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All'alba di un giorno qualunque

Ho letto con piacere e interesse il recente romanzo della scrittrice napoletana Anna Gertrude Pessina, dedicato al fratello Vincenzo, definito “un Ariele dei nostri tempi di disvalori e disamore”. Già nella ponderazione della mole del libro nasce la convinzione che in esso si celi non poca sostanza energetica atta ad illuminare la mente del lettore, oltre  a folate di sapienza quali aspettative in presenza di una firma così nota in ambito letterario.

Duecentosessantotto pagine per narrare la vicenda di padre-madre di Ariele; vicenda umana, dentro una cornice storico-ambientale dominata dai valori negativi, propri della società del benessere, della frivolezza, del consumismo, dell’usa e getta.

L’autrice, già nella dedica del libro, fa intendere che l’espressione  di ciceroniana memoria “mala tempora currunt” si addice benissimo alla nostra epoca,  in cui i peggiori istinti allignano e si fanno strada quasi con allegria carnevalesca dentro il fragile tessuto dell’individualità ricettiva di vangeli falsi e adulterati, stimolatori  di egoismi e perverse passioni. I buoni sentimenti e la ragione sono categorie d’altri tempi: fanno parte delle anticaglie sepolte nei cimiteri della modernità, sparsi ovunque e in abbondanza sul pianeta Terra.

Anna Gertrude Pessina non è nuova a queste analisi capillari della società moderna che stende la sua ombra tetra e malefica fin dentro i più remoti nidi familiari attraverso una fitta rete di mezzi  definibili “informativi”, di pressione, persuasione,  ma non certo formativi. L’educazione che puntava alla formazione del “carattere”  della persona,  con i suoi corollari  volti a sfrondare il temperamento degli aspetti negativi innati e a dotare la personalità di elevate qualità morali,  pare sia  un residuo (vivo nei ricordi di pochi) di un vecchio idealismo pedagogico relegato nel museo delle esperienze umane cadute in disuso.   La scrittrice napoletana ci dà un saggio robusto e veritiero di una decadenza in forte accelerazione che investe e mina dalle fondamenta tutti i pilastri su cui si regge una società civile, ordinata, disciplinata, moralmente sana, culturalmente avanzata ed economicamente stabile.

Tutta la vicenda,  in un crescendo di  drammaticità ed esplosioni di odi, rancori, vessazioni e meschinità verso un uomo segnato dalla sfortuna, si focalizza intorno alla nobile figura di Ariele, “biunivoco connubio di padre e madre assente”,  fatto, a torto, oggetto di incomprensioni e angherie d’ogni sorta, nella ferma volontà dei suoi aguzzini di distruggere, con lui,  gli atavici valori che presiedono all’unità della famiglia e alla convivenza civile.  Sui pioli della scala dei  principi etici rovesciati  e calpestati  sono saldamente arroccati il cinismo, l’individualismo, l’egoismo, la spregiudicatezza,  la scaltrezza, la frode, la corruzione: le armi affilate per  il raggiungimento del  successo, il trionfo della vita effimera e godereccia, la soddisfazione delle pulsioni sessuali… Senza mezzi termini, la nostra scrittrice  incornicia la florida e godereccia gioventù del Duemila dentro una condizione di disumana civiltà, votata all’edonismo, al consumismo, alla concupiscenza, al materialismo di copulazioni senza romanticismo; prototipo di questa gioventù  smaliziata e arrivista è Max, il “bulletto” romano, un gradasso stimolato da “libidine erotica”.

Rigoroso esempio di studio sociologico che indaga sulle cause e gli effetti di una volgarizzazione epocale che investe un vasta gamma di comportamenti sociali, il libro della Pessina guida il lettore dentro le ragioni marcescenti di una generazione allo sbando, “gelida d’amore”, pullulante di individui “fragili, cinici, vanagloriosi e imbelli”,  destinati, alla prima occasione impegnativa, a franare “come torrioni di sabbia”.

Nella strutturazione di questo solido romanzo, che si ispira ad una concezione multidisciplinare del linguaggio, l’autrice ha dato ancora una superba prova di possedere un patrimonio lessicale in esubero, quanto mai vasto e vario, in cui i vari livelli del linguaggio sono rapportati alla personalità, alla levatura mentale del personaggio entrato in scena; … ma è  anche una ulteriore conferma di uno stile fondato sulle stratificazioni piramidali di una cultura generale di ampie proporzioni, che include cognizioni derivate dai più svariati campi delle scienze umane: antropologia, pedagogia, psicologia, sociologia, filosofia; a questi capisaldi del sapere umano, la Pessina aggiunge un poderoso accumulo di lingua e cultura latina, italiana e straniera.

Padrona del linguaggio e delle tecniche espositive più aggiornate, non trova difficoltà ad articolare e equilibrare le sue opere in sequenze narrative, descrittive, riflessive, dialogate; a incorniciare gli eventi entro un quadro storico-epocale flessibile, con il ricorso frequente all’analessi affinché l’anamnesi dei personaggi principali sia la più completa possibile.

Altra caratteristica non trascurabile che determina la spinta innovativa di questa autrice  è l’uso frequente di termini poco noti, a volte non comuni o addirittura arcaici, in ossequio ad una convinzione che la ricchezza di una lingua è patrimonio di tutti e tutti la possono approfondire, conoscere e utilizzare nei suoi significati primari e secondati, con preferenza denotativa o connotativa, in funzione metaforica o nella sua esatta dimensione linguistica; questa palese predilezione per categorie lessicali meno consolidate e quindi meno sfruttate dai narratori contemporanei, è indice di un personale approccio ad una scrittura in metamorfosi nei suoi rapporti con il mondo della realtà e delle vicende umane. Segnale positivo di un’esperienza artistica che si avvale dei più dinamici processi della razionalizzazione linguistica.

Il crudo realismo con cui caratterizza luoghi, ambienti, personaggi e dialoghi; la partecipazione interiore dell’autrice, cioè la empatia con cui si rapporta psicologicamente ad Ariele, il grande sconfitto della vicenda narrata; la condanna e la punizione di coloro che hanno volutamente decretata la sua rovina, indicano nell’autrice una persona profondamente informata dei fatti, testimone a distanza, ma non tanto, di una probabile vicissitudine collaterale o similare a quella narrata.

Un plauso, dunque, a questa scrittrice che sa farsi apprezzare per la sua profonda cultura e la sensibilità tutta meridionale, “mastriana”, con cui cristallizza sulla carta quelle tragedie umane in cui vengono proposti e affrontati “scientificamente” situazioni estreme, in cui la società, il gruppo sociale, la famiglia, sono coinvolti e tesi a difendere, far valere o imporre le proprie ragioni, i propri interessi, la propria visione della vita e del mondo. La mirabile messa in scena di una vicenda radicata in un’epoca, cosi caotica e controversa, la nostra, che va dalla Seconda guerra mondiale al primo decennio del Duemila, ha il pregio di saper relazionare realisticamente una vicenda familiare al tessuto storico, sociale, economico e di costume di dimensione nazionale. E non è poco.

Recensione
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