|
La prima impressione, leggendo le liriche di Francesca Luzzio, è che ci si trova di fronte ad una poesia che si caratterizza per il garbo ella pronuncia, per una sorta di gentilezza schiva e discreta dalla schiettezza tonale, che si affida ad un rapporto immediato tra il sentire e il dire, tra il mondo delle sensazioni interiori e dei pensieri e la loro resa in termini di poesia. E' una trasposizione lievemente cantata, forse talora appena sussurrata in un trattenuto ansito di canto, di una innata affabilità, di una mitezza di donna sensibile. Certo è incline alla incantata dolcezza delle sensazioni e delle impressioni fuggevoli o intrise di una segreta vena malinconica, fraternamente aperta alle risonanze del dolore oppure inquietamente ed accoratamente affettuosa entro il cerchio degli affetti familiari. Insomma sono ravvisabili tutte le risorse di un temperamento delicato che preferisce i dolci mezzitoni, le caute mezzetinte con una sorta di inclinazione quasi crepuscolare. Ma una lettura più avvertita e profonda ci porta a scoprire, al di là di questa prima impressione certamente pertinente, qualcosa di più. Al di là della vaghezza sensibile della poetessa, una profonda sollecitazione tematica che lega le singole strutture della sua poesia in una trama che un ben preciso raccordo funzionale con la piattaforma per così dire ideativa. E' una sorta di unitaria geografia di liriche sollecitazioni ed impressioni aventi una loro forza convincente.
C'è il desiderio di infinito, il desiderio e la voglia di librarsi in alto nel cielo, ma ci si ritrova senz'ali come un gabbiano ferito, appena appena sfiorato dal flutto del mare. E' voglia di libertà ideale. Il desiderio si fa amara constatazione. Infatti, canta la poetessa: che il suo cuore piange, langue, le ali sono tarpate. Eppure fuori è primavera con il soffio delicato dell'aria. Lei ha voglia di volare, sempre più in alto, per sentire il respiro di lui frusciare tra le sue ali, quasi ad abbracciare l'alitare puro su un'antenna alta, lontana nell'azzurro del cielo. Ma c'è l'amata constatazione del fluire indietro del tempo, di questo trapasso doloroso nel perenne divenire del mondo e dell'esistere, inarrestabile constatazione. C'è questa temperie paesistica prontamente reattiva e accordata radicalmente ed ancestralmente con il ritmo segreto ed alterno delle stagioni, del respiro occulto della terra e della vita in una dilatazione talora cosmica. Tutto è come scandito secondo un ritmo sentimentale, anche se c'è nella poetessa il desiderio di verità: vorrebbe poter comprendere l'infinito, cogliere il senso di una verità profonda, catturare l'assenza di tale verità e fattasi novello Prometeo tornare ad essere in grado di distribuire agli altri il senso vero ed autentico del divenire. E' quasi voglia di voler comprendere, catturare, far proprie insospettate verità enucleate attorno ad una realtà dello spirito che ci appartiene. La visione è quasi vicina ad una sorta di ontologia religiosa per usare un termine di natura filosofica, proprio in questo bisogno di superare il reale per porsi in una condizione altra, più vicina alla realtà dello spirito. Così proprio mentre la sera incalza con le sue ombre, la poetessa cerca l'alveare per poter sfuggire all'orca selvaggia nemica del bene che incalza anch'essa. Mille sono le difficoltà, tanti, infiniti gli ostacoli che impediscono di rimanere. Allora si spegne il lume e si resta rannicchiati nel calore di un sentimenti. Come si nota è presente lo stimolo assiduo di una ispirazione metafisica per cui dai dati sensibili e naturalistici degli spunti di esordio la visione della poetessa gradatamente spazia e trascende poi di colpo attraverso un lievitare segreto della sensibilità, verso slargamenti universali e cosmici, verso prospettive d'infinito. Così si avverte il mistero della nascita del mondo. Canta la poetessa:
Si avverte, attraverso la breve lirica, questa integrazione metafisica: il guadare dalla solitudine del fenomenico e del transuente alla sostanza universale dell'essere, nel caldo presagio di una misteriosa finalità della vita, il cui riferimento non può pertanto rinvenirsi fuori da Dio. Ma è nella tensione dialettica dell'esistere che si rinviene uno dei temi più sentiti dalla poetessa. Così "l'attesa" e la "disillusione" sono realtà biografiche. Ma alla radice c'è una voce segreta che obbedisce ad una sollecitazione di poetica interpretazione di un accadimento che è al centro della vicenda umana e delle sue ripercussioni sentimentali ha un'eco profonda. La realtà appare brulicante di avvenimenti non voluti e di sogni spezzati. Così l'angoscia del mattino pervade lo spirito dell'autrice. La vita è un "sudare dolori antichi mai sopiti", quasi a rigustare l'essenza dell'indifferenza, in un mondo e in una dimensione estraneante che ti fa lontana dagli altri, in una società dominata dalla incomunicabilità. Scrive la poetessa: "Ho telefonato – ho cercato – ma non ho potuto. Giammai potrò aprire un cuore, affidare ad un cavo". La stessa parola ha perduto lo spessore della significazione e della comunicazione e le parole si fanno bolle di sapone luccicanti al sole, quasi uno sfavillio momentaneo che non serve a cogliere il flusso incessante del cuore. Sono sprazzi soltanto di una realtà che si vorrebbe diversa, disegnate secondo un ritmo diverso. Allora si chiede la Luzzio: quale è il senso della vita? Forse sono frammenti di una verità profonda che ci appartiene. Insomma è come se mancasse qualcosa. Permane lo stato d'ansia, di attesa e di malinconia. E' l'airone ferito che penosamente cade sulla nuda terra, indifferente all'agonia dei suoi ultimi respiri. Allora una luce metaforica fa capolino tra le fitte nubi che inondano il cielo e sfiora il cuore dell'autrice: quella luce vorrebbe parlare d'amore. Ma c'è il desiderio d'evasione, di tentare cioè un viaggio verso l'assoluto. Allora attaccata alla liana dell'amore si immerge in quell'armonia senza fine, quasi al punto estremo dell'orizzonte, là dove il cielo sembra entrare quasi in osmosi con il mare. Il dato naturalistico si trasforma così in elemento fantastico in questo processo metaforico. La via si fa oscurità di nebbia, per cui la via impallidisce e tutto è come invaso da una cortina, mentre l'atmosfera si fa silenziosa. All'improvviso sale sale lentamente un fruscio d'ali. E' allora che fa capolino ed appare la speranza, timida, in punta di piedi a diradare la nebbia, a dare respiro al cuore, nitida nella sua essenza. Allora possiamo dire che la passione umana della Luzzio ha inflessioni di un'amarezza esplicita, ma al tempo stesso, composta, pensosamente vigilata. E si comunica a noi lettori in una spiegata malinconia, con questo suo canto elegiaco, che racchiude nelle sue pieghe un lungo meditare solitario. La autrice guarda ed osserva la realtà in cui ci si muove; viene così fuori l'altro aspetto della sua lirica, una Luzzio in cui la partecipazione alle vicende della vita e della società si assomma in un rapporto paritetico con l'interesse estetico. Non sono molte le liriche che affrontano la tematica sociale, ma queste ultime hanno una loro concisa presenza ed intonazione che non scade nel retorico e nel pleonastico. Bisognerebbe leggere a p. 37: "Osservando Palermo" o p. 38 "Borgo Vecchio" o p. 44 "La memoria di Giovanni Falcone" o la successiva dal titolo "mafia 92", dove la densità del pensiero si raccorda all'intensità del sentire. Ne viene fuori il profilo di una poetessa che affida al verso i modi, gli spunti, le situazioni, le occasioni e i suggerimenti di una sorta di parabole che si disegna e si ritma sui temi eterni del vivere: la pienezza e fioritira della stagione d'amore, il ripiegamento sull'intrico delle memorie, sulle ragioni della vita individuale, sul futuro, sul mondo circostante e sulla natura. Al di là dell'incanto, nell'aria lucidamente metallica della disillusione, la realtà si fa per la nostra autrice strumento esaltante di poesia, una poesia percorsa dalla dolcezza e dall'intenerimento in una delicata trama di rapporti affettivi. |
|
|