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Prefazionato da Luigi Scorrano, Elogio dell’ebbrezza
è un agile e delizioso poemetto – ché di vero poemetto si tratta -, nel quale si
respira il profumo della più antica bevanda del mondo: il vino, cantato da
musicisti e poeti – basta ricordare per tutti il nostro Carducci o il persiano
Omàr Khàyyam – e che solo a evocarlo trasmette allegria. Se, poi, “tante
volte le labbra” accosteremo – sempre con moderatezza – “al calice
colmo”, la gioia non potrà che sublimarci e corpo e spirito. E forse sarà
anche vero che ci allungherà la vita, così come afferma la pubblicità!
Il titolo si rapporta all’esito finale di una salutare
bevuta, ma Angelo Lippo, nei suoi spumeggianti versi, canta quasi per intero il
processo per ottenere il divino nettare – dalla coltivazione alla “vendemmia
festosa” – e i rituali per consumarlo, p le liturgie, come lui meglio
si esprime.
Nel fervore generale, tutto si mescola e si sovrappone
in una specie di sogno. Il grappolo, per esempio, perde o acquista contorni in
una specie di continua dissolvenza, trasformandosi, via via, anche in “sirena
maliarda”, oltre che in natura e in paesaggio, col sottofondo di uno di
quegli antichi ditirambi di cui era maestro “Pan l’eterno”.
Sì, perché, a leggere e a rileggere il libro di Lippo,
si finisce anche nella mitologia, la nostra mente fa di continuo one-step e
veniamo affogati da un diluvio di versi immortali da tanti altri cantati nei
millenni, da armonie, da immagini d’arte: l’ebbrezza della cultura e dell’anima,
insomma, la parte migliore ed eterna dell’Umanità.
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Recensione |
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