), dove la realtà che si mostra è l’apparenza, la sostanza va oltre la scena, in scena rimane l’atmosfera variegata e turbolenta, unica opera autentica dell’uomo. Essendo inutile un approccio normale per capire Giovanni Duca, è meglio leggere ogni testo come una difficile sorpresa. E rileggere. Nulla inseguendo, lasciandosi correre, ridere, pensare. Fionda matematica è il quotidiano segnato spesso con i numeri 1,2,3, etc. o intervallato da più spaziature, usate come passaggi inesorabili da una vicenda all’altra. In testa al primo racconto, "Tandem", si premette:
Al punto uno si narra:
Al punto due, si narra:
La realtà dei personaggi sta nelle contraddizioni e nelle ripetizioni (il pedalare). Ma il ragionamento è un altro: se l’uomo non chiudesse gli occhi finirebbe per non vedere più ciò che vale la pena di essere guardato. Se qualche volta tacesse, i suoi sensi inviterebbero ad entrare nel mistero dov’è l’armonia, che “resta” solo nelle parti basse: Armoniosa. Nelle parti basse ricordava meravigliosamente l’opera di Courbet dal titolo L’origine del mondo. L’impossibilità convive con le pulsioni e con il mimetismo, tra angosce, desideri e fanciullesche immaginazioni. Come nel racconto: "Sergio", soprano eunuco, che si dimentica come corpo e canta, si dimentica canta e si trascende. Nel canto si ricongiunge nell’anima di sé e del mondo (punto 1) L’incomunicabilità è data dalla superficialità, esempio un dialogo del racconto "Casa malata" (punto 1.)
I personaggi si sfiorano e si indagano mai legati da un’affettuosità profonda né dei sentimenti né carnale. La solitudine diventa così una specie di liturgia per “credersi” e continuare il percorso, sempre frammentato. Il rito è senza dramma, giocato con una grande ironia, che non rende ridicolo l’uomo ma illogico e terribilmente simpatico.
Di profilo sei più intelligente,
di spalle più misteriosa, ma di notte dormi nuda o col pigiama? (Carolus e Pina) La profanazione alla logica Giovanni Duca la gioca sul rispetto della parola. Astuzia, ignoranza, ambiguità, innocenza, perversione, sesso, amore, distanza, ritorno, repulsione, indifferenza, … comunicano tra di loro con un miscuglio affascinante di voci, che si ripetono come un’ eco per dare un movimento di continuità, dal particolare fino all’esaltazione dell’assurdo. Spesso la parola che chiude una frase si ricomincia nella successiva. L’eco sprigiona il fondo di ingenuità che serve per l’abitudine di andare avanti. Così ogni atto non è mai definitivamente modellato, né ogni incontro, né ogni amore, perché dentro di noi vive un sosia mai del tutto appagato:
Rivolgendosi al lettore, nel racconto "Il sosia", Giovanni Duca va nella parte più profonda dell’umano, verso l’intimità dove l’uomo è solo con se stesso, dove dentro ha un cammino desiderato e mai trovato, fatto di sogni o di felicità passate e di vissuto rimasto come un pianto all’angolo degli occhi:
Sulla somiglianza tra uomini e animali sono tante le affinità di pensiero con La Rochefoucauld che nelle sue Massime (1664) al punto “Riflessione varie” parla proprio di questo argomento: “Ci sono tante specie di uomini quante sono le specie di animali, e gli uomini sono, riguardo agli altri uomini, ciò che le diverse specie di animali fanno tra loro, sono fra loro e l’una nei confronti dell’altra …. E quanti animali che sono schiavi perché ignorano la loro forza! …“ Nell’episodio "Salti assalti" si legge:
Canto l’armi pietose e ‘l capitano / che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo / …./
Non è un gioco di parole, tutto torna: torna la sforbiciata, il colore di fondo che è il limite, l’estremo canto. L’eco è l’ingenuità, l’incomunicabilità, la solitudine. Unica, l’ ironia dà valore al “tessuto” umano affinché non venga deprezzato. Si aggiunge, a significare le audacie e i superamenti linguistici, una circolarità ronzante (pedali lubrificati) che è l’incapacità dell’uomo di uscire da certe situazioni. L’uomo resta : “animale animato animella”. Più a fondo, nella raccolta Estati a Gangi (2009- Ed. Arca, Trento), Giovanni Duca descrive l’uomo preda dell’istinto, addirittura accoppiandosi con l’animale, non metaforicamente, proprio fisicamente, senza vergogna, così che mentre si distrugge da una parte si ricompone dall’altra. C’è un momento in cui il confine è superato, in cui tutto avviene assieme: animali animati animelle / pedali lubrificati ascelle. Leggendo Duca pare di entrare nel nuovo, in un flusso e riflusso di onde continue. E la risposta alla nostra esistenza dov’è? Solo la fede può darci una risposta? O è l’uomo stesso la risposta con la sua vaga identità? E la speranza dov’è? Nel racconto "Occhi" si legge (riportato per intero):
