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Commento a
L'alba di un nuovo giorno
di Wilma Minotti Cerini

Francesco di Ciaccia
professore, scrittore e filosofo
Il dramma e la possibilità dell’impossibile
Le riflessioni preliminari dell’Autrice alla sua raccolta di poesie suonano come
un grido di dolore e quasi come un grido di allarme per la condizione
dell’umanità contemporanea. Sembra assurdo. Ma il fatto è questo: oggi, in un
punto della storia segnato da tanti indici di progresso civile, l’umanità si
trova a rivivere un dramma che è antico e che ora è sconvolgente nel panorama,
appunto, di progresso in tanti ambiti. È il dramma della schiavitù. La
condizione, diffusa, di schiavitù mette in crisi, sottolinea l’Autrice, la
civiltà occidentale, proprio quella che aveva superato la sciagurata condizione
della schiavitù antica.
Si contrappone al dramma attuale la prospettazione che si trova già nella prima
poesia della raccolta. Questa poesia (Musa dormiente) è indirizzata alla
Musa ma sottende una visione ulteriore, proiettata nella utopia: “la certezza
del risveglio”, il “sogno” di una “notte stellata / al di là di nubi opache”. La
nebbia che offusca lo sguardo e che deprime la storia dell’uomo ha un “di là” in
cui i confini sono travalicati, come si esprime la lirica connotando tuttavia
sempre la Musa.
Il “di là” – storico, etico, esistenziale – è “il giardino dell’Eden”. Lo
afferma la seconda lirica della raccolta, L’alba di un nuovo giorno, che
dà il titolo a tutto il libro. C’è chi dice che quel giardino “è impossibile”.
Ecco dunque la natura dell’utopia: la possibilità dell’impossibile. La
possibilità può arrivare ad affermarsi, se noi procediamo secondo un criterio
preciso. Secondo l’Autrice, il criterio idoneo è quello di fare “un piccolo
passo” per volta. Si procede nel quotidiano, operando giorno per giorno, in ogni
momento, in ogni occasione, in modo che “il male si volg[a] al bene”. Anche un
“sorriso” (si veda Io ero lì) può cambiare uno spazio della terra, un
spazio dell’animo; anche un “grazie” (si veda Uno sguardo dal nulla) può
portare il “mondo rinnovato” verso la “sua innocenza”.
Wilma Minotti Cerini ha scelto di porre all’inizio della raccolta la silloge
dedicata al suo amato Livio, il coniuge che, nell’oggi, vive nel cuore – che è
anche memoria – della sposa, ora fatta di “nostalgia” solitaria – e di
lontananza annullata nel ricordo (Arcobaleno negli occhi).
Il contesto della corposa silloge, Amore e amare, è intimistico, di un
amore che è anche amorevolezza, in cui le pennellate cromatiche – nelle quali si
impongono prepotentemente le calde braccia, amorosamente proteggenti – sono di
una delicatezza e di una profondità da vertigine. Le inflessioni emotive e le
finezze lessicali sono certamente da gustare, ma io qui voglio cogliere un
vissuto che collego con il pensiero che ha aperto il libro intero.
Il vissuto, nell’ambito già detto della vita personale a due, è quello del
decadimento fisico e poi della fine dell’esistenza terrena dell’amato. La
“falce” che “miete la vita” (L’amore si nutre dell’amore) e che “pareggia
l’erba”, direbbe il Manzoni, non è la parola definitiva; il distacco che
“strappa il cuore” non è il definitivo. Il definitivo è “quell’oltre” “dove tu
ora vivi”, è il bene nel quale si converte il male, che in questa contingenza è
la morte. Ma, appunto, la morte dell’amato, quella morte che produce “lacrime”
che “vanno verso il fiume / di tutte le lacrime del mondo”, la morte, dicevo, e
il fiume delle lacrime umane hanno uno sbocco, uno solo: il “grande mare
dell’eternità”, ha scritto l’Autrice il 14 aprile 2013. Un giorno preciso. In
quel giorno preciso si è aperto il per sempre.
Poco prima, forse, l’Autrice aveva scritto, confessando: “Sappiamo chi siamo” e
“senza effimeri pensieri / volgiamo lo sguardo lassù” (Io sono qui). Un
lassù che è anche un quaggiù, un quaggiù profondo: l’intimo di sé.
È nell’intimo di sé che è il cielo, e vive “l’oltre”. E nell’intimo di sé sono
tutti coloro che ci hanno preceduto, e ci succederanno.
Ecco dunque l’utopia anche nel nostro quotidiano umano: essere in vita,
nonostante il morire.
Sul tema cui si accennava all’inizio si collocano esplicitamente due liriche
dell’Autrice sempre riferite al suo Livio. Wilma Minotti Cerini lamenta
“un’umanità ferita, umiliata”: quell’umanità che chiede lavoro e lavoro non ha (Non
so). Ne I tempi della collera il dramma si fa esplicita tematica.
Esso va dal “volto di lacrime di un bambino schiavo”, dalla “giovane donna
corrotta dal velo obbligato” – anche questa una forma di schiavitù, terribile e
lacerante – alla deforestazione.
Anche qui la possibilità dell’impossibile si fa strada. In questo modo:
iniziando a convertire la collera in “protesta tranquilla”, “propositiva”. E
l’utopia trapassa in certezza: “salveremo il mondo”. Tutti insieme, e noi, l’uno
dietro l’altro, seguiremo la “bandiera” della giustizia.
A questo punto io vado alla silloge che ha per oggetto specifico quel dramