|
Il numero duecentoventesimo della rivista “Silarus”, fondata e diretta per quarant’anni dal compianto Italo Rocco, reca un racconto di Banchini, racconto che poi tale non è, Il Quadro e la Collina. Ma allora, perché questa interessata attenzione a qualcosa di estremamente breve, tre pagine in tutto, di un testo difficile anche da classificare, quale genere letterario? Perché queste poche pagine memoriali, rivelano compiutamente la sostanziosa cultura dell’autore, la sua riflessiva sensibilità formale, il suo amore per la letteratura. “Strano – si legge nelle prime righe del testo in esame – il formarsi degli accostamenti di idee e di immagini, che avvenga per somiglianza o opposizione.” Certamente strano, ma vero; e questa nota, in fondo, ne rappresenta una conferma. Ancora un periodo più avanti, è dato leggere: “il declivio dolce del poggio”. “bianca casetta dal tetto rosso”, “un lungo viale di snelli cipressi”, “vaporando una nebbiolina luminosa”. Non sono versi quelli appena citati, ma frasi inserite nel contesto, con quella sua continua, personale ricerca nel voler saldare visionarietà e saggezza, attenta questa ricerca a misure e dismisure che riempiono le sue giornate e danno qualità alla vita dei suoi libri, tra i quali è impossibile non citare la continua scrittura e riscrittura della vita e delle opere di Romano Bilenchi. Bilenchi appunto, con quella sua misurata essenzialità e realismo esistenziale, tanto simili a quelli del suo biografo e commentatore. Un altro esempio, perciò, e più pregnante del richiamato formarsi degli accostamenti. Un volume si diceva, anzi due perché tali ne sono finora le stesure, che interroga e si interroga sulla storia dell’uomo e dello scrittore. Dove l’interrogazione su Bilenchi, non dista poi tanto da quella che Banchini, indirettamente, osa rivolgere alla sua storia personale. Ma tornando al racconto non-racconto, non si può non menzionare il periodo finale dove la sapidità, l’arguzia, la polemica tutta toscana di Banchini, vengono fuori dalle righe. “La vita, caro Montale, con tutto il suo scialo di triti fatti, è sì, spesso e purtroppo, crudele; mai vana.” Dall’intimo dello scrittore che ha a che fare con l’occasione minuta e quotidiana, erompe il grido, lo sguardo si accende e va avanti, verso la giusta indicazione di una sofferta certezza, quella che fa giustizia degli inutili snobismi di chi ha avuto una vita fin troppo facile, e aiuta gli uomini a vivere, con la capacità di forzare i limiti della storia e di mostrare un oltre. Dietro l’artista c’è sempre l’uomo, con la sua complessità di echi, sfumature, ricordi, paradigmi culturali, le sue ansie e le sue attese. Questa tensione esistenziale si placa (come annota Guido Miano citando Attese del 1995) nella “attesa paziente che il barlume divenga luce piena, che il passo lontano arrivi a farsi presenza, che l’idea informe faticosamente si vesta della definizione ultima. Che il mistero si riveli, e la rivelazione prenda dimora in noi”.
Pure in queste recenti limpide pagine di poetica, egli non si illude, ben conscio che tutto si è oramai conformato alla ragion pratica. Come afferma Cesare Viviani nella sua Voce inimitabile, il rapporto con l’oggetto ha invaso lo spazio umano e la scrittura poetica è minacciata nel suo legame con l’origine, anche se è la perdita che informa la scrittura poetica e non l’acquisizione, per quanto nella poesia non è l’elemento che vale, ma l’insieme, appunto quanto valore inequivocabile della necessità. Nella seconda poesia della raccolta, Banchini dice...
