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Nativo di Trieste,
dove tuttora vive, saggista, traduttore,
giornalista, poeta
trilingue (italiano, sloveno, tedesco), Giovanni
Tavčar è una delle
personalità più eclettiche e apprezzate
della cultura
contemporanea. Per limitarci al poeta, va ricordato
che dal 1995 ad oggi
il Nostro ha pubblicato ben 16
sillogi poetiche
prima di approdare alle due ultime.
Più che una
raccolta di liriche, il volume Umbria. Terra ricca di energie e di sottili
armonie sembra
un’appassionata
dichiarazione
d’amore del poeta alla terra di Francesco,
l’umile fraticello
che per il Nostro è “la via”, come Chiara è
“la melodia”. Solo
uno che passando per l’Umbria se ne fosse
follemente
innamorato, come capitò a Goethe durante un suo
viaggio in Sicilia,
avrebbe potuto scrivere dell’Umbria con
tanta meticolosità e
dovizie di particolari, cantando sia la rocca
Albornoziana di
Spoleto “con le sue otto torri | che
ghermisce
la città | come un’imponente aquila reale”,
sia “il boschetto
intriso di primule | il casale di pietre arenarie
| il
campo fiammeggiante di papaveri”.
Tutto ciò che cade sotto i
suoi occhi si colora
di vita, diventa silenzio o effervescenza,
misticismo o alta
musica, vertigine o estrema dolcezza. Le
città medievali,
nella loro austera bellezza, vengono cantate
nei loro tornei e
nei loro “cortei illeggiadriti dai
colori dei tessuti
| allietati dai canti e dalle musiche”,
ma accanto ad esse, e
non meno importanti,
vengono ricordati i pregiati salumi e il
tartufo nero, come
pure l’umile farro e le lenticchie. E la cascata
delle Marmore, unica
artificiale al mondo, diviene, sfiorata
dalla poesia, “uno
spettacolo omerico, un’esplosione di
vita | di movimento, di ritmo incessante, di
danza”:
due versi
questi che rivelano
nel Nostro l’ammirazione per un’impresa
umana che esalta la
bellezza della natura e ne celebra il trionfo.
Il
libro presuppone un certosino lavoro di ricerca per le molteplici citazioni, da
quelle storiche a quelle mistiche, da quelle letterarie a quelle artistiche. Di
diversa natura è la silloge L’eterna presenza. Poesia
dell’anima.
“Questa | più che poesia, | vuole
essere opera |
di fede; | fede che, | in quanto grazia | e
speranza, | è nello
stesso tempo | anche poesia; | poesia dell’anima,
| poesia
dell’Assoluto”.
Così scrive il Poeta in una nota introduttiva
all’opera, che ci
consente di interpretare meglio il testo. Siamo
di fronte ad un
scrittore che, forte della sua fede, disquisisce
sulla trascendenza
con mente filosofica e passione. Con un
linguaggio semplice
e chiaro e uno stile quasi discorsivo,
Giovanni Tavèar
esprime la sua ferma convinzione della superiorità
dello spirito sulla
materia e afferma che solo quando
l’uomo riuscirà a
superare le barriere del razionale, il senso
del tempo e dello
spazio, per accogliere la parola di Dio, potrà
acquistare
finalmente la pace suprema dello spirito. Anche lui,
come Dante, vede Dio
come immenso mistero, non spiegabile
da parte dell’uomo.
E se Dante, nel VI canto dell’Inferno,
dinanzi
alla corruzione
della sua “odiosamata” Firenze, chiede a Dio, con toni accesi, “son
li giusti occhi tuoi rivolti altrove | o
è preparazion che ne l’abisso | del tuo consiglio
fai per alcun
bene | in tutto de l’accorger nostro scisso?”,
Giovanni Tavčar
afferma serenamente
che solo quando avremo rinunciato a
tentare di capire,
potremo avere “il pieno | e cosciente
risveglio
| dell’Anima | nell’Assoluto”.
La silloge, che si può considerare
un florilegio di
meditazioni sul rapporto ideale Diouomo,
comunica al lettore,
com’era forse nelle intenzioni
dell’Autore, un
grande senso di pace e la speranza di fruire
domani di un Aldilà
di luce.
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Recensione |
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