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La donna del Ventesimo secolo. Dal charleston a Bella ciao
In principio Dio creò l’attesa, dimensione
temporale che connota tutta la struttura del libro che recensiamo, il suo
venir dopo un brillante Primo Volume - La donna del Ventesimo secolo. Dal
cancan al charleston –, e il suo costringerci a trattenere la fame tipica
dei lettori impazienti di poter girare pagina. Invece, quando si apre La
donna del Ventesimo secolo. Dal charleston a Bella ciao, bisogna mettersi
comodi, sedersi su una di quelle poltroncine in legno ricoperte da velluto
rosso, come volle, in accordo con la leggenda, Richard Wagner, e aspettare che
si apra la pesante cortina del sipario. Contrariamente ai dettami di quel teatro
che vuol svelare solo all’ultimo le fattezze dei suoi burattinai, si paleserà
prima l’Autrice, che non anticipa nulla se non una splendida volontà fissa:
continuare a diffondere cultura che, nell’accezione della novelliera, è
assimilabile alla personificazione dell’entità primigenia Chaos,
quintessenza di quel disordine primordiale da cui nacquero gli dei, le prime
divinità. Cultura intesa dunque taylorianamente come insieme complesso,
costituito da elementi che si possono ritrovare ovunque, crogiuolo di istanti
che si eternizzano in unità, ma che possiamo scomporre e ricostruire, per
proporre visioni sempre diverse del reale. Cultura che non si cristallizza in
ipostasi di marmo, ma continua sempre a stimolare l’incontro tra la fantasia e
le vicende storiche, di volta in volta connotate da un certo personalismo di chi
le racconta che, fatto fuoriuscire nel modo giusto, può rivelarsi un potente
alleato dell’antica arte del tramandare, un passare-con dotato di una
forza molto speciale.
Addentrandoci in tal bel viaggio, due sole sono le stelle fisse: il periodo
storico, in questo volume il pieno Novecento – dal suo secondo decennio fino
quasi al suo tramonto – e la donna, imponente concetto cardine di una serie di
riflessioni attualissime, che attraversano spazio e tempo, ma soprattutto i
mezzi. Sì, perché peculiarità del libro è il suo porre al centro un varietà,
demanio primo del popolo, che ha come protagoniste donne note, anche solo per
sentito dire, provenienti dai mondi più svariati, il cinema, la politica, la
lirica, la Resistenza, la scrittura, la moda. Ma ecco che, sottratte alle luci
della ribalta e alle prime pagine dei giornali di gossip, le figure rivelano il
loro carattere primario: la loro umanità. La verità dietro la sagoma, anche
quando è solo immaginata, come spesso accade all’interno del testo che lascia
spazio a “siparietti” di grande spessore intellettuale, colpisce. Si vuol sapere
tutto di queste anime fragili e ardenti, che prima di altre hanno saputo
rinunciare all’opprimente stratificazione della vita borghese per gettare nuove
fondamenta di libertà.
Leggendo si avverte sulla pelle tutto il peso della
sperimentazione, del contrasto ad una ben precisa gerarchia sociale, e si guarda
così ai fallimenti e alle battute d’arresto con la consapevolezza del nuovo che,
quando non c’è, è solo nascosto. La prima lotta è quella, baldanzosa e ruggente,
delle flappers, ostinate ribelli anticonformiste, all’italiana “le
maschiette” emulatrici, ma al rovescio, dei costumi e della moda maschile, vista
quale veicolo di uguaglianza di genere, sconosciuta quanto necessaria. È
ragguardevole osservare con quale circolarità si muove il romanzo: l’ultima
lotta che il fitto indice propone è quella di Nilde Iotti, nata dal grembo della
Resistenza e catapultata tra dispute parlamentari sull’aborto, sul divorzio, la
concezione di famiglia e l’emancipazione della donna, tarlo primo di una società
che cerca di formarsi in una direzione più equa e più giusta. Se poi delle
flappers non è narrato nessun amore tumultuoso, in Nilde vediamo
concretizzarsi l’altra connotazione dominante la figura della donna in questo
romanzo, ovvero il romanticismo.
Sarebbe in verità più giusto parlare di Amore,
amore sempre tribolato, sofferto, allontanato, contrattato, poco convenzionale,
addirittura scandaloso, proibito, oltraggioso. Se Nilde ha dalla sua figure come
Clara Petacci, Eva Braun, e anche, per impietosa assonanza, Eleonora Duse, tutte
abilmente descritte nel testo, è perché in esse vediamo una connotazione
politica più spiccata, che s’intreccia a doppio filo ai restanti motivi della
vita; ma uno dei messaggi più forti di questo libro è che la donna, dal e
nel ventesimo secolo è tutto: assistiamo, sconvolti, ad un giardino in
incessante fioritura, che plasma attorno a sé un universo esclusivamente
femminile. Accompagnati dalle note sinuose del tango, che rivive nella seconda
decade novecentesca, osserviamo l’eleganza a-genere degli abiti firmati da una
Coco Chanel che viene reclamata in una intervista impossibile a rispondere
dell’onta sua suprema, la collaborazione con il regime di Vichy, filonazista.
Ancora donne, ancora politica. Protagonista di un’altra intervista impossibile è
Virginia Woolf, la cui riservatezza poteva relegarla ad un ambiente intimo,
inerte: e invece anche Virginia urla, sciorina tutta la sua produzione, pezzetto
per pezzetto, spiega i come e i perché di questa o quella opera, per nascondere
il male che la piega, il “virus” del suicidio, lo denomina l’Autrice. Eppure
Virginia, dinanzi alla morte, è coraggiosa. Non conoscerà quella paura che sarà
il virus vero della seconda, immensa parte del secolo, prostrata dalla guerra.
In mezzo, come sempre, lo scorrere della vita, che sposta il nostro osservatorio
sulla femminilità su altri temi, che a prima vista sembrerebbero quisquilie: il
cinema, ancora la moda, la radio. Dopo un impareggiabile riferimento ad una
storia culturale quasi mai ascoltata, quella svedese, incarnata nella figura di
Selma Lagerlöf, scrittrice lirica, approcciamo le star, idoli di un mondo
che muta molto velocemente e che accompagna al cambiamento un opprimente senso
di fallimento.
Incredibilmente, la donna incarna anche questo dualismo
conflittuale e pauroso: nelle mani di Marlene Dietrich e Greta Garbo si condensa
tutto il piacere e lo spavento dell’uomo contemporaneo, inerme dinanzi a tanta
maestria erotica e bravura. Ma quelle stesse dee sono piene di insicurezze e
inappagamenti, che per la prima volta non zittiscono. Anche quella strana, nuova
richiesta di solitudine della donna viene idolatrata. La stessa solitudine in
cui, solo qualche anno dopo, alla fine degli anni Venti, la donna sarà
confinata, di nuovo sottomessa, emarginata. Tutte le problematiche che esprime
vengono tacciate di banalità e falsità, finalizzata all’assoggettamento
all’uomo, come nei romanzi “rosa” di Liala. Ma nessuna Cenerentola china davvero
il capo: la resurrezione cui si assiste nel dopoguerra reca le tracce di tutte
quelle grida d’aiuto soffocate, quel ritorno ad una barbarie che impediva la
combattività. E in accordo con la circolarità di cui abbiamo già detto, questo
testo si chiude con un bel ritorno anche a quella che, in principio, fu:
l’attesa.
Le donne liberate, ricostituitesi nel loro esser donne, caricate di
istanze emancipatrici e desiderose di un nuovo mondo, di nuovo inclusivo, di
nuovo a loro misura, tornano a sperare. E allora ritorna, fiero, l’Amore, e con
esso tutta la bellezza, e la promessa di una floridezza futura. Sarà stato il
prosieguo degli anni, nella fine del secolo, all’altezza delle aspettative?
Auspichiamo di leggerne presto.
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Recensione |
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