E, appena dopo
C’è in queste sospensioni, in questi vuoti che si vanno creando, in questa opacità, in questa luce bianca la presenza dell’indicibile, il raccoglimento e la tensione per ciò che dovrà avvenire. Nella prefazione al volume, Sandro Montalto scrive che il combattimento interno all’autore è quello fra un’anima sinceramente innamorata del reale, specchio e immagine del divino, è l’orrore del reale stesso, simultaneamente specchio di un annichilimento che pare ineluttabile. Muove da questo dilemma l’autenticità del poeta, per lievitare in una estensione tanto visionaria quanto dubitativa e usurante che non esclude la ruggine del tempo, ma innalza a categoria liturgica i gesti e la volontà dell’uomo e gli eventi della natura, per una circolarità di meraviglia e consentimento nell’accettazione dell’umano destino
Banchini non si sente fuori dalla storia, non si rifugia in uno spazio ludico che pure lo seduce, ma guarda e riflette sulle crude incognite della realtà
Dietro questa spinta compositiva impone ai suoi giorni una virata verso l’alto, ascolta gli inviti lontani, il grande respiro della vita che malgrado tutto, percuote il mondo. Si infittiscono le equivalenze implicite, continua ancora Montalto, che vedono come termine basilare la luce: “ancora vita, ancora luce”. “Tutto è luce stamani. Tutto è gioia”: la vita “s’irradia” come un potente getto di luce divina, anche se l’autore non rinuncia al suo vacillare perché si priverebbe della sua umanità. Avanza ogni giorno almeno di un passo, sempre alla ricerca di uno scampolo di verità, curando che non venga meno l’anelito della conoscenza e senza mutare il suo modo di rapportarsi con gli altri uomini e il mondo stesso. E intanto le parole che pronuncia non si annullano mai in puri suoni ma affina la sua maturità stilistica che non elude le domande fondamentali, ma non può offrire – com’è giusto che sia – una risposta definitiva. Come avviene per il protagonista del romanzo della Grande Sera, dell’indimenticabile Pontiggia, che nel negare la sua appartenenza al mondo finisce poi con l’attestare la propria fiducia nella vita, così la poesia di B., in questa sua tensione oscillatoria carica di inquietudine, ma altresì chiara nella sua essenzialità, trasparente e significante, si sottrae ad ogni angusto appagamento e prova sempre a rinnovarsi per costruire “in una chiarità ardente e compatta che tutto confonde e di tutto trionfa”.
Così Domenico Cara conclude la sua introduzione al medesimo libro: “Questa minuscola selezione segna, quindi, una valorizzazione del pensare in poesia, tra fantasmi anormali, quadri impropri del divenire, procedimenti che portano a possibili cadute in una vitalità autonoma e dentro cui si definisce il vuoto (e il suo disastro), dove s’affaccia un’interrogativa illusione: E chi sa che il mio corpo dagli umori | copiosi lentamente imputridendo | non si prolunghi in radici robuste, | pronto a risorgere in alberi e fiori, | in linfa e polline, gloria divina? (Le radici), fra l’esistere e il morire. [...] Dalla medesima conoscenza dell’essere (e in mezzo alle rovine degli accadimenti, di annunci pretestuali, comunque vincolati all’effimero), Ferdinando Banchini, i cui cenni e accenti non sono mai incomprensibili, ridisegna conflitti inscritti al centro di una codificabilità umana, qui innalzata a valore che ascolta le derive”. A sua volta Sandro Gros Pietro (in “Vernice”, n° 37/38 del dicembre 2007), dopo aver osservato che l’intenzione del titolo Luoghi è “di segnare non tanto delle fisicità paesaggistiche o urbane bene riconoscibili, ma invece delle stazioni della mente e, forse, ancora di più delle ipostasie, delle situazioni che restano ferme in se stesse, pur partecipando al continuo divenire che il flusso della vita e lo scorrere del tempo producono”, prosegue: “Banchini conferma la sua statura di poeta riflessivo orientato a valorizzare l’armonia e il decoro che animano la tradizione della nostra poesia. Non si confonda questo atteggiamento con il gusto passatista [...]: Banchini è pienamente poeta del Novecento – anzi, del Duemila – con la sua carica di stupore desolato per l’aridità grottesca e materialista dei tempi feroci in cui viviamo, è poeta del suo tempo, con il sentimento di disagio per l’esilio della cultura e della ragione dai lumi di orientamento del nostro secolo, guidato dalla febbre del denaro e dall’orgia dei piaceri; lo è per la cultura della vita sempre vissuta in controcanto all’ineluttabilità della morte; lo è nella scelta dei valori e delle emozioni autentiche e naturali; lo è nella ricognizione compiuta dal pensiero religioso sui perché irrisolti lasciati dalle tecniche e dalle scienze moderne”. E conclude: “la poesia di Banchini è sempre un esempio riuscito di quanto possa essere attuale e fecondo il controllo metrico del verso e il respiro ritmato della poesia: un esempio magistrale”. |
|
|