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“Rosso su rosso”:
l'enciclopedica imperscrutabilità di Liliana Ugolini
Vorrei partire, a mo’ d’introduzione, dal
sottotitolo ut fabula poesis e dalla sua precisa ascendenza letteraria.
Col passo ut pictura poesis (contenuto nell’epistola ai Pisoni meglio
nota come Ars poetica) da cui deriva la parafrasi del sottotitolo, Orazio
vuole intendere che, come nella pittura, esiste una poesia che piace
maggiormente se vista da vicino, cercandone la comprensione immediata, e
un’altra che piace se guardata da lontano, o rimuginata, o analizzata con un
occhio critico.
Liliana Ugolini ha scelto, con coerenza, di trasfigurare questo inciso alludendo
alla favola, su cui tornerò tra pochissimo; ma mi si consenta di usare il
riferimento pittorico alla bifocalità dello sguardo per partecipare la mia
visione della poesia dell’Autrice.
Liliana, cui sono legato da un’amicizia personale prima ancora che da una
comunanza del sentire su molti aspetti cruciali del “pianeta poesia”, ha un
concetto di poesia come lavoro (ama molto sottolineare questa identità), il cui
risultato è lontano anzi antitetico rispetto a un confortevole (per il lettore!)
semplicismo, sostanziandosi invece nel proporre uno strumentario espressivo
denso, che chiama con forza il lettore alla sfida, a gettarsi totalmente
nell’opera, senza risparmio.
Siamo dunque nell’ambito della poesia-pictura oraziana da rimirare da lontano,
da fare oggetto di attenzione e meditazione, da portare con sé a lungo: il
risultato sarà una meditata scoperta, una “meditata meraviglia”.
Ho avuto il piacere e l’onore di occuparmi anche
pubblicamente dell’arte di Liliana Ugolini e studiandola mi sono reso conto di
come questa complessità comportasse l’opportunità di tenere presente, per ogni
volume, anche il percorso che si snoda attraverso i volumi precedenti.
Credo che l’opera Ugoliniana, opera maestosa e quantomeno trentennale, sia
innervata su due tematiche caratteristiche, ben descritte dal titolo e dal
contenuto della sua silloge del 1999: Marionetteemiti (Esuvia, 1999).
Il volume Tuttoteatro, uscito nel 2007 a compendio dell’opera
poetico-performativa fino a quella data, e che appunto ebbi modo di presentare,
dà conto dell’utilizzo dei personaggi del Mito – un utilizzo personalissimo e
vicino a ciò che fece Pavese nei Dialoghi con Leucò, cioè incline alla
manipolazione della lectio ufficiale per far sì che il Mito si pieghi
alla nostra urgenza narrativa.
Nella recentissima fatica di cui ci occupiamo ora (Gioco d’ombre sul
sipario, 2010, Cierre Edizioni), invece, ritrovo soprattutto il
dipanarsi della riflessione sul tema della Rappresentazione e del suo valore
intrinseco, tema recentemente sviscerato in un’opera importante quale la favola
Delle marionette dei burattini e del burattinaio (Genesi, 2007 – la
chiamerò più avanti col suo sottotitolo Rilettura fantastica del teatrino),
ma ripreso in Gioco d’ombre con grande effervescenza. Non inganni l’aver
qui a che fare con personaggi e non marionette: in realtà i fili sono ben
presenti sin dall’inizio, sottoposti al capriccio del mimo.
Ut fabula poesis,
allora: la poesia come favola, con un senso tradizionale e originario (nel senso
che non lo leggo alla maniera dei formalisti russi, cioè come fabula
crono-logicamente contrapposta all’intreccio) ma nondimeno molto espanso: non
caso Liliana parla – proprio nell’introduzione alla Rilettura fantastica del
teatrino – di fiabola, neologismo che allaccia in sé i termini
fiaba e parabola. La fiaba, ricca di elementi fantastici, si unisce
alla parabola che è una rappresentazione paradigmatica e forse addirittura
teoretica (cioè relativa alla struttura fondamentale della realtà e del processo
di conoscenza).
Di questo si tratta: ci troviamo ad assistere alla rappresentazione ciclica
(perché, come sarà chiaro alla fine, ogni rappresentazione sostanzia un’era) di
un cosmo la cui restituzione artistica (poetica e scenica) può essere
contemplata sia come rivelazione sia come fantasticheria.
Rivelazione che però, va detto subito, è a mio
avviso non-rivelazione. Questa impostazione generale, lungi da voler
ergersi a critica della ragion pura, vuole insinuare infatti un diffuso senso di
indeterminatezza. L’esergo di Guido Ceronetti che spesso Liliana cita nelle sue
opere a prefazione (Rilettura fantastica del teatrino) o all’interno (Marionetteemiti)
dei suoi testi dà conto dell’atteggiamento umano:
Siamo marionette ma
dobbiamo disperatamente fingere di non esserlo o come uomini siamo perduti.
Inoltre, essendo occulto il filo, si può sempre scommettere che non ci sia, e
fondare su questo la libertà individuale, nostra grazia ed erinni.
Finzione, occultamento, scommessa, carattere
ancipite della libertà: il gioco d’ombre è il gioco dell’incertezza, del
piede sul terreno malcerto. Di che colore del resto è il sipario che si apre a
p. 8?
Rosso su rosso il sipario
si aprì
…potrebbe ben essere il velo di Maya di
schopenaueriana memoria che ci separa dalla conoscenza: velo che vuol
gentilmente farsi da parte per permetterci di comprendere qualcosa giusto per lo
spazio di una rappresentazione, oppure velo che c’irride scostandosi e
mostrandoci come il fondale sia dello stesso colore!
Va rilevato anche come Liliana non si sottragga, come Autrice, a questo di-lemma
teoretico, entri completamente nel gioco, appaia insomma pienamente umana, si
doti di fili e dunque neghi (o cessi) di essere mimo o peggio artefice, si
professi sfornita di verità, sgambettante e consapevole – questo sì – della
vanità di ogni conseguimento. In questo senso sarei refrattario a cercare
identificazioni – se non effimere – tra l’Autrice e certi personaggi come il
mimo o l’artefice: entrambi questi ultimi, del resto, possono essere avvicinati
almeno in parte a quel Burattinaio che, nella Rilettura del teatrino, nasce
“dall’allungamento del mistero”…
Leggiamo in La scena (p. 23) la parte
endecasillabica:
Memoria e tempo formarono
la scena dove imparo la parte mai imparata. Sgambetto dal mio filo e il palco si fa scuro. Di parole ho mente e bocca piena e non mi serviranno per capire. L’inchino è riservato a quel Supremo che il sipario m’aprì per la Commedia.
Quando dalle linee portanti ci addentriamo nel
particolare, ecco che il gioco dell’incertezza si ripercuote nella
microstruttura, nel dettaglio, e, attraverso la ricerca, diventa ventaglio –
tavolozza, offerta alluvionale e quasi enciclopedica, tendenzialmente
omnicomprensiva.
La fiabola, per la sua natura proteiforme, bulimica, ha l’attitudine che fu di
Orfeo di esaltare liricamente tutto ciò che incontra, di farlo cantare.
Se leggiamo la teoria dei personaggi che sta a
p.38 notiamo infatti persone, animali, arti, elementi naturali, filastrocche,
pianeti, numeri, colori, un soprano lirico: la realtà, tutta la realtà,
confluisce sul palcoscenico con pari dignità. La stessa scena che abbiamo
letto in parte poc’anzi, “scena”, quindi elemento architettonico oppure
dinamico, diviene personaggio che va in scena.
In pratica tutta la realtà è la testimonianza vivente di se stessa: questo mi
piace e mi affascina con particolare (forse interessato) riferimento agli
elementi culturali della musica e della pittura. Liliana vuole ribadire, se ce
ne fosse bisogno, che poetare su un dato culturale non è artefazione,
mistificazione, erudizione o quella che spesso viene chiamata ekphràsis in modo
elegantemente discriminatorio, quasi a distinguerla da una poesia vera.
Le due ouvertures, la tela di Chagall, 14 pezzi lirici di Grieg
trasfigurati in scintille poetiche a mo’ di interludio, il tutto coerentemente
disposto lungo la rappresentazione, sono terreno fertile da inseminare
ulteriormente – “vitale congiungersi alla lirica di luce repressa”, come scrive
Liliana a p. 34 in commistione (uso questo termine che in giuridichese allude al
confondersi di materia con materia, quindi se vogliamo anche di materia poetica
con materia musicale) con l’opus 43 di Grieg.
Ricchezza enciclopedica di personaggi cui fa
riscontro anche una ricchezza formale, stilistica: l’alternarsi, in seno alla
raccolta tra prosa e poesia. Una bipartizione che in realtà è tripartizione,
prendendo volta per volta la prosa forma di sceneggiatura o racconto fantastico
e brevissimo; ad essa fa da contrappunto la scrittura poetica, resa quasi sempre
in corsivo, dove l’espressione vola veramente alto.
Inoltre la ricchezza di personaggi si
ripercuote in una ricchezza nei personaggi, ricerca della
gradazione, della sfumatura, talora dell’opposto; di una faccia nascosta della
luna.
La galleria ci mostra per esempio personaggi che compiono un’azione scostata o
antitetica alla loro “qualità naturale o culturale”: Un mimo narrante (forse l’Autrice, forse
no, forse sì e no) che “racconta la solita storia, quella che tutti i
poeti raccontano” (tra l’altro giocando con personaggi e fili e “tenendo in mano
una palla nera” che, per inciso, assomiglia alla “bolla opale” che nella
Rilettura fantastica del teatrino è il burattinaio creato ad libitum
dalle stesse marionette) e che nel finale chiosa il tutto con parole che
accompagnano il buio;
un re còlto non già nell’azione del regere – che etimologicamente lo
connota – bensì in quella del ruere, del rovinare, attraverso la
citazione del Riccardo III shakesperariano cui fa seguito una lirica potente
dedicata proprio al quadrupede (p. 12);
nella prosa Il circo (p. 24) un clown che “interviene con grazia ma non
c’è”. E all’opposto
un artefice che doveva – all’imperfetto – comparire (p. 38: “l’artefice
doveva comparire, la regia doveva esserci”) e che quindi spiazza, lasciandola
ansiosa, la sua stessa creazione.
Un cenno speciale lo merita proprio questa
figura dell’artefice paradigmaticamente considerata. Essa serpeggia durante il
libro attraverso la sua attesa: assenza che si atteggia a presenza indovinata o
postulata. Bellamente l’artefice trasmuta, al centro del volume, in
un’immagine-forza che è quella del cielo azzurro nel racconto Gli occhi
(p. 16): un cielo azzurro oltre le spesse e gravide nubi, in rapporto
all’esistenza del quale la convinzione si alterna alla sfiducia, ciò che rende
gli uomini orfani, frenetici, angosciati. Questa è in sostanza la commedia
umana, con un punto di ritorno ciclico nuovamente dalla sfiducia alla
convinzione quando Liliana – come abbiamo visto – si inchina a un Supremo che
l’ha proiettata nella commedia appunto. Siamo in uno scenario sofocleo, di
imperscrutabilità del superiore, e questo dà luogo a diversi e alternati stati
d’animo.
Eppure in questo non liquet conoscitivo, che in sostanza ripete il gioco
del “rosso su rosso”, una speranza esiste, e nei due quadri, sia per il giorno
di pioggia che per la conclusione della rappresentazione, passa attraverso gli
occhi di un bambino. Come nel finale di 2001: Odissea nello spazio, il
limite alla conoscibilità delle cause prime dell’universo, proprio nel momento
della disgregazione morale degli uomini-ladri d’acqua o fisica dei personaggi
sul finale, tracima nel rinnovamento ciclico della vita… nel C’era una volta
e c’è che è esso stesso personaggio… e dunque, entro questa ininterrotta
attesa, nel prolungamento della scommessa-inchino, sia essa al Supremo, alla
Tyche o ad ogni principio che ad ogni Era faccia seguire un’altra Era.
Avviandomi alla conclusione credo di avere
dimostrato sulla mia pelle, con questa rimuginazione assolutamente soggettiva,
come la poesis di Liliana possa veramente catalizzare le rotelle del
lettore, come lo porti a interrogare e interrogarsi, e come sia piacevolmente
ricca su più piani – l’impianto, lo stile, la galleria dei personaggi e delle
loro qualità.
Resta da parte mia il considerare la finezza delle gemme che in questa
esplorazione incontreremo, cioè considerare come la qualità lirica (la purezza,
i carati della poetica) sia perfettamente all’altezza delle migliori prove di
Liliana, cioè dal mio punto di vista, il trittico Imperdonate – Palcoscenico
– Cuscus e soprattutto la prima versione di Marionetteemiti, quella
appunto del 1999. Oltre a innescare congetture, Gioco d’ombre è anche e
direi soprattutto un testo nitido e caratterizzato dalla stessa felicità lirica,
ove la parola fluisce potente negli spazi via via angusti o infiniti a lei
destinati. Quindi in Gioco d’ombre ravviso non solo un libro-carburante
per le nostre speculazioni, ma anche un libro di poesia autentica e sapida,
giovandosi anche di due preziose traduzioni-finestra in rumeno e spagnolo.
Il modo migliore per rimarcare ciò è chiudere con la lirica che mi è più
piaciuta, una miniatura dove oltretutto torna a pieno il gioco di ossimori,
opposti, rifrazioni, che pervade tutto il libro (p. 14):
Cielo sommovimento ossimoro di mare che risale cascata falda fede di sé scintilla di cadenza interrogazione rifrazione corrente l’invisibile iniziazione
(trascrizione
riveduta di una presentazione al pubblico
tenuta il 15 marzo 2011
presso la
Biblioteca delle Oblate in Firenze)
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Recensione |
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