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Ben evidenzia Francesco Scarabicchi nella postfazione che gli
argini del percorso poetico racchiuso nell’ultima raccolta di Danilo Mandolini
si situano tra la prosa iniziale La deriva e la lirica conclusiva
L’approdo: si parte infatti da una deriva esistenziale, da una perdita di
centro, cifra costante della poesia dell’autore osimano, per giungere a un
approdo, a un porto che non significa necessariamente pace, rifugio, ma è
comunque un arrivo per quella vita che si qualifica appunto come la distanza, il
cammino da compiere con le sue cicatrici, le sue ferite, le sue sconfitte,
quelle che restano sul viso umano, per riprendere il titolo della precedente
raccolta dell’autore, ma che sono inscindibilmente connesse alla vita e al suo
male irredimibile.
Sfilano così nella raccolta le immagini deteriori della pena e
dei naufragi che si devono attraversare per giungere a tale approdo: dal
nascere, che è «Sapere da sempre e non ricordare | che al termine di una
qualsiasi tregua | il tramonto torna ancora solerte | a donare altra ansia e
rancore» (p. 35), alla marcia opulenza della civiltà occidentale
(qualificata da un’icastica citazione collodiana come l’illusorio paese dei
balocchi) che sembra celebrare il suo isterico funerale nell’orgia del
consumismo, alle ricorrenti e quanto mai attuali immagini della guerra, «metastasi
accelerata del divenire che penetra il tempo | dentro la bolla di ogni forma»
(p. 29), o della più ipocrita «pace ostentata di oggi | che cela bestemmia e
pena» (p. 39). E nel corso della raccolta la guerra si fa sempre più
metafora dell’esistenza, dell’eterna condizione dell’uomo tra gli uomini, nemico
tra nemici: «Siamo uomini e soldati, in questa vita, | cerchiamo e
rincorriamo altre sembianze | per dimenticare, negare e rinnegare | che il vento
insegue, in ogni caso, | tutte le ondulate movenze del cielo» (Del
divenire, p. 13). Il tema si esplica via via con le insistite immagini del
fronte, delle trincee, delle retrovie, queste ultime ricorrenti nel titolo di
più liriche, forse a significare la ricerca di un disimpegno dalla lotta
fratricida, di una tregua allo scannatoio umano anche là dove esso è tranquillo
e incruento, nella consapevolezza che su tutto e tutti incombe il «cecchino
in uniforme grigia, laggiù» (p. 49), simbolo della fine spesso dimenticata
ma sempre in agguato, in quanto «Non si può affatto immaginare | che luogo
costruiranno le nostre frasi, | né sopra quali tetti, per morire, | lo schianto
del fulmine terminerà» (Versi dalle retrovie 1, p. 36), ma anche
della maledizione per la quale l’uomo si condanna a una vita perennemente
sospesa nell’incertezza di quel futuro oggetto di lotta, «nel tentativo
reiterato di capire | dov’è il luogo in cui si perde | quanto dista quello in
cui si vince | e come si raggiunge quest’ultimo | senza fatica alcuna» (p.
42). Man mano che ci si avvicina al compimento della distanza cui rimanda la
lirica conclusiva, l’immagine della guerra lascia il posto a quella del viaggio,
visto come continua partenza e insoddisfatto ritorno, si tratti della presenza
più consolatoria del mare coi gabbiani, le vele e un possibile orizzonte, forse
varco montaliano, o di quella più cruda della stazione, dove dagli sportelli «spalancati
invano | sull’affanno frenetico degli uomini, | si scambia l’inizio con la fine,
| si confonde la gioia con il lutto» (p. 59), e dei binari lungo i quali «corrono
inermi e veloci | gli scheletri esigui delle foglie» (p. 57).
Ma allora quale può essere l’approdo di questa distanza da
compiere? Non tanto il termine della vita, che nei versi di Mandolini non suona
come liberatorio termine degli affanni, poiché il morire appare nient’altro che
una semplice tregua, come lo «Sdraiarsi supini ed in bilico, | abbracciare la
sottile retta, | la linea di parole e rumori che […] traccia l’unica traiettoria
possibile, | il solo modo di giungere diretti | alla pozza d’acqua stagnante, |
al luogo vicino e nascosto | dove la nuova attesa del dopo | viene ripetutamente
al mondo» (p. 47). Piuttosto il poeta intende l’approdo al porto come la
serena, virile accettazione del male di vivere, di tutte le lotte che il
quotidiano comporta, di tutte le cadute e ferite che tessono giorno per giorno
la materia del nostro esistere, senza la pretesa di vincere e sopraffare,
dimentichi della sconfitta generale che incombe, come sorta di laico peccato
originale, su tutta l’umanità: questo è il messaggio che l’autore vuole
consegnarci con questi pregnanti versi, un messaggio disperatamente lanciato a
un’umanità istericamente dolente e immemore persino del proprio dolore per la
voglia di consumare più che compiere la propria distanza, mentre «occorre
dire con forza | che rinunciare alla sopraffazione, | ad un desiderio, a quel
poco o quel tanto | che non è indispensabile adesso | e che mai, certamente, lo
sarà | non è perdere la battaglia, | né tanto meno la guerra | è soltanto
accettare la tregua | che precede e accompagna | il composto soccorso ai feriti
| disseminati sul campo | o nei cortili» (p. 44); e proprio nel citato testo
di chiusura viene esplicitato il significato ultimo di questo arrivo, il senso
della distanza che ci separa da due punti, due termini ugualmente inspiegabili:
«l’unico traguardo, in fondo, | è alzare le braccia per cercare | di farne i
pilastri dei ponti […] è non cedere in alcun modo | alla tentazione di barattare
| l’ampia scorta di memorie raccolte | col principio delle illusioni a venire; |
è attendere impazienti, | affaticati ed infine sorpresi, | il proprio turno per
assistere in gruppo | all’apertura di una porta
bianca | sui suoni sordi della piazza | e sugli uomini che verranno»
(L’approdo, p. 71).
Mandolini insomma prospetta, senza pietismi e senza alcuna concessione alla
retorica, una rinnovata social catena di marca leopardiana, traendo
dall’illustre lezione del recanatese l’agonistica e virile accettazione della
vita e delle sue battaglie perennemente perdute, non ultima delle quali la
dipendenza dal futuro continuamente frustrata; il recepire tale messaggio
potrebbe perlomeno alleviare la pena della guerra, se almeno combattuta assieme
e non in un isolamento egoistico nel nome della materiale affermazione di sé.
Per questo nella raccolta, rispetto alle opere precedenti, lo stile si fa più
disteso, meno nervoso e introverso, anche se non per questo privo di immagini e
iuncturae dense e forti, a prova della raggiunta maturità poetica
dell’autore e di quell’apertura all’esterno che La distanza da compiere
vuole sostanzialmente significare.
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Recensione |
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