Per Giovanni Duca il vero valore finisce qui, nella vita, non c’è risposta e non c’è il dopo. La difficoltà di vivere tra i limiti e i confini è il solo rito che consacra l’umanità. L’ ironia diventa l’innocenza mai dimenticata. Si sottolinea che Duca si rivolge a un popolo stanco del grande viaggio, mai cattivo, solo vittima di lunghe tempeste senza abbastanza calma di vento per approdare. Un popolo che desidera i piaceri, ma li vive superficialmente perché deluso e pauroso di arrivare alla felicità, che non smette mai di desiderare. Giovanni Duca apre un futuro al racconto, è un inventore e un grande maestro. Anche se oggi è difficile leggerlo, così imbrigliati da altri schemi, la sua capacità di creare incantesimi verbali intorno alle debolezze umane prenderà corpo in noi come una casa costruita a poco a poco, in cui noi locatari non pagheremo mai l’affitto perché già indebitati con il destino.
Pietre atomi stelle è il titolo delle breve raccolta di poesie che chiude il libro “Avvampi”. Pietre atomi stelle sono tre volti del destino umano. Senza stupore incantato dell’anima.
Nelle poesie intime, l’ispirazione vive in un luogo incontaminato, c’è un amore profondo per gli esseri amati, il dire è compostezza e commozione. Il dolore ha la brillantezza del calore. La densità dei versi è sempre attenta. Spoglia di esteriorità, si fonda su un unico amore vitale: il rispetto. Il rispetto coinvolge tempi, affetti, attese. (a Giuseppe e Paolo)
Se la frammentarietà dell’esistenza non è risolvibile, Duca è il poeta capace di cantare i vuoti, i varchi, alla stregua di Kandinskij quando li prospetta sulla tela. Rimane l’ambivalenza nel profondo e l’enigmaticità della superficie. Vi sono i sospiri nella penombra, i sospiri tolgono peso all’estrema solitudine.
Non è il semplice quotidiano, qui. È la ricerca dove si riequilibra l’emozione, l’emozione è l’incandescenza che scatena l’interesse per la vita, ne fa parte, è il respiro, l’albero che ossigena l’aria. Non è il semplice quotidiano nemmeno nelle poesie all’apparenza descrittive. In “ Me levanto a las siete”, mi alzo alle sette (pag. 164) dove c’è un elenco di abitudini, come in un canto popolare:
Gli indizi sono quelli di una vita semplice, dedicata alla famiglia e al lavoro. La linea verticale dei versi conduce all’afflato finale, Morire non sarà un castigo. Come per dire, con le parole memorabili di Alfonso Gatto, “Tutto di noi gran tempo ebbe la morte”. Duca, conduce il lettore davanti ai rituali della vita. I rituali sono la forza misteriosa che mai indietreggia davanti alla fragilità dell’essere umano: la consapevolezza di essere destinato anche alla malattia e alla morte. Questa è una poesia chiave, dove le frantumazioni dell’io non vanno in cerca di ricostruzione, né la poesia si nasconde dietro al tradizionale impianto di sonorità e di estetica. Qui, il linguaggio si identifica con il viaggio stesso. I riti della vita servono a controllare la mutazione temporale velocissima. Duca è anche l’uomo-spettatore. Sullo schermo interiore scorrono gli eventi e il poeta guarda se stesso, si fa carico di tutto un mondo di opposte pulsioni, ma creando dal sé una lontananza. Il bianco precede la forza nativa:
All’origine del fare poesia c’è una tale velocità dei sentimenti da assomigliare al disco di Newton quando, girando tutti i colori insieme vorticosamente, produce il bianco (cioè la ragione e l’anima). Ma la poesia ha valore solo quando “centra” il punto-cuore, cioè il perno sul quale il disco della vita gira. Se qualcuno osa fermarlo (folli i cui versi non richiesti...) ci si trova in una via senza uscita. Qui Duca sembra affermare che la poesia è al di là della ragione e dell’anima, vuol dire che, se l’artista fissa il punto-cuore rendendolo aperto e disponibile alle percezioni, solo allora attiva la Sostanza Memoriale delle immagini e i colori, che mai vanno fermati. La psicologia è impotente nei confronti di questa Sostanza. Già Aristotele, pur vincolando l’immaginazione all’operatività dei sensi, doveva ammettere nel De anima che l’essenza attiva della parte immaginante restava un enigma senza uscita”, un’aporia. Ma se il poeta si ascolta intimamente, la Sostanza “respira” e dà forza. Pag.162 (la misma fuerza hace):
Vi è un’altra misura di respiro: la donna, capace di una forza più forte che l’uomo non è in grado di raggiungere. In Giovanni Duca, la storia del suo rapporto con la donna è racchiusa in stanze. Le stanze sono separate tra di loro. Ma dai giochi ingannevoli del destino, dai corteggiamenti e dalle profondità delle promesse, emerge sempre una storia vera. La storia finisce bene? finisce male? non importa, comunque il poeta chiede alla donna di restare e di mai dimenticare l’uomo. Vedi la poesia “Memento”, in spagnolo, di pag. 135:
Da chiedersi è il perché Giovanni Duca attiva spesso una distanza rigorosa quando parla della donna. A volte usando l’ironia tipica dei suoi racconti, ironia che spezza il ritmo alla poesia e il procedere delle sensazioni: Dopo i 70 vado troppo in fretta … / E guardo il tuo volto lontano. / Qualche volta potresti grattarmi la schiena. La sapienza di abbassare con un colpo di sarcasmo la tonalità porta il poeta lontano dall’emozione quando si fa rischiosa. Ciò dimostra che il suo rapporto con la donna non è ancora un universo contiguo. Le stanze sono separate tra di loro, ricordiamolo. Il grido sensuale è assorbito dalle pareti. Di alta poesia Giovanni Duca ne ha tanta, ed è dove ritma il sentimento che resiste come una realtà del passato remoto:
Il passato remoto ha la nobiltà della tenerezza, è lo spirito ancora vivo per le grandi meditazioni, è il sogno mai lasciato dove lo spirito respira e si ricomincia. Pur nella distanza dove restano i luoghi evocati e le presenze ricordate, il verso brilla di un’intimità calda, straordinaria. Nelle poesie del tempo presente, dove la forza tagliente è il dire, il sentire arriva sempre e tutto come i lampi, o meglio come degli avvampi :(pag. 128)
Con le poesie in francese e in spagnolo Giovanni Duca “fora” il limite e si unisce ad altre parole ragionanti, s’incarna nella coscienza di un altro dire. Dal francese, pag. 137: Faremo una passeggiata mia meraviglia / … Tu sai che faremo crescere il calore cosmico … Calore in francese si dice: "le chaleur". Inconsciamente, nell’errore scrivendo al maschile “le chaleure”, il poeta fa capire quanto non si conceda fino in fondo al genere femminile. Alcuni errori nella lingua francese ci sono. Si può approfittarne, caso mai, per studiarne gli effetti di minaccia. Nell’ultima età dell’uomo, l’inverno, c’è la cruda verità unita alla dolcezza. Vient l’hiver… le vent est changé … Je ne fais rien pour vendre paroles, Viene l’inverno …il vento è cambiato … Non faccio nulla per vendere parole. L’antigelo sono le nostalgie, le fragranze femminine, le ascelle provocanti. “Nostalgia primaveral” , in spagnolo, pag. 151:
L’epidermide, finalmente, diventa un linguaggio affidato all’istinto panico, tutto è travolto, gli orizzonti si allargano fino a “sentire” l’Oriente. Ma niente di onirico. È l’altro Duca, quello allo specchio, che a volte si concede di risorgere dalla frantumazione materica e si permette di desiderare. Per concludere l’analisi, si può dire che, in poesia, Giovanni Duca è due: l’uno dà appuntamento all’altro, si cercano. L’uno si “lascia andare alla commozione”, l’altro vive di lacerazioni, frutto di un pensiero deluso e rigoroso. Le due costanti, a volte, non gli permettono di raggiungersi definitivamente. Ma l’alta poesia c’è, specialmente quando ritma il sentimento legato al passato remoto o ai sentimenti familiari o alle relazioni profonde. E trascina il lettore nella seduzione degli opposti, svelando l’emozione e le pause assorte della vita. |
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