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Fòle da sognare
È la seconda volta, quest’anno, che mi capita di recensire un libro che pubblica
la traduzione in una varietà del veneto di testi famosi. In questo caso si
tratta di Zenaréntola (Cenerentola), Capuceto Rosso (Capuccetto
rosso) e La Bela indormenzà (La Bella addormentata), le celebri fiabe di
Charles Perrault, tradotte nella varietà veronese di San Pietro di Morubio, con
a fianco la versione italiana che ha costituito la base di partenza per
l’esercizio di traduzione in veneto.
È l’ennesima riprova del valore di quello che spesso chiamiamo dialetto, sistema
linguistico a tutti gli effetti, capace di farsi veicolo di contenuti di alto
valore letterario e di lunga tradizione culturale, anche quando, come in questo
caso, riconosce l’italiano come «lingua tetto», cioè come lingua di riferimento
sovradialettale (concretamente, qui, come lingua di mediazione tra l’originale
francese e la versione veneta).
Del resto le fiabe (soprattutto quelle di Perrault, ma pensiamo anche, pur nella
loro diversità, a romanzi classici per bambini, come Pinocchio) sono
state tradotte in tantissime lingue, e in tantissimi dialetti, come ci si può
ragionevolmente aspettare per storie che non sono opera originale di un autore,
ma sono il punto d’arrivo di secoli di tradizione orale e rispondono a stimoli
narrativi universali. Si tratta di racconti passati di bocca in bocca, che poi
hanno trovato, in epoca moderna, anche se non recentissima, chi le ha trasferite
nello scritto, dando loro una forma stabile, che ne ha garantito la
sopravvivenza anche quando la memoria orale ha ceduto sempre maggiori spazi alla
memoria scritta.
Quando a essere tradotte sono le fiabe, non vi è solo il senso della sfida cui
abbiamo accennato (quella del dialetto che può benissimo trasmettere anche
contenuti i più significativi della tradizione culturale europea) e della
rivendicazione della parità tra veneto e italiano; vi è anche un obiettivo di
socializzazione, soprattutto tra parlanti di generazioni diverse: io mi aspetto
che questo libro possa servire a nonne e nonni per tramandare ai nipoti e alle
nipoti le fiabe, ascoltando le quali tutti noi siamo cresciuti, ma anche per
trasferire loro almeno la conoscenza passiva del veneto. Il veneto è una
componente fondamentale del repertorio linguistico regionale, che forse sta pian
piano (più piano di quanto si pensi) scomparendo come lingua delle nuove
generazioni, ma che continua a far parte del patrimonio culturale della nostra
comunità e con il quale è bene che i piccoli continuino a prendere confidenza.
La versione di Lucia Beltrame Menini non si fa imprigionare dalle parole e
dalle frasi della base italiana di partenza, ma cerca proprio di “venetizzare”
il testo italiano, evitando di italianizzare il suo dialetto. Basta qualche
esempio: in Cenerentola troviamo i fiori spanìi per i ‘fiori che
stanno per sfiorire’,
il
tè de bojo
per il
‘the bollente’, i botezi de mezanote per i ‘rintocchi
della mezzanotte’, tardigare per ‘tardare’; in Cappuccetto rosso i
leprotti sono detti leoreti e il «vecchio riccio» è semplificato in
rizzo, la nonna non chiede «chi bussa», ma «chi bate», il ‘cordone del
chiavistello’ è la stangheta; nella Bella addormentata incontriamo
ancora tardigare, questa volta per ‘indugiare’, le vaneze del
giardin per le ‘aiuole del giardino’, l’azione del giovane sguattero che
continuava a spennare il pollo nero viene descritta così: «el servidor l’à
continuà a spenare la galina nera» (con lo sguattero risolto, di necessità, con
una parola più generica e il pollo ben venetizzato in galina).
Per assaporare queste scelte lessicali, quasi mai inerziali rispetto
all’italiano, può essere utile farsi guidare dal piccolo glossario, che
l’autrice ha opportunamente inserito alla fine della sua fatica, anche se la
presenza della traduzione italiana a fronte avrebbe potuto far credere che si
trattasse di uno strumento superfluo. Un altro piccolo regalo che Lucia Beltrame
Menini ha voluto fare ai suoi lettori.
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Recensione |
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