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Daniela Dawan, nata a Tripoli, nel 1967 è venuta a vivere con la famiglia in Italia. Ha soggiornato a Roma, a Bruxelles e negli Stati Uniti. Ora, a Milano, esercita la professione di avvocato. Non dite che col tempo si dimentica – in ebraico “Ma tkelouch el denia nassiana” – è il suo romanzo di esordio, presentato, nello scorso maggio, da Marta Boneschi e Gad Lerner presso la sala Montanelli, Fondazione Corriere della Sera, a Milano.

Le vicende descritte da Dawan si svolgono a Tunisi, verso la fine degli anni Trenta. Cesare Orvieto, “illustre medico ebreo e autorevole esponente della comunità italiana” viene trovato morto, “avvolto in una bandiera sbiadita”: “un sudario, il tricolore scompigliato lo ricopriva quasi interamente. Un rivolo di sangue denso si era raggrumato all’altezza della testa”.

È il 20 novembre 1938, Cesare si è suicidato: dopo l’emanazione delle leggi razziali, egli è considerato “un miserabile ebreo tunisino, un twansa”, ed è stato allontanato malamente dall’ospedale. Tuttavia, poiché non ha mai nascosto le proprie simpatie per il fascismo, è inviso pure alla comunità israelita. Cesare non è più italiano, né ebreo. E nemmeno francese, visto che ha rifiutato l’opportunità di acquisirne la cittadinanza.

È morto, Cesare, distrutto nella dignità e nell’onore, e logorato da un amore impossibile per l’affascinante musicista Augusta Levi.

Ma i morti ritornano e il tempo non cancella i ricordi. Anna Orvieto e il suo giovane fidanzato Philippe – siamo a Milano nel 2008 – recuperano fortunosamente un bocchino d’avorio, con l’incisione di una scritta in arabo – Mabrouk – e di “due iniziali: C.O.”. E una lettera di Augusta, indirizzata a Cesare, spedita il 20 novembre 1938, che rivela un segreto: “Una foto di tua figlia. Anche se te la mando con ritardo. Col tempo non si dimentica”.

Così le tre storie – quella di Cesare, di Anna e di Philippe – si ricongiungono e si intersecano in un mosaico di alchemiche coincidenze, fino a formare un drammatico, seducente filo narrativo. Il passato riemerge, misterioso, avvolgente, come un magma che ribolle di sentimenti e nostalgie, di passioni e orrori, di compromessi inconfessabili e ancestrali timori.

Sullo sfondo, Tunisi, amministrata dai francesi, con “le viuzze umide della Piccola Sicilia”, “il quartiere ebraico” e “la Medina”, fra i cui “viottoli si spande un intenso aroma di caffè ai fiori d’arancio”. La parte europea, che “si stendeva rettilinea, aperta, attraversata da larghi viali dove il vento rinforzava negli spaziosi crocevia tra i grandi edifici”. E poi la “moschea as-Zaytunah”, “la cattedrale cattolica e la chiesa greca”. Tunisi, gli anni Trenta. Un incrocio di tradizioni e religioni diverse, di sensibilità sociali complesse e assetti politici instabili: mentre si incomincia a respirare un clima di sospetto e di intolleranza, si può però godere ancora di un humus culturale raffinato e cosmopolita.

Dawan si dimostra un’abile romanziera, capace di ritrarre le differenti psicologie dei personaggi, sfumandole attraverso i minimi particolari fisici, o le improvvise, melodiche, gestualità. Restituisce vigore alla memoria, disegnando un affresco delicato e suggestivo di un mondo ormai trascorso. Ricrea, con naturalezza e gusto, i costumi, gli stili di vita e le vicissitudini di una città, Tunisi, tra le più attraenti del Mediterraneo.

E ci insegna che quanto accade oggi rimanda sempre a ciò che già è stato, e che tutto torna, tutto tiene, nella storia dell’uomo. Perché ogni esistenza su questa terra non è che l’istante di un lungo viaggio, di un inesorabile esilio. E, allora, “Tisfer we titgharah”: “Viaggia e conoscerai il sapore dell’esilio”.

Recensione
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