| |
«Non sono credente dichiara Veniero Scarselli, ma sento di
avere un bisogno sfrenato di Dio». E qui, proprio qui, mi sembra incentrata la
poetica di questo libro, di queste «povere» grida – come le chiama il poeta –
che finge di aver trovato un manoscritto in una grotta del Monte Athos, al
quale si sarebbe ispirato. Tutti conoscono l'emblema mistico e contemplativo di
questo luogo: monaci greco ortodossi, una volta eremiti, a tutt'oggi raccolti
in preghiera e meditazione, alla ricerca del vero, ma anche in un protratto
dialogare con l'Essere, al quale spesso si rivolgono con ribellione e
disperazione. Cosa che, del resto, non ci è nuova, perché già molti illustri
personaggi della Bibbia, fra i quali, ad esempio, Giobbe e lo stesso Geremia,
si comportavano in modo analogo.
Dalla cruda osservazione del mondo, dalla
condizione umana, anche nel senso più strettamente fisico e genetico, che un
biologo come Veniero Scarselli non può certo ignorare, dal perché rivolto al
Cosmo e ad un Dio – se c'è – (ma in determinati momenti si sente il bisogno di
pensarlo esistente), al considerare impietosamente i particolari dell'umana
vicissitudine: l'aspetto anatomico e fisiologico dell'uomo, e quegli universali
yunghiani che sempre troppo ci tormentano, da qui scaturiscono le nostre
eretiche grida, disperazione leopardiana più che speranza, in un linguaggio che
ricorda i secoli passati, e le tre cantiche di Dante. Ma in tali marosi il nuovo
Ulisse invoca con tutte le forze un Dio nel quale è capace di credere, e che
pure giustificherebbe la pletora di contraddizioni che ci dilaniano e non
lasciano adito alla speranza, La ragione si smarrisce nella travagliata ricerca
di un « senso » per la vita. Fra tanti animali, siamo gli unici che si pongono
tale problema, il significato della nostra parabola caduca; l'interpretazione
del fenomeno « morte » (là dove possa esisterne una). Così, il poeta invoca Dio,
pur non riuscendo a credere in lui, talvolta lo maltratta, talaltra ne esige un
palesamento con disperazione.
Il tutto è sostenuto da un'epica – lirica, mi si
passi questa perifrasi – di grande robustezza, che non indulge certo a sentimentalismi, ma che pure coinvolge e
–
direi – commuove. Caratteristica peculiare: fuggire gli epigoni e innovare la
consuetudine dedicandosi ai contenuti senza tuttavia trascurare la forma (là
dove molti ignorano i contenuti stessi per essere soltanto sensazione fonica o
visiva, qui la fusione fra l'argomento e il modo risulta così naturale che un
distinguo fra i due elementi risulterebbe artefatto). Questa vena lirica
urlante e dolorante, scaturisce con tanta naturalezza e perfezione dalla
sorgente poetica universale, che si può soltanto leggere o ascoltare, e rimanere
coinvolti. In un simile contesto, egli rappresenta l'innovatore, il quale
attinge al passato certo, ma con sensibilità moderna, per ricondurre la parola
ad un significato pieno e trascinante.
| |
 |
Recensione |
|