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Le parole sembrano l’acustica del pensiero, creando una sequenza di “fonemi incantatori” prima ancora che intervenga il discorso. Il dolore si nasconde prima di svelarsi, in un gioco involontario che fa precipitare sulla pagina una poesia a mosaico dove i versi si collegano tra loro con bizzarra autonomia, come se ogni verso avesse il bisogno di partire rassicurato per raggiungere l’espressione successiva fino al nodo del significante, a volte sotto il peso specifico della malinconia. Come a pag. 16 (Traccia verde):

Un albero non muore – non rinasce
lo capisci quando dice il niente
nelle foglie nella festa di un maggio –
un pianoforte muto nel concerto.

È una donna che fa tappezzeria
nella balera di un valzer – la scia
di un inverno infilato nell’inverno
la traccia di un compasso senza centro.

L’albero muore tutti i giorni un poco.

Nell’esperienza della Paganardi donna, la radice che la costringe radicata alla terra le impedisce di danzare, quei non e quei senza sembrano dire: non c’è modo di desiderare a pieno questa vita, l’albero del desiderio muore tutti i giorni un poco, è la nostra inalienabile condanna. Prima di disporre i suoi mosaici la Paganardi ha bisogno di partire dal giusto “suono”. I primi versi devono snodarsi bene, sinuosi, perfetti nelle cadenze, introdurre prima di svelarsi, poi lo spiegamento del dolore, piccolo o grande, poi quel canto risucchiato dal pozzo del tempo (come guardare la vita in alto da sotto i binari), pozzo dal quale tenta di risalire lanciando un’eco per catturare la speranza, nascosta in piccolissimi universi, in “un segno”(pag. 17):

…strano treno guardare
la vita in alto da sotto i binari
in questo immobile partire

c’è sempre un giorno un segno
una rete lasciata non so dove
a rivelare il passaggio preciso
il punto di ricambio dell’acqua.

Poesie nella poesia, dunque, quasi una lettura orizzontale e non verticale, come per contenere l’esplosiva delusione, lo scorno, l’amarezza. Guardando i disincantati fondali della vita, il tempo appare saturo, dovrebbe essere generoso invece è lontano dai nostri più profondi desideri, ci chiude in un “ bocciòlo serrato a pugno, nel grigio indeciso | fra perla e fumo” (Acqua ferma: pag. 23).

Nel “terzo movimento” del libro, Strade, Alessandra Paganardi entra nel tempo altrui con sensibilità e coscienza per riappropriarsi di un tempo proprio dove gli elementi opposti si avvicinano e si equilibrano (tufo e metallo, grigio e verde, buio e luce), dove le figure si fanno medium tra lei e il mondo. L’”altro” è crescita, è condivisione, è scoprire un fiume di sensazioni, vedi la bellissima poesia di pag. 44:

La chiamavano l’ombra della sera
nella terra di tufo e di metallo
dai volti isosceli. Un ago dentro il giorno,
una cruna di vento ad infilare
il buio custodito nei mattini. Una persiana
calata sulla luce in verticale
con la fessura sempre più sottile.
Un ipogeo del tempo. L’ho sentita
scorrere in una donna lunga e altera
con due valigie lievi sul vinile
del pavimento della metropolitana.
I suoi fianchi, una clessidra ad otto
bislungo come in computisteria
dove scendeva calda, senza notte
la sabbia ignota di un’isola lontana.

In tutta la raccolta la parola “ombra” è dimenticata, è assente. Appare solo in questa poesia, intitolata “L’ombra della sera”. È chiamata così la famosa statuetta femminile lunga e sottile, di origine etrusca, usata oggi come souvenir. Perché la parola ombra non c’è? La risposta può essere che l’assenza abbia il potere di spingere talmente il pensiero in profondità, talmente serpeggia nelle viscere con il movimento dell’animo, che l’ombra non serve più, è la porosa ariosità della chiarezza l’unico nutrimento. La materia, nella sua fragile trama, implode con l’ombra di se stessa: un “ipogeo del tempo”. La psicologia della poetessa non è assolutamente facile, trae alimento dalla realtà collettiva di cui reca concreta testimonianza, è un parlare con se stessi per uscire da sé e stabilire un colloquio con gli altri, c’è l’osservazione e l’ invocazione.

