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In fondo, non diventiamo forse nastri magnetici da
sbobinare di fronte a uno psicoterapeuta? Bobine da trascrivere in un altro
codice grazie all'analista che traduce la nostra sintassi apparentemente
lineare in parabole sintattiche inquietanti? Nel romanzo di Antonella Di Renzo
non si tratta però di un'operazione riguardante un'unica persona, ma un'intera
famiglia, in particolare il figlio, Alessandro e la madreDiletta (chiamata
anaffettivamente di volta in volta “mutter”, “matrice”, ecc...), ipercritica e
frustrata. In sottofondo un padre, Lorenzo, che prende il volo dal nido
scricchiolante della famiglia per trovare ossigeno ad est, in Romania.
Sbobinami pure è la richiesta d'aiuto di una donna
che si sente inadeguata, come madre, moglie e lavoratrice, la cui ultima
sconfitta (la bocciatura per l'abilitazione all'insegnamento) rappresenta la
goccia che fa traboccare il vaso. Diletta sembra essere malata di
quell'inettitudine che caratterizzava i protagonisti novecenteschi di Svevo e
Pirandello. Consapevoli, colti, acuti osservatori e quindi incapaci di quella
felice ottusità che invece possiede la gente semplice e mite.
Non si accontenta e nello spostare la linea dell'orizzonte
sempre oltre non sarà mai in grado di raggiungere una briciola di serenità.
Diletta, con una dinamica emotiva masochistica, tende a
mettersi a confronto non solo con la realtà che la circonda, ma anche con i suoi
riferimenti letterari. “Non so se riuscirò a diventare una Madre. La madre
perfetta descritta in Agata e la pietra nera di Ursula Le Guin”.
Come Silvia Plath, l'amata poetessa, che visse (fino al
tragico suicidio) l'affanno del sentirsi fuori luogo e fuori tempo, Diletta vive
un incubo. Ma il viaggio nella depressione della nostra protagonista non prevede
un precipizio davanti a sé, ma un bivio e poi un altro bivio. Percorrere la
strada senza essere divorati da troppe domande cannibali, diventa l'unica
soluzione per ingranare la marcia giusta e godere finalmente del paesaggio al di
là dei finestrini.
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Recensione |
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