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Si ha sempre da imparare. E i migliori maestri sono coloro che per disposizioni innate, passione per l’arte, preparazione, esperienza e sensibilità umana hanno acquisito quel grado di saggezza che permette di rivolgersi al pubblico con l’affabilità e la sincerità degli educatori di professione ispirati da alti ideali e portatori di valori universali. Emerico Giachery è stato e rimane un educatore. Anche ora che potrebbe godere i frutti del suo stato di cittadino libero da impegni istituzionali, non viene meno al suo antico dovere morale di vivere la vita in rapporto intenso e costante con la società, con lo studio, con la cultura. Dopo il recente Vivere poeticamente la Terra (Carpena Edizioni - Lugano, 2007), ecco un nuovo saggio della sua felice disposizione a esercitare l’attività comunicativa a fini divulgativi e didattici.
Entrando nel merito della prima parte, l’autore manifesta il suo intento fin dalle prime battute, quando afferma di voler dissertare “concretamente sull’inter-dipendenza tra atto ermeneutico e lettura a voce alta di un testo poetico”. E per dare forma al suo “intento pratico” sceglie Ungaretti, uno dei “Dioscuri della poesia del Novecento”. Partendo dal presupposto che vi è netta differenza tra “oralità e vocalità”, intesa la prima come emissione di suono funzionale alla formazione del linguaggio e la seconda come caratteristica dell’intonazione verbale nei “valori propri della voce prescindendo dal linguaggio”, Giachery affronta un argomento poco approfondito e scarsamente praticato dai lettori di poesie: la giusta “interpretazione vocale della poesia come momento di sintesi e punto d’arrivo del processo interpretativo”. E non gli si può dare torto allorché lamenta come spesso, troppo spesso, la poesia viene letta o recitata senza tenere in alcun debito conto gli aspetti fonetici: l’intonazione, l’accento, il ritmo, il livello vocale, venendo così a mancare sia l’importanza dell’espressione che quella del significante. Va anche precisato che Giachery parla di “poesia” e non di “componimenti in versi” di cui è così ricca e invadente la nostra tradizione letteraria, in particolare quella che si riferisce agli ultimi cinque o sei decenni. Il componimento in versi, dall’andamento inespressivo e prosastico è così vicino agli “articoli di un regolamento condominiale” che nessuna intonazione vocale, nessuna lettura, nessuna interpretazione “magistrale” può dare il calore, il sapore, l’emozione, il turbamento e spunti di riflessione come una poesia, in cui sono sempre ravvisabili una funzione semantico/espressiva e i segni dell’arte e della spiritualità. Nel componimento in versi predominano il registro informale, la discorsività, la funzione comunicativa, ossia la verbalizzazione di un evento, di una osservazione, di un pensiero, che lascia pochissimo spazio alle intonazioni e variazioni della voce. La lettura ad alta voce, fatta con “raccoglimento e misura”, permette di valutare la musicalità del testo poetico e di cogliere le diverse sfumature degli aspetti fonici, le pause, le sospensioni, i silenzi, le differenze espressive degli elementi lessicali, come di una stessa parola in posizioni e contesti diversi. Nasce quindi nel lettore l’impegno a porsi di fronte al testo poetico non solo con l’intento di decifrare e comunicare con appropriata dizione, ma anche di rendere partecipi gli ascoltatori della propria tensione emotiva. Anche la gestualizzazione può avere il suo peso, purché non sia troppo accentuata, ma fatta con discrezione: “anche nel turbine della passione” il recitante deve “acquistare e generare una temperanza che dia ad essa morbidezza” (Shakespeare, Amleto, atto III, scena seconda). “Chi legge un testo poetico – scrive Giachery – dovrebbe essere insieme dicitore e regista-critico di se stesso”, dal momento che “critica e lettura convergono”. Non pochi poeti hanno letto in pubblico i propri testi poetici e di alcuni di essi esistono registrazioni su dischi, in videocassette e audiocassette. È il caso di Ungaretti che “non è stato certo avaro di letture dei propri versi alla radio e alla televisione”. In queste letture è tuttavia ravvisabile “una dose di schietto e generoso istrionismo”, di cui non sono esenti nemmeno “i grandi attori del passato, da Ermete Zacconi a Ruggero Ruggeri, da Memo Benassi a Emma Grammatica, da Annibale Ninchi a Renzo Ricci”. Insomma, “un pizzico di stregoneria a volte è utile”, sia al poeta recitante sia al critico letterario. A dimostrazione che “critica e lettura convergono”, Giachery propone la lettura, e l’immancabile interpretazione, di “O notte”, testo che apre “Sentimento del tempo, secondo libro di Vita di un uomo”. È questa “una poesia di struttura particolare – scrive il critico – come sospesa tra evocare e invocare, in