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In una forma di panico trasformismo, la
poetessa vorrebbe essere "albero che svetta sopra un dirupo", "limpida fonte che
da viva roccia sprizza", "candida nuvola", "gabbiano dalle ampie ali". Tale
è la sua impropria "metempsicosi", che intitola la prima
sezione, riportando in esergo un interessante pensiero di Platone, ma va detto
che non è quella metempsicosi ufficialmente teorizzata, ma piuttosto panismo per
sentirsi più intimamente in armonia con la natura, come
in questo scorcio: "Fremono le foglie | del platano | alla timida brezza; |
freme il mio animo | all'unisono". Nella natura la
poetessa trova una luce che la conforta nel "buioo
che l'opprime" e, parlando alla sua anima, così la
consola e la esorta: "Torna a guardare con occhi sereni | i rami del mandorlo in
fiore, | le siepi ormai bianche di petali | le timide viole che occhieggiano |
tra il verde rigoglio del prato". Tanti altri scorci di paesaggio, specialmente
serale (e richiama i versi del Foscolo: "Forse perché
della fatal quiete | tu sei l'immago, a me sì cara vieni
o sera..."), che intervengono a consolare l'anima quasi stordita dalla pena di
vivere.
Nella seconda sezione, Eros, il tema dell'amore s'accompagna all'acuta
analisi psicologica, tutta femminile; così in Esitazione,
un capolavoro, a nostro avviso, della poesia amorosa, che riportiamo nei versi
essenziali: "Eri di fronte a me; eri vicino | tanto da inebriarmi | con l'ardore
improvviso del tuo sguardo. | Ho tremato. Ho temuto | che le tue braccia mi
stringessero... Quell'istante è fuggito | rapido come un battito di ciglia. | Un
timido saluto... Nella penombra del viale deserto | ti allontani in silenzio, |
forse tremando ancora come io tremo. | Forse anche tu rimpiangi quell'istante |
non colto per la nostra esitazione". Raramente è dato trovare tanta finezza
psicologica nel rievocare un abbraccio mancato per inconsci motivi di
esitazione, proprio quando l'amore stava in entrambi per esplodere. In Elegie
sicane la poetessa si abbandona alle memorie classiche, alla vista di tanti siti
archeologici (Siracusa, Agrigento, Selinunte, Segesta) così
che presente e passato si confondono in un unico mito: "La tetra, oscura fine |
della sacra civiltà luminosa | vedo scolpita in questo
pianoro | deserto, percorso dal vento, | abbacinato dalla luce", perché
non tutto ha distrutto la "lenta e tenace | opera torva del Tempo".
Abbandonate
le cupe atmosfere e l'irriducibile pessimismo che caratterizzava tanta parte
delle due precedenti raccolte (Asfodeli, La luna e la memoria), il canto della
poetessa in questa silloge si fa più sereno, talvolta gioioso, specie quando si
abbandona al Canto della terra (titolo della V sezione) e ne coglie le voci di
felice esultanza: "La tenera dolcezza, | dei timidi casti colori | s'esala in
effluvio soave | delle fragili corolle, dischiuse | al tepore, alla luce più
viva | dei giorni più lieti". Busca Gernetti come altri poeti, sente di non
poter più vivere nell'hortus conclusus della sua privata ispirazione, attenta ai
moti del cuore, ma avverte il bisogno di gettare uno sguardo sul mondo degli
uomini, specie quando accadono fatti d'inaudita gravità
come l'attentato alle Torri Gemelle. In un'originale comparazione fra i morti
delle Termopili e questi ultimi, scrive: "Allora aveva un senso, aveva un fine,
| un nobile ideale | la bella morte sul campo cruento..." così
come la cantava Simonide di Ceo. E poi i bimbi afgani: "Occhi senza sorriso, |
scuri nel volto triste, | opachi di dolore...", bimbi che ricordano quelli ebrei
gettati nei forni crematori. Si affaccia il problema del male, del dolore che
colpisce gli innocenti a cui ne teologi ne filosofi hanno saputo dare una
risposta: il silenzio di Dio. Questa ultima raccolta di Busca Gernetti segna
indubbiamente un progresso in fatto di ricchezza di contenuti espressi in un
linguaggio poetico del tutto godibile.
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Recensione |
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