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La lettura di un volume sostenuto, Parole d'ombraluce (Genesi editrice, 2006) di Giorgina Busca Gernetti, non è cosa di tutti i giorni, (forse tutti i giorni si calpesta poesia del niente); sostenuto per la consistenza delle parole ancora premute nel petto da una grande anima che ha raggiunto un posto di rilievo nel Parnaso della poesia italiana.

Non è un caso da poco che la Busca da un’anima ferita giunga a dare lux alla sua vita intima per mezzo della parola. È proprio questo sforzo importante della parola-luce che conduce alla conoscenza; vi giunge non ipso facto ma attraverso una linea speculativa e senza concedersi attimi di sosta. Una poesia che “diviene”, che lacera le sponde aride e incolte che opprimono l’uomo sino ad infangarlo; la poesia può fungere da àncora di salvataggio all’intessitura tra luce-nome-lingua e Cristo. E di ferite questo libro è pieno, ma può funzionare, anzi ha funzionato, da antidoto fino a recuperare quel valore umano, sacro e intangibile. Nella compiuta analisi, Gros-Pietro cosi scrive: “…La bellezza delle forme metriche, […] che coniuga sovente l'endecasillabo al settenario, ma non necessariamente in un’eco solo leopardiana, non deve portare a credere che Busca sia sostenitrice del classicismo come unica sorte possibile della poesia.

Il mondo classico è visitato machiavellicamente, per chiamare a convegno le anime nobili e per intrattenersi con loro, dopo la polvere del giorno… Noi vediamo più modestamente il valore della luce, come essenziale in tutta la simbologia della luce stessa che circola in molti testi; come non fare un accostamento a Dante e alla sua metafisica della luce? Busca Gernetti è prorompente di messianica speranza, nel significato di un’attesa, di una cifra ontologica che possa ripagarla da ogni materialismo fine a se stesso. Quegli accostamenti sapienziali alla Magna Grecia e alla sua civiltà millenaria, sono terapeutici sia nella temporalità delle parole d'ombraluce sia nel tunnel degli smarrimenti.

In Busca Gernetti le parole sono alimentate da interni codici e se ogni potenza espressiva ne analizza uno, il “fuoco” è acceso dentro una mònade e da lì si sparge in tutta l’ampiezza del verso; ci sono poesie “produttive”, chiamiamole così, con tutto un proprio arsenale di voci e immagini alimentate da una storia di appartenenza e l’autrice porta in nuce il suo “sfogo” civile, antiretorico.

Aleggiano pure poesie della campagna, altre di derivazione oraziana, come ricordato pure da Gros-Pietro, tuttavia s’inquadrano in una fugacità della vita che è diario tormentato di tipo e connotati michelstaedteriani. Insomma un libro compatto, a più sfaccettature, dominato e pulito da un lirismo tonale gradevole quanto più rovente si fa l’ ”io” a diversi livelli d’esperienza.

Recensione
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