cui in ogni momento ha una sua relativa compiutezza e pienezza, è un grumo intenso, che poi si collega ad altri grumi per fili d’impalpabili richiami ed echi che attraversano i vuoti intermedi”. E l’interpretazione prosegue mettendo in evidenza il senso dei singoli versi o strofe, la densità evocativa del significante, per cui “la parola si carica di tensione, si condensa spesso in caratteristici nuclei vocativo-appositivi”. E veniamo alle “altre occasioni”, cioè alle “riflessioni di un vecchio interprete di poesia” e alla “intervista lasciata a Fulvio Castellani”. Riguardo alle riflessioni c’è da dire che l’autore ha una propensione, per così dire, innata, che mette a frutto in quella particolare attività che gli “calza come un guanto”: l’interpretazione dei testi letterari. Credo, però, che la qualifica di “interprete” che si è ritagliata e con ostinazione conferma ad ogni occasione, nasconda una forma di umiltà, ma anche di fedeltà all’impegno originario assunto verso se stesso e verso l’universo letterario. Però, chi ha letto Abitare poeticamente la Terra si è ben reso conto della statura di scrittore, di studioso, di pensatore, di “poeta” che si cela dentro quegli abiti di umanista con cui si presenta ai suoi lettori. Io spezzo una lancia in omaggio a questo appassionato “cultore della parola”, che sa, con tanta proprietà e perfezione di linguaggio, verticalizzare il discorso, renderlo aereo, musicale, utilizzando con misurata armonia un ricco e vasto serbatoio di materiale linguistico. Non gli è certo ignota la grande lezione di Marcel Proust, la sua appassionata ricerca del tempo perduto, che costituisce la sua eccezionale esperienza memoriale, attraverso la quale dimostra che il tempo è recuperabile, e in quest’opera di recupero l’uomo (lo scrittore, il poeta, l’artista) pone le basi della sua immortalità. Abitare poeticamente la Terra è un’esperienza memoriale che fa onore al suo autore, alla sua prodigiosa e profonda cultura. Da buon lettore, non posso fare a meno di provare un senso di diffuso piacere dinanzi a una bella pagina, sorretta da uno stile fluido, elegante, pertinente al discorso, in cui la parola, il sintagma, la frase, il periodo si caricano di valori e di significati, umani, anzitutto. E non posso nascondere che la scrittura di Giachery mi ha profondamente impressionato e stimolato a seguirlo in queste due ultime prove, così ricche di momenti riflessivi e di recuperi memoriali. Nel volumetto di cui qui si tratta, in dieci pagine di “riflessioni”, ci dà la misura delle sue non superficiali conoscenze degli strumenti di penetrazione psicologica, filologica ed estetica di testi altrui e la non comune familiarità con opere di autori ampiamente antologizzati e storicizzati (Dante, Leopardi, Montale, Ungaretti…). Non meno interessante la sua intervista rilasciata a Fulvio Castellani, in cui egli, in primo luogo, ribadisce il valore, la dignità e la qualità dell’interpretazione letteraria, niente affatto inferiore all’arte del narratore e del poeta. Anzi, “un buon critico, o interprete, è più raro di un buon narratore o di un buon poeta” e la sua attività “riserva aperti e variati orizzonti, consente feconde ondate di memoria, ‘spazi creativi’. Aiuta a capire la vita e la storia di noi stessi, a individuare collegamenti, rapporti”. Un buon critico nell’affrontare la disanima testuale finalizzata a rendere edotto il pubblico del lavoro svolto, del messaggio e delle indicazioni strutturali, formali e gnoseologiche recepiti “deve avere potenzialmente molte anime”, “capacità di stupirsi”, entusiasmo, amore per la verità, maturità intellettuale e “gioia di comunicare”. Alla domanda “Cosa l’ha colpita di più leggendo e interpretando la poesia di Ungaretti e Montale?”, Giachery si dichiara entusiasta di entrambi gli autori, anche se Ungaretti gli è più congeniale, perché sente di avere in comune con il poeta “i connotati della stirpe di Orfeo”. Questo riferimento al vate della Troade, figlio di Calliope, che col suono della sua lira muoveva alberi e rupi, ammansiva le fiere e commuoveva anche le divinità infernali, fino indurle a restituirgli la moglie Euridice, morta per il morso di un serpente, conferma la mia tesi che Giachery, nella profondità del suo essere, è un poeta. E non aveva forse l’anima del poeta il grande critico Francesco De Sanctis quando scriveva le sue più belle pagine in qualità di “interprete” della Divina Commedia? L’esperienza mi ha insegnato che la poesia non è un fatto di forma “esteriore”, ma una caratteristica specifica dell’animo umano e può benissimo trovarsi in trattati di filosofia, di pedagogia, di scienza, in libri di storia, favole, lettere, diari, biografie e autobiografie... in qualsiasi forma d’arte che sappia parlare al cuore. |
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