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Lucio Zinna ha alle spalle
una lunga esperienza di poesia (il suo primo volume di versi, Il filobus dei
giorni è del 1964), ma ritengo che soltanto con Sagana (1976) ed
Abbandonare Troia (1986) il suo esercizio poetico abbia acquistato quei
caratteri stilistici e quella misura espressiva tali da farne una personalità
poetica emergente.
In queste prove, infatti,
Zinna dimostra di sapersi muovere, con agio e perfino con spregiudicata
disinvoltura, nell’ambito di una ricerca poetica aperta ad esiti di ammirevole
polivalenza, sia sul piano lessicale che stilematico, in ordine ad un discorso
animato da inquiete ragioni e tensioni che va dalla meditazione morale
all’affabulazione religiosa, dalla circonvenzione ironica all’affermazione
cordiale e sorridente del sentimento delle cose: “Mai altro luogo in cui
s’azzeri come su questa | fluida putrescenza ogni contrasto o integra | ne
permanga l’essenza gioioso struggimento | amara festa oh vita che negandosi
s’afferma | ricamata solitudine gaia malinconia (un fremito | d’archi trascorre
su quest’erba a pelo d’acqua) | tremuli pinnacoli morte di broccato”.
Con Bonsai Zinna
prosegue questo suo divertito vagabondaggio tematico-stilistico, riconducendolo
però ad un’area più privata e raccolta, i cui riferimenti dominanti sono
costituiti dalla figura della moglie Elide, dal gatto Raffaele e da Santa Teresa
di Lisieux, nell’intento di certificare, nelle forme di un’antitesi
tematicamente precisata, l’effetto sempre più alienante della civiltà
contemporanea, la crisi irrisolubile del rapporto tra pubblico e privato:
l’impellenza, insomma, di un imperativo strategico di fuga già così
categoricamente affermato nel titolo della sua precedente raccolta. E lo fa
affidandosi ad una forma di “demistificazione” linguistica dalla quale affiorano
le immagini di un mondo avvertito come intimamente diviso tra rimpianto e
irrisione, tra volontà di sottrarsi all’assedio della follia consumistica e
l’obbligo di dover restare fedele alle scelte comunque compiute: “Una tartana
per l’atollo Inconnu oltre le nebbie | dove mani non scagliano pietre – i
bisturi d’ossidiana – | planano i castelli senza fossati ponti levatoi
| sugli
spalti non sventola vessillo. Protese le braccia | nessuno grida bisbiglia né
riti governa. Incita | saldezze il vento sollecita rifugi la tempesta”.
Si fa strada, allora, in
questa poesia una singolare e suggestiva illusività (complicata da una scelta
stilistica che oscilla tra partecipazione dolente e rappresentazione
disincantata), nascente da un gusto carico ed eccitato dagli oggetti, dai
colori, dalla descrizione, dall’escursione paesaggistica, ma subito intimizzata,
piegata ad una dolcezza mite, colloquiale, ad una ironia cordiale che ha il
potere di addomesticare ogni retorica sentimentale: la nostalgia, la
speculazione psicologica penetrano, attraverso questo riscatto della meraviglia
sorridente e irridente, contro gli inganni della tentazione lirica, per cui i
contorni, turbati o alterati delle cose, vi appaiono più netti, più impegnativi
per un’azione di rivelazione o di denuncia di sé.
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Recensione |
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