L’osservazione passa attraverso la scrittura come grande soggetto dove gli elementi rimettono in gioco l’operosità dei sensi, come se la parola ricca avesse le mani per accarezzare le delusioni, desse l’ebbrezza che toglie l’inquietudine, fosse la rete nella quale cade la vita ladra di sogni. Bella la poesia “Chiocciola” (pag. 18): qui l’osservazione diventa “sospensione del tempo”, finalmente tutto si rallenta, prende configurazione l’intimità, la casa: la casa è carne ed ossa, | il guscio è di parole. Una parola alta, dunque, fatta di incantesimi verbali, non per esibizione, ma come bisogno di formule propiziatrici, quasi pratica divinatoria, vedi anche a pag. 47, A un poeta:

In questa sera di duemila anni
tu sei parole.
Le mie nascono all’alba, pazienti
contro il buio dirimpettaio –
come una lunga promessa di pace
o una risacca di bassa marea.
Tu sei parole e un dolore lontano
mano corta che stringe la matita,
l’anello che resiste ritrovato…..

L’invocazione non ha un suo luogo preciso, ha lo spazio nella storia dell’uomo (la storia arriva sempre dopo | all’inizio è un sommario anticipato | un salto, un sole, un caso), l’invocazione è nel fremito della bambina che spinge la donna a varcare i confini dell’opacità quotidiana per cercare la forza liberatrice (la terra da rapire dentro un punto). Ma non ci si può fermare alla sola invocazione, per vivere dobbiamo ricordare anche il tempo già frequentato, ancora reale per lo stimolo al quotidiano esistere; l’invocazione si fa allora “evocazione”, come visione del mondo, non come nostalgia. In questo la Paganardi è grande: nell’ultimo movimento del libro, “Millenovecentosettantotto”, il suo pensiero aderisce ad ogni parola, come accompagnandola dallo stato nascente fino all’avvenimento (la sorgente scorreva senza brocca | il saldo dell’estate era nell’aria), premendo su ogni parola per la migliore presentazione dei valori umani: imparare – comprendere – aspettare – rispettare: Si può imparare il gesto della foglia | che si piega, il remo pronto all’acqua | la radice precisa.. …portare pazienza | vedere ciò che manca. Puoi imparare | il mondo intero e rimanere fermo (pag. 57). Sullo sfondo c’è sempre la volontà di salvare l’esistenziale, che ha una luce a volte impercettibile, dove il tempo è “un correre sempre avanti come in un sogno | con la moviola dietro che ci azzera”, (pag. 58). O come dice nella poesia “Rosa” di pag. 25: Il tempo è sempre ciò che sa restare | dopo tutto, l’applauso a scena chiusa.

Concludendo: una poesia al massimo dell’espressività, per certi aspetti nuova in quanto libera da schemi consueti della poesia femminile, forte di un amore per la realtà che la circonda, senza sentimentalismi, viva di uno struggente disincanto, desiderosa che ogni cuore sappia vincere sul dolore con i pochi doni strappati all’inganno del tempo.

Un mosaico ricco di sensazioni e sentimenti, come evidenziavo all’inizio, con ancora altri tasselli, sullo sfondo, da interpretare e da scoprire.

C’è solamente un appunto da fare: un eccesso di maturità, a volte, toglie il rapimento e l’abbandono; il controllo sulla pagina dà il volto ai destini umani, ma tiene al di fuori la nudità, quell’atto riflesso dello spogliarsi per abbandonarsi alla magia del sogno, alla peregrinante avventura dell’arcano, che pure fanno parte del “tempo reale”. Manca quel po’ d’ebbrezza di cui cantava giustamente Baudelaire, a proposito del vino definito un “seme prezioso gettato dall’Eterno”: Nelle bottiglie a sera, l’anima del vino | cantava: “...per quel fragile atleta della vita | sarò l’olio che assoda le braccia ai lottatori”. Il pathos comunque si mantiene al più alto grado dando un’immagine d’identità viva e sofferta della poetessa, sicuramente una donna dalla profonda umanità. Sicuramente una poesia densa di significato perché vive la fatica come essere in prima linea. Si aggiunga la sapienza, l’intelligenza.

Recensione
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