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in: Quaderni antologici - 1

Poetica e poesia nel testo di Guglielmo Peralta non si contraddicono, ché la prima si scioglie nella seconda, in una parola che apre «l’ale» al volo di una libertà non astratta, fuori cioè la realtà del poeta, ma è sempre inscritta in essa che egli sente in sé nascere e crescere nella dimensione interiore dello spirito e allargarsi oltre i confini del mondo, oltre quelle «cose» che non lo catturano alla loro finitezza, ma lo attraggono al mistero della loro presenza ab aeterno sulla terra che ne trascende la materialità nel significato del nome. Di esso infatti è veicolo il loro linguaggio che l’uomo interpreta oltre e, forse anche, al di sopra dello scienziato, del filosofo, del teologo quando si ritrova soltanto poeta. In un tale processo la «parola» diventa logos e il poeta l’artefice del suo universo che nasce e vive in essa e per essa. Seguire il farsi della parole è come assistere al miracolo della genesi delle cose stesse come dire del mondo, nel quale il poeta acquista la sua libertà creatrice che gli «ditta dentro» la forma interiore dell’arte: “ e quando l’avremo liberata | sull’ultimo esile filo | essa rivelerà a noi | il suo segreto” (Angelus novus).

La polemica che dà tensione alla lirica si scioglie nell’immagine dell’«esile filo» che libera la parola dalla sonorità turgida cui l’aveva consegnata G. D’Annunzio, nonché dalla pesantezza intellettuale ungarettiana e dalla scarnificazione metafisica montaliana. Guglielmo Peralta, che ne avverte il fascino, cerca dentro di sé la «forma» nei moti del core che la fantasia assume nell’atmosfera rarefatta del sogno. Nel sogno egli vive la sua vita, non nelle nuvole della sua irrealtà, ma nella parola che lo significa e lo restituisce alla realtà dello spirito che è più vera della realtà delle cose che mutano aspetto nello spazio e nel tempo che le consumano. Nasce di qui l’itinerario ritmico di una poesia che si dipana sul percorso terreno in cui è possibile, a chi è nato, di rinascere sotto un cielo che apra «i suoi lembi | …sull’umana volta | …contro la culla vuota di Eraclito», nella speranza che tutti parlino la stessa lingua, quella del sole, cioè quella del «fondamento che natura pone» alla nascita stesso dell’universo. In cui ipotesi e desideri riversano la tensione stessa dei vari linguaggi artistici della poesia, della pittura, della scultura, ecc., nell’unico linguaggio poetico, nel quale tutti s’incontrano come alle origini di una sinestesia che non è di parole, ma di cose che passano per le mani sapienti di vita dell’artista, quasi inumane, aliene, mentre anche sporche di terra e di colori, si snodano verso altre vite. È la spinta vitale che parte dal polso, le percorre come il vento passa nell’erba, ravvivandone la linfa: “Forse si rinnova | nell’immobile volo dell’uccello | l’oscura trasparenza della parola” (All’amico pittore).

Così, all’amico scultore egli chiede la parola di selce che, nell’artista, ha mani che operano silenziosamente a raccontare e ad affondare “nella vigorosa materia | che le lega all’evento” (All’amico scultore).

L’evento è il miracolo della creazione dell’uomo attraverso il giuoco magico delle mani che, anche per la scrittura, si affida al mezzo fisico della penna che il poeta evoca al suo primo servizio nella «piuma di uccello», e che egli ora rivede “andar vaga di stelle | tra il sogno che trascrivi | ed il risveglio | che quasi per incanto ti sorprende | a decifrare | in improvviso volo il mondo” (Alla penna).

La lirica, dedicata alla penna, forse la più bella della raccolta, ma sicuramente bella, celebra il miracolo della parola vivente, del suo mistero chiuso e parvente nelle cose che essa crea e di cui il poeta si serve per dar corpo al suo sogno.
Il processo liberatorio della parola così si svolge nella metamorfosi del reale naturale nel reale fantastico che lo spinge a inventarsi parole sue, come soaltà che include, costitutivamente, una realtà, sogno-visione, tutta sua; e a «liberare» le stesse parole dalla geometria della grafia tradizionale, per scomporne le sillabe al disegno di linee rette o inclinate. Le parole ora sono cose, ognuna è cosa del cosmo e, “dopo lunghi silenzi | l’uomo apprende il suo Canto…e parla| Ed è parola il Cosmo che si svela!” (In volo di gabbiano).

Ancora le cose, che rivelano all’uomo il significato segreto del loro essere, a cui accede la coscienza per ritrovarsi ‹‹essere mondo››, nel “familiare linguaggio orizzontale” che ne abbracci lo smisurato perimetro, per sentirci capaci di rompere i lunghi silenzi del Cosmo, grazie alla parola del poeta. Emblematica di codesta esigenza esistenziale “a decifrare, in improvviso volo, il mondo”, è la lirica “Le cose”, in cui, sul fondale del proprio idioma il poeta avverte, come per se stesse mosse, emergere parole varie di altri popoli, a formare un impasto linguistico che la loro «coseità» converte nella soaltà di un mondo umano senza frontiere, cioè senza più quella “sottile palpebra” che “s’interpone | tra le mani che scrivono | e le mani che scolpiscono”(All’amico scultore), cioè tra l’universo di Dio e il «libro» dell’uomo.

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