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“Poeta antilirico, discorsivo,
esplicito, Zinna è latore di un pensiero forte (anche dove commerci con il
dubbio), temprato sull’osservazione diretta, tignosa”. Queste, e altre,
considerazioni di Antonio Pane già delineano bene il profilo dell’autore di
questa raccolta, edita con eleganza da Lieto Colle. L’opera poetica, e narrativa
e storico-critica, di Zinna copre quasi interamente il secondo cinquantennio del
secolo scorso, anche sul piano dell’evoluzione stilistica. Di certo il mutamento
di tono si avverte dalle prime poesie, più aeree e cantabili, a queste
ultime, che paragonerei a una musica strumentale, fitta di dissonanze e
aritmie, ombrosa e affondante nei pensieri, spesso esposti nella loro crudezza
concettuale senza mediazione analogico-figurale.
In Zinna non agisce, o lo fa
molto parzialmente, quella medietas dei sentimenti che la cosiddetta
saggezza dell’età dovrebbe (lo dovrebbe?) comportare, favorendo un compromesso
tra la prevaricante forza di gravità dei fatti e lo slancio delle aspirazioni
giovanili. Per Zinna la vita è un persistere irrisolto di contraddizioni che
trovano una forma nodale negli ossimori. Pertanto non vi trionfa quel “male di
esistere” che ha tiranneggiato tutto il Novecento, fino a risolversi in una
vacuità formale e contenutistica: il dramma consiste e resiste proprio perché il
contrasto non vede una vittoria definitiva del male sul bene (minuscoli) o
viceversa. Già nel titolo la locuzione “a mezz’aria” (preso dall’equitazione
d’alta scuola) allude a uno slancio trattenuto, a una ricaduta indugiata: il
filo teso, tra il basso e l’alto, del dramma esistenziale. Poesie di eletta
levità come Per un transito alare (“Gli angeli navigano oceani siderei
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in leghe d’azzuolo…”) trovano la loro speculare opposizione in Canzone triste
per un piccolo indifeso: “Chi permette che il male biologico | e la violenza
e la stupidità (la bêtise | flaubertiana) si riversino | sull’infanzia e
gli indifesi? […] In quale cielo si recidono steli per farne | putti di corti
celesti quale Dio creerebbe | così i suoi angeli quale Dio mio Dio?”. Talché
quando si afferma, in Vincoli e strappi: “A tutto ci si abitua anche
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alla vita”, s’intenda che ci si abitua a un non mai abituarsi alla vita.
Molte le poesie da scegliere
a emblema di questa raccolta tarda e pregnante, ma tali da non poter essere
contenute in questa breve nota. Mi piace sigillarla con questi versi, da Come
un antifaust: “Mi tengo com’è | questo straccio d’anima | con i suoi errori
risorse rimpianti | parimenti elevabili a potenza”: che è molto di più di quel
deprecabile cinquepercento assurto a giustificazione nazionale di mediocrità
morale. Il resto — al di sopra e al di sotto di queste Poesie (non per
niente) a mezz’aria — è silenzio.
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Recensione |
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