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Presentazione a
Quando el sole va in catinora…
di Lucia Beltrame Menini

la Scheda del libro

Michele A. Cortelazzo
Professore ordinario di Linguistica italiana - Dipartimento di Studi linguistici e letterari (DiSLL) di Padova.
Direttore della Scuola Galileiana di Studi Superiori - Padova.

La rivista Quatro Ciàcoe, che da più di trent’anni esce ogni mese con scritti nelle diverse varietà del veneto, può essere letta in due modi: da una parte, come miscellanea mensile di storie, ricordi, pensieri di autori differenti, con tutta la ricchezza che deriva dalla diversità di interessi, di esperienze, di stile degli autori. Dall’altra come luogo d’incontro mensile con l’autore, o l’autrice, preferiti, dei quali si attendono le storie, caratterizzate da una continuità di contenuti e di sensibilità scrittoria. Si creano così delle fedeltà, che si rafforzano mese per mese.

Per questo alcuni autori hanno periodicamente la buona idea di raccogliere in volume gli articoli pubblicati sulla rivista, ripercorrendo, così, la strada che li ha portati, mese dopo mese, a scrivere di certi argomenti, in genere legati tra di loro, con quello stile, con quegli obiettivi comunicativi. Lucia Beltrame Menini è tra questi. Nel 2005 ha raccolto una serie di articoli nel volume La me tera, la me gente; circa un decennio dopo ha prodotto questo nuovo volume, il cui titolo (Quando el sole va in catinora) richiama il contenuto di uno degli articoli ripubblicati, ma il cui sottotitolo (Storie, done e òmeni, tirè fóra da le pagine de Quatro Ciàcoe) dà le informazioni essenziali sul contenuto del libro.

Cominciamo da quest’ultimo punto, necessario per proseguire il nostro discorso: il libro raccoglie soprattutto dei brevi ritratti di personaggi significativi di San Pietro di Morubio e paesi vicini, un’area che dev’essere davvero tranquilla e salubre a giudicare dal buon numero di centenari di cui ci parla Lucia Beltrame Menini. I ritratti dei paesani che hanno fatto fortuna, che hanno svolto attività significative in paese, o semplicemente che hanno avuto una vita semplice, ma ricca di storie, e di storia, sono spesso disegnati attraverso delicate interviste, tutte in dialetto. Grazie alle interviste l’autrice ha potuto anche ricostruire episodi o modi di vita tipici della storia di San Pietro di Morubio e, più in generale, del Basso Veronese; tra queste, vale la pena sottolinearlo in questi tempi, molte storie di emigrazione e, più di una volta, storie di guerra.

Non credo che occorra fare un lungo discorso per dire quanto sia adeguato il dialetto locale per narrare queste storie, che ricostruiscono un mondo che è stato sempre vissuto in dialetto. E non è un caso che più di un intervistato raccomandi alla rivista Quatro Ciàcoe, ma attraverso di essa a tutti i Veneti, di «mantegnere el dialeto, cussita i buteleti i deventa bilingue, parché l’è la cultura de na olta che bisogna mantegner» (sono le parole di Manio Guerra, ma concetti simili li hanno espressi anche Alberto Bologna e Daniela Perdonà Guerra).

Proprio in questa prospettiva, è significativo il titolo. Andare in catinora è un’espressione che ha diversi significati, tutti chiaramente legati tra di loro: ‘ridursi in fin di vita’, ‘andare in miseria’, ma anche ‘tramontare’, quando l’espressione si riferisce al sole. È una delle tante storpiature del latino della Chiesa, che risalgono agli anni in cui la messa veniva celebrata in latino e tutte le preghiere delle funzioni venivano recitate in latino. Ma, come ricorda Lucia Beltrame Menini nel brano Quando se pregava in latin, la messa era rivolta a fedeli in gran parte analfabeti, soprattutto le donne, che spesso erano le partecipanti più devote ai riti religiosi. Ma come facevano a pregare in latino? Cercavano di imitare i suoni di questa lingua sconosciuta, soprattutto nei tratti che più si differenziavano dal dialetto (e dall’italiano): «l’era inportante far sentir le “esse” e alora… “esse” dapartuto». Ma anche si ripetevano frasi e versetti in una forma orecchiata, producendo espressioni che non erano né latine né italiane, ma possedevano un fascino e un alone quasi magico che le facevano entrare nell’uso comune. Così, il nostro andare (nelle diverse varianti locali) in catinora non è altro che il nunc et in hora (mortis nostrae) dell’Ave Maria. Ma possiamo ricordare anche il verboncaro del «Verboncaro fatoeste tabitanobi”, corrispondente all’originale «Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis” del capitolo iniziale del Vangelo di Giovanni, o l’ésule e filieve 'solo e spiantato', dall'«exules filii Evae» del Salve Regina, il sequerio, ‘persona lamentosa’, tratto dal «si quaeris miracula» dell’antifona a sant’Antonio da Padova, il chiàbita che può indicare il ‘sordo’ o anche la preghiera che si recitava per allontanare il tempo cattivo e proviene dal Salmo XC «qui abitat in auditorio Altissimi»; e poi la locuzione andar a beronunsio ‘andare a catafascio’, ripresa imperfetta di abrenuntio, la risposta del padrino o della madrina, in luogo del battezzato, alle richieste del celebrante nei battesimi, in alte deo ‘chiaramente, solennemente’, corrispondente al «Gloria in altissimis Deo» del Vangelo di Luca, dona Bisodia, ‘persona un po’ matta’ o ‘donna poco seria, sguaiata’, originato dal «dona nobis hodie» del Pater Noster.

Anche queste sono tracce di un mondo passato, che forse alle nuove generazioni risulta non solo sconosciuto, ma anche incomprensibile, come sconosciuta e incomprensibile risulta la lingua che trasmetteva il modo di vivere di questo mondo passato. Per questo risultano preziosi questi quadretti disegnati, con garbo e leggerezza, da Lucia Beltrame Menini e presentati nell’unica lingua coerente con i contenuti trasmessi, il dialetto basso-veronese (o lingua, se qualcuno preferisce così, tanto non cambia nulla).
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