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(...) Veniero Scarselli, il “vecchio
capitano” del suo poema precedente (Ballata del vecchio capitano, Ibiskos
2002), dai gesti sempre più prosciugati e solenni, continua con questo poemetto
la sua linea di ricerca nella intensa e pervicace esplorazione dell’universo,
mai sazio di conoscenza, confermata dalle ormai tante altre sue prove edite agli
antipodi della dominante tendenza post-crepuscolare della lirica italiana
contemporanea, e dal suo ritmo poematico di straordinaria originalità alimentata
da un inesausto bisogno d’amore.
Ma il risultato primo dell’operazione
poetica di Veniero Scarselli, che data ormai dal 1988, è invero quello di
recuperare la letterarietà della lingua, riallacciarsi al filone del grande
Umanesimo per ricostruire il linguaggio letterario, riaffermare la letterarietà
dell’italiano, poiché – come ama ribadire – “è dal principio del secolo
ventesimo che i poeti giocano con la lingua e ora sarebbe il momento di non
scherzarci più”. La sua poesia infatti riconquista la struttura della lingua
colpevolmente scompaginata dalle cosiddette “avanguardie”, e la riconquista nel
modo più autenticamente italiano ridandole quel vigore che da tempo mancava.
Dice Giancarlo Oli in una tavola rotonda del 1994 a Palermo sul recupero della
tradizione linguistica operato appunto da Scarselli: “Il fatto che Veniero
Scarselli (...) ci sia riuscito mi rende molto fiducioso. Per questo noi tutti,
e in particolare i siciliani e i fiorentini, dovremmo molta gratitudine e molo
plauso a Veniero Scarselli”.
La sua migliore poesia è nella sua
poetica, come affermava Giancarlo Oli, una poetica robusta, provocatoria, più
volte dichiarata in note ed interviste e coerentemente applicata in un genere
che si richiama alla poesia epica. “Tentare di nuovo la poesia epica, scriveva
ancora Oli, non significa farsi il contraltare di questo o quel poema, di questo
o quel poeta; significa piuttosto riconferire alla poesia una voce che essa
sembrava aver perduto, un’esemplarità significativa anche sul piano morale, ma
soprattutto su quello della espressività e della persuasione, e quindi della
capacità di trascinare e commuovere”. Quasi tutti i suoi libri infatti sono
libri di poesia sconvolgenti, fondati sopra una rigorosa e sconsolata concezione
della realtà derivante da un profondo travaglio di meditazione.
In quest’ultimo libro egli utilizza
la natura poematica della sua scrittura per esprimere un’idea precisa della vita
che deve fare i conti con la morte, indagando in quel territorio desueto per la
nostra poesia che è la dimensione dell’Aldilà. Gli scrittori e poeti
contemporanei hanno infatti sempre ricercato un’idea di paradiso effimero,
oppure hanno indagato soprattutto la dimensione dell’inferno quotidiano come un
male che corrode e toglie senso alla nostra contemporaneità. Scarselli invece va
direttamente alla ricerca e alla scoperta di quella meta agognata, di quel sacro
luogo in cui riposare in pace, in una figurazione che ha un forte impatto etico.
Diletta Sposa è addirittura sconcertante per la serenità con cui il Poeta
affronta il tema della morte e come la evochi con tratti pacificanti. Tu che
sei la mia sposa diletta | e m’hai guidato con amore e saggezza | fra le luci e
gli orrori del mondo | sai che presto verrà il compimento | della lunga mia vita
corporale. | Ti ringrazio per averla protetta | in questo viaggio e resa tanto
felice | che ormai senza timore né rimpianti | mi posso apprestare a lasciarla,
| sazio di conoscenza e d’amore. In questa architettura poematica, il punto
nodale è salvaguardato dalla presenza costante di una aulicità che non mostra
mai la corda dell’imitazione letteraria, sorretta dall’intonazione ritmica e
dalle figurazioni che incalzano come in una lamentazione funeraria senza
sussulti, compattata intorno a un antico coro. Sembra di viaggiare in un
territorio dolce, rasserenante, che ad ogni momento rinvia all’ineluttabilità
dell’ultimo evento, con delicati passaggi di stupore e contenuta malinconia nel
riconoscere la Luce | cui devono tendere gli spiriti | che agognano a librarsi
leggeri | al di sopra della vita corporale. (...) Dovrai mia sposa
diletta | lasciarmi andare, | così come talvolta si lascia | in un oceano che
sembra pauroso | la mano d’un naufrago a noi caro | aggrappato a un effimero
relitto | ma che più non teme di soffrire | ed anela soltanto di tornare | nel
grembo profondo dell’Essere, | luminosa molecola fra le molecole.
Quella di Scarselli è una
poesia ideale, da ascoltare fra le rovine di un antico monastero diroccato o di
fronte ad una bella pala d’altare trecentesca col perfetto sottofondo di uno
Stabat Mater che contrappunti il latino aspro di Jacopone da Todi.
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Recensione |
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