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La solitudine dei metrò
Nelle poesie della silloge La solitudine dei metrò di Carmelo
Consoli traspaiono la solitudine e il disagio di un uomo che, nella grande
metropoli in cui vive oppressa dal rumore del traffico, soffocata dal cemento e
dall’inquinamento, si accorge «di essere solo transito fugace,| esile profilo di
danze, smarrimenti| tra anonime folle nei meandri| di labirinti suburbani» (p.
24). Il suo intimo malessere è specchio di quello di tanti altri individui
abitanti gli spazi urbani contemporanei.
Paolo Ruffilli, nella Prefazione al libro, sottolinea
acutamente che il discorso poetico del Consoli «contempla e comprende la
denuncia di un processo di contaminazione, di inquinamento, peggio di
decomposizione, della natura e dell’uomo che si consuma ormai da tempo nelle
nostre città».
Immerso nella realtà quotidiana della sua città, il poeta, infatti, la
osserva nei diversi momenti della giornata. Nota che all’alba – «prima che i
viali siano asfalti fumanti,| resse urlanti le metropolitane,| miraggi i grandi
magazzini» (p. 16) e prima che i suoi frettolosi abitanti riprendano la loro
assurda corsa giornaliera, a piedi o in macchina, alla «ricerca disperata| di un
amore da vivere| in una mischia di sensi e controsensi,| tristezze e grigi
veleni,| guerre urbane, anonime storie» (p. 16-17) – le strade sono ancora
semideserte e silenziose, mentre nei condomini si iniziano già a sentire tanti
rumori diversi, «la prima voce» che si sente però «non è quella dell’usignolo|
ma della sveglia della parete accanto.| Poi sale la sinfonia dei rasoi,| lo
scroscio degli sciacquoni,| riparte il ballo degli ascensori| e un fiume di
volti se ne va| chiuso nelle cromie dei cellulari» (p. 18) e nella propria
anonima solitudine, mentre l’arco di tempo della loro esistenza inesorabilmente
si erode.
Certi giorni però, come si evince soprattutto dai testi che formano la
seconda sezione delle tre nelle quali si divide il libro, improvvisamente gli
tornano in mente altri profumi, che gli rammentano «quando vivere| voleva dire
respirare l’infinito,| starsi a contare sulle porte,| quando non c’erano file
continue,| guerre urbane e ognuno aveva riflessi arcobaleni negli occhi,| storie
di bagliori e comete da raccontare» (pp. 38-39). E la sua nostalgia per i
colori, le fragranze, il calore umano, della Sicilia (la regione in cui è nato e
nella quale ha trascorso l’infanzia) immancabilmente si fa più intensa, rendendo
ancora più pesante il rammarico di essere immerso in una realtà molto diversa:
quella della sua città adottiva, Firenze. Infatti scrive: a Firenze «devo stare
al gioco dei semafori,| in coda agli sportelli, esibire codici fiscali| e
riempirmi il cuore di guerre, urbane disperazioni| mentre mi urlano di farmi da
parte| e che la vita si consuma dall’oggi al domani» (p. 49).
In altri testi Carmelo Consoli
affronta temi eterogenei, i quali spaziano dal sociale al civile, a quelli più
intimi e privati. Ad esempio in Dalle torri fumarie e Abbiamo sognato
di fermare i treni parla di operai che difendono il proprio posto di lavoro;
ne La locomotiva del mare invece rievoca il tragico destino di
trecento deportati ebrei stipati in un treno merci partito il 3 novembre 1943
dalla stazione di Santa Maria Novella e diretto ad Auschwitz; in Rosarno
e ne La barca dei sogni denuncia le vicissitudini e i drammi dei
nuovi migranti che inseguono il sogno di approdare su “un’isola felice”; in I
treni della notte, Verso sud e alcune altre poesie, racconta invece
di viaggi in treno o in automobile, descrivendo l’alternarsi dei differenti
paesaggi.
Nella terza e ultima parte della raccolta, L’amore strepitoso,
vengono a galla: la nostalgia per un mondo agreste perduto, un forte sentimento
religioso (Un canto gregoriano), l’affetto e l’amore per il padre e la
moglie scomparsi. Proprio alla donna amata si rivolge nella poesia Se tu
tornassi dicendole: «Se tu tornassi da quella vita| d’altri cieli solo quel
tanto| per una visita breve, quattro parole,|
scopriresti che sono ancora là| nell’intreccio di oleandri e gelsomini,| ai
rifugi tra ombre e rami,| nell’oro filtrato dalle foglie;| […].| Se tu tornassi
quaggiù| aprendo la porta con due giri di chiave,| come sapevi, non mi
riconosceresti più| nel passo spento, nel disegno delle rughe,| nello scempio
dei capelli persi.| […].| Ti accorgeresti| che siamo morti nello stesso istante|
tu tra le stelle azzurrine| che sognammo da fanciulli| io in una terra grigia di
strade e condomini». E sempre a lei è dedicata anche la composizione che chiude
la raccolta Quadrato otto, fila settantaquattro, dalla quale traspare
il dolore per la sua perdita e la certezza che si incontreranno di nuovo.
Carmelo Consoli quindi guarda la città con occhio disincantato,
ne nota i tratti alienanti, spersonalizzanti, disumanizzanti, e li racconta nei
versi con incisività e compostezza, contrapponendo il suo grigiore
all’esplosione di colori al variare delle stagioni nella campagna, la bellezza
dell’ambiente naturale alla tristezza di quello urbano. A volte però tra la
desolazione e l’indifferenza urbana gli capita di leggere sui muri scritte che
parlano d’amore e passione, gli sembrano guizzi di sentimenti che illuminano di
speranza l’invasivo e arido non-colore della metropoli.
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Recensione |
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