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Relazione esposta in occasione della presentazione del libro
il 20 maggio 2008 alla Camerata dei Poeti di Firenze
La Fiaba Poematica
Genesis di Veniero Scarselli (la definisco
così benché l’Autore non senta di appartenere ad alcun genere letterario
corrente o passato, sia esso poema, o favola, racconto, romanzo, poesia, di
estrazione lirica, epica, storica, filosofica, religiosa, civile, pièce teatrale
etc., in quanto la scrittura versificata di contenuto filosofico, in questo caso
filosofico-epico, fu tipica, sia pure in epoche diverse, di grandi contenutisti
come Dante Alighieri, Leon Battista Alberti, Giordano Bruno, Rousseau,
Nietzsche, etc. ed è intrinseca alla stessa Bibbia (ad una parte della quale
s’ispira integralmente il titolo).
Ed ha veramente ragione Veniero Scarselli, nel rifiutare
qualsiasi definizione di genere: se infatti, rifacendosi soprattutto al
presente, lo si confronta con qualsiasi poeta attuale, se ne comprenderà il
perché. Egli pertanto, vuoi nelle tematiche vuoi stilisticamente, è del tutto
originale, ma non solo, è – per sua fortuna – assolutamente distante da
qualunque esempio di scrittura. E veniamo proprio alla scrittura, quando, come
la sua, è totalmente parlata, chiara e comprensibile, incurante di
mode formali, o vezzi, o peggio abitudini, fin quasi a diventare sprezzante,
senza però dimostrarlo – ma essendolo e basta – dei vari modi d’espressione più
o meno conosciuti, più o meno in voga. In questa, che chiameremo scrittura
appunto per non mischiarla nemmeno tangenzialmente con alcun parametro noto,
non è assente l’epica, né la storia ad ampio raggio, come il titolo biblico
suggerisce, né tantomeno l’etica o il contenuto civile, ma una componente, che
spunta in modo sornione ed apparentemente ingenuo dal “diario” del protagonista
e che – almeno credo – pochi hanno preso in seria considerazione, è la
Satira, intesa come ironia sorgiva, sottesa ad un discorso dall’apparenza
seriosa, e comunque drammatico.
Non possiamo negare la componente filosofica, che, come
sappiamo, grandi poeti e letterati d’altri tempi esprimevano quasi sempre in
versi, tenendo presente che per il Nostro anche il termine “versi” è fuori
luogo, benché si esprima in endecasillabi, in quanto, pur suscitando l’emozione
tipica del verso, il suo modo di scrivere è lontano dalla versificazione
attuale, cui dovrebbe attingere per chiamarsi così. C’è chi vede in tanta
semplicità così evoluta e risultante di un’accurata scelta, un non so ché di
barocco, ma io lo escluderei, almeno nel senso immaginifico, in quanto tutti
conosciamo le piacevoli complicanze evolutive dello stile barocco, non so però
se altrettanti abbiamo gustato la limpida semplicità della Musica barocca.
A parte le considerazioni stilistiche, pur non mancando in questa sede la
speculazione filosofica, non solo nel modo di visualizzare gli oggetti ma anche
implicitamente negli emblematici accadimenti, non esiste la normale pletora di
terminologie sistemiche.
Quanto inoltre mi preme evidenziare è che questa storia si
ripete ciclicamente, poiché dalla genesi biblica, ovvero dal giardino dell’Eden,
e dal post-diluvio si passa ad una sorta di evoluzione cieca, ineluttabile e
mortale, che si trascina fino ai tempi attuali ed oltre, verso le future pieghe
di questo sciagurato millennio che la “Fiaba” vedrà popolato di veicoli spaziali
e d’astronavi solcanti i cieli in cerca di scampo alla volta del lontanissimo
pianeta Niobe, dove è possibile la vita per l’uomo (termine peraltro
alquanto spregevole, come vedremo), e sul quale, come per caso, alcuni studiosi
e archeologi troveranno un Diario che è appunto questa Genesis, forse
autobiografico, forse universale, parafrasi e metafora di un destino ripetitivo
quanto cieco. Lo potremmo anche definire, in senso orientalistico, un karma di
pianeta dalla valenza matematica, ma non certo etica o spirituale. Per quanto
concerne, infatti, la possibilità che il Poeta creda nella dimensione
metafisica, e di conseguenza in quella metapsichica, vorrei citare pochi versi
della lassa 39: Allora anche le storie di fantasmi, | che qualcuno
racconta d’aver visto | timidamente aggirarsi fra gli alberi | e poi sparire,
certo sono vere, | ma bisogna aver l’anima pura | dei bambini che sanno col
cuore | veder bella ogni cosa del mondo; | solo loro li sanno sorprendere | fra
i cespugli e gli alberi del bosco | o in un angolo discreto della
casa | e gli possono talvolta anche parlare. | Ma a me, che avevo ancora in
cuore | l’urlo dei morti e l’angoscia della Ragione, | questa buona ventura era
preclusa, | eppure avevo tanto desiderio | di rivedere anche solo per un attimo
| almeno il vuoto simulacro della Mamma | assisa sulla solita poltrona | per
chiederle almeno una volta | cercando vanamente d’abbracciarla | “perdono,
mamma, se quand’eri in vita | non t’abbiamo onorata abbastanza.
Confronta, naturalmente in senso più formale che contenutistico, Omero e “il
regno delle pallide ombre” che sfuggono al contatto concreto, vedi anche
Pavana per una madre defunta del medesimo Autore. Eppure, un’aura spirituale
e religiosa aleggia sempre anche su questo poema, e il fatto che il protagonista
sia un’anima spiritualista, ma possieda anche quell’humour e quella sapida
ironia di cui abbiamo già accennato, è la contraddizione dell’inesplicabile, ma
meccanicamente ordinato contrasto, su cui si basa la narrazione.
L’uomo, all’origine buono come nel Giardino dell’Eden, peccò di
superbia, o forse fu Dio stesso a sbagliare il calcolo matematico differenziale
nell’insufflare l’anima su di una materia già così complessa nella sua
programmazione (vedi DNA); in ogni caso una maligna stella cozzò contro la Terra
provocando il peggio sull’umana psiche, con l’evento, leggendario e
indimostrabile in quanto troppo remoto, dell’episodio biblico primordiale, e di
qui la storia presente (ma per noi, del primo decennio del III millennio, sempre
futura) con infine il reperto archeologico del diario. Molti tuttavia
riusciranno a mettersi in salvo – tramite una perfetta astronave – su di un
pianeta lontanissimo.
La stella nera e maligna conteneva in sé il germe universale del
Male e della Morte, e ciò non contraddice la scienza, che ci ha portato a
visualizzare esattamente ogni cosa come deperibile e mortale dopo un ciclo
assolutamente ripetitivo e, potremmo dire, regolare. Ciò che sfugge è il vero
perché di questo meccanismo, come pure la sua origine. Il nostro protagonista
tuttavia, ossia il personaggio che scrisse il diario, rimasto solo (almeno per
quanto egli ne sa) sulla Terra distrutta e ridotta a un deserto, riuscirà a
scovare un angolo fertile in una valle scoscesa, dopo aver percorso una
vastissima terra di nessuno. I nostri futuribili discendenti, invece, emigrati
sul suddetto pianeta infinitamente più accogliente, potranno accorgersi di
questi avvenimenti vedendo col telescopio una macchia rivelatrice di vita
sulla superficie della Terra pur ridotta ad una mezza specie tra Luna e Marte
cioè tutta arida sabbia e crateri.
Quello che più colpisce è la già sottolineata ripetitività del
meccanismo storico, il quale potrebbe replicarsi all’infinito, per quanto, come
già visto, in modo cieco e inesplicabile; anche gli emigrati nostri pronipoti
infatti, benché evolutissimi, recano già in sé il germe dell’autodistruzione che
inizierà presto a rivelarsi. Lo stesso protagonista, che può essere benissimo lo
stesso Veniero Scarselli rifugiatosi fra i monti nella sua foresta casentinese
in quel di Pratovecchio, diviene spurio via via che passano gli anni, e,
quando si stabilizza in un’abitazione, per quanto francescanamente lontana da
ogni rotta conosciuta, inizia quasi insensibilmente a corrompersi, attuerà una
giocosa violenza che diverrà poi reale e sanguinaria. Il tutto avverrà in modo
pressoché ingenuo, e allorquando il nostro eroe s’accorgerà d’aver
tralignato sarà troppo tardi: via via che, passando dal menage naturale a quello
della Dea Ragione si distaccherà da Dio e dai suoi figli, in primo luogo dagli
adorabilissimi animali, si perderà nei meandri d’una folle pretesa di conoscenza
e realizzazione tecnologica contraria alla dimensione divina, e scadrà nel Male
e nel Diabolico, vittima d’una superbia senza confini, dimenticando l’amore,
autentico e metastorico collante dell’universo.
Siamo
dunque sempre alle solite: origine idilliaca, peccato di superbia, degenerazione
della ragione, sapienza inutile e inutile ricerca della conoscenza, tutte cose
che portano a rinnegare l’istinto positivo, l’autenticità dei sentimenti,
l’amore cosmico e personale, per giungere alle più efferate deviazioni e alle
più complicate aberrazioni, fino a distruggere il mondo ciclicamente a mo’ di
serpente che si morda la coda. Ecologismo dunque come sentimento: la bellezza
dei recessi boschivi più genuini; l’assurdità e la crudeltà dell’Avere invece
che Essere che trascinano l’efferato terzo stadio, ovvero l’Homo Sapiens
Sapiens, massimo concentrato del male, verso l’abisso (dopo i primi due
stadi, in graduale peggioramento, da Homo Erectus ad Homo Sapiens);
le descrizioni, in verità molto toccanti, di alcuni momenti d’amore nei
confronti degli animali, dell’essenza angelicata della donna, del paesaggio e
del mondo vegetale in genere, con tutto quanto è genuino e ha già in sé le
proprie finalità solo amando e vivendo, in un certo senso asceticamente, quando
si è sensibili alla mistica della natura e del cosmo; così anche le parole che
ne scaturiscono possiedono un poiein (non ho parlato – notate – di poesia, ma di
“fare”) così emozionante da toccare veramente ed autenticamente le vette
dell’arte della parola, senza per questo voler collocarsi in un qualsiasi genere
letterario che non esprima la forza del sentire; ma anche la stupenda (seppure
un po’ macabra, o forse appunto per questo) illustrazione di copertina, tratta
dall’opera del grande Salvador Dalì, Presagio di guerra civile;
tutti questi elementi contribuiscono alla bellezza, ma anche alla determinazione
filosofica della presente opera di Veniero Scarselli.
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