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Tramonto
di un sogno
Gliel’avevo
detto, a Francesco, che non mi ero sentita bene durante la notte e che non mi
sembrava il caso andassi al podere, quel giorno. Lui, invece, dolcemente mi
rispose:
– Cara, la guerra è finita da
poco. Tu sai bene in quali difficoltà ci troviamo e sai anche quanto prezioso è
il tuo aiuto in questo periodo dell’anno. Facciamo così, io ti accompagno, poi,
tu farai ciò che puoi. Sono sicuro che sono disturbi passeggeri, come tante
altre volte.
Non ebbi il coraggio di
replicare e così, quel 13 luglio 1946, mi ritrovai, da sola, nel campo di grano
appena mietuto, perché Francesco, come spesso capitava, si era recato in un
altro posto, per dare una mano dove c’era più bisogno.
Mentre raccoglievo i biondi
covoni e costruivo delle biche, il mal di schiena, che mi tormentava già da
alcune ore, non accennava a diminuire, anzi aumentava.
Fitte dolorose, mi assalivano ad
intervalli sempre più ravvicinati, per questo, decisi di andare a sedermi per un
po’ sotto una vecchia quercia; appoggiai la schiena al tronco, nel vano
tentativo di lenire il dolore. Guardai l’orologio: erano appena le dieci.
Preoccupata pensai che mio marito sarebbe passato a riprendermi solo dopo molte
ore, nel tardo pomeriggio. Un’ennesima, lancinante trafitta alla schiena, mi
tolse il respiro.
Non riuscivo a capire cosa
diavolo mi stava succedendo, avevo appena diciotto anni, ero sempre stata sana
come un pesce e non avevo mai sofferto di coliche renali o altro. In breve,
l’intensità del dolore divenne insopportabile, mi buttai in terra e incurante
delle stoppie che mi bucavano e graffiavano la pelle, iniziai a rotolarmi ed a
lamentarmi a bassa voce. Persi la cognizione del tempo. Il mio unico desiderio
era quello di morire per poter porre fine a quel supplizio: grondavo di sudore,
i vestiti ed i capelli erano fradici. All’improvviso, iniziai a sentire anche
una strana voglia di spingere e non potei far altro che eseguire tutto quello
che l’istinto mi dettava; con rabbia mi tolsi le calze e tutto ciò che c’era
sotto, buttandoli lontano. Finalmente ero libera di muovermi come volevo.
A quel tempo ero molto ingenua,
e nessuno, nemmeno mia madre, mi aveva mai parlato di certe cose, era tabù, ma,
nonostante la mia inesperienza, iniziai a intuire cosa mi stava succedendo.
Dunque il momento era arrivato, con due mesi d’anticipo. Fui presa dal panico,
le gambe e le mani iniziarono a tremarmi, i denti mi battevano, non riuscivo a
controllare il mio corpo. In quei terribili momenti avrei preferito non essere
nata donna.
La natura, indifferente, fece il
suo corso e le doglie continuarono finché, finalmente, sentii la testa del
bambino fra le mie gambe, l’afferrai e senza rendermene conto, mi ritrovai tra
le braccia un piccolo esserino che rimaneva immobile e silenzioso: la sua
testina, ricoperta da capelli chiari era appoggiata sul mio avambraccio, le sue
esili gambine e le gracili braccine penzolavano inerti, miseramente. Un brivido
freddo mi scivolò lungo la pelle fino a perforarmi il cuore come una lama di
ghiaccio. Delicatamente accostai il suo viso alle mie labbra e lo baciai una,
due, cento volte, implorando senza voce:
– Dio! Dio! Ti prego fallo
vivere. Non lo riprendere appena me lo hai dato! Ti prego!
Piansi e pregai, alla fine,
distrutta, guardai il cielo lontano e lì, tra le nuvole che iniziavano a
colorarsi di porpora, vidi volar via i miei sogni di giovane mamma e sposa
insieme ad un piccolo angelo biondo. Volarono, volarono, poi, scomparvero e
rimase solo una donna con il suo dolore.
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