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Ora Paolo Ruffilli, notissimo poeta, scrittore e saggista ci presenta un nuovo, pregevole lavoro. Colpisce il tono narrativo misurato. Tutto questo provoca nel lettore una sorta di stupore e il bisogno di continuare a leggere le pagine, assecondandole. Nel testo Le stanze del cielo si configurano ancora due situazioni estreme: la carcerazione e la dipendenza dalla droga. Ambedue affrontate con il rigore e il tono sommesso del poeta che ne rende, in misura maggiore, la tragicità. Già nella titolazione Ruffilli indica una via ideale da seguire nell’evolversi delle vicende: questo anelito azzurro: una fuga e un ritorno a momenti leggeri dove il tempo è ancora sinonimo di un altro tempo. Dove tutto è ancora possibile e decifrabile. La sintesi e la brevità dei versi impongono una sosta, un momento di pausa al lento scorrere dei giorni. Il desiderio di fuga, come libertà da una situazione reale come quella del carcere si esplica anche ad un’altra, diversa, prigionia: una dipendenza interiore, quale la droga. Così le due parti del libro evocano, propongono, apparentemente staccate, differenti ma legate da un filo invisibile che le unisce. Nella prima parte del libro ascoltiamo la voce del carcerato, i bisbigli, attraverso le parole del poeta. Rabbia, ansiosa dolcezza. Ruffilli nel suo peregrinare quasi pigro riesce a circuire grate e cancelli, cortili dalle altissime mura per raggiungere una, immagino, piccola stanza azzurra, una delle stanze delle quali è composto il cielo, come viene auspicato in un testo: ma forse anche il cielo | è fatto di stanze | e non si può abitarne | più di una. E’ dolce allora pensare ad ogni piccola stanza dove gioca un’emozione, un palpito, un segreto. Sensazioni diverse come diverse, eppure eguali, premono le ore della giornata. Voce disperata, voce stanca ma presente a se stessa, un equilibrio che si fonda spesso sul ricordo del passato e la consapevolezza della colpa: scrivere la storia | del mio caso, | pur sapendo che | a nient’altro vale … e ancora: Ho avuto , un tempo, sedici anni anch’io. Ad un certo punto si esce dall’episodio personale e tutto diviene un afflato unico, quasi un coro di voci che mi hanno ricordato, per l’imparzialità di giudizio, la cruda sofferenza, lo scavo imperioso dentro se stessi, alcuni personaggi di Spoon River. Il libro raccoglie momenti di condivisione, una muta disperazione, nel ripetersi dei gesti, nella promiscuità carceraria senza che lo scorrere dei giorni cambi accento, proponimento, talvolta, però, ci incontriamo con il sogno, anzi il sogno nel sogno, dentro al quale rientrare, sistematicamente, per aiutarsi a vivere oppure a non morire. A questo pathos che sprigiona il linguaggio pacato del poeta si sovrappongono e si intersecano anche le voci quotidiane, il giudizio della gente, la società che non desidera sapere, non vuole andare oltre a quello che viene così bene espresso nei versi del testo che conclude la prima parte: Ci dite: “Avete | i giusti orari, | vitto abbondante, | state al riparo. | Che cosa mai vi manca? | Proprio un bel niente!” La seconda parte del libro, titolata La sete, il desiderio, appare più breve, ha un tono lucidissimo nella versificazione che si fa storia, storia del tutto o del niente nel quale si configura una Vita tagliata, come recita il titolo della poesia di apertura. Ho trovato emblematica la frase : “i passi ignoti | del mio precipitare”. Leggendo “ignoti” mi sono dovuta fermare a riflettere, alla disamina minuziosa che Paolo Ruffilli offre sulle ragioni (o non ragioni) che portano alla droga. E poi ancora fuga e sogno (o desiderio di sogno) in questa consapevole prigionia. La scrittura di Paolo invita alla riflessione: non prevarica ma accarezza anche quando affronta tematiche scomode. Allora grazie, Paolo, per avere raccolto le voci di un’umanità smarrita, “minore”, ed averle trasformate in canto: un canto leggero e potente, pronto a sfidare ancora “le altissime mura”, e raggiungere, così, una delle piccole stanze dove il cielo sorride, indulgente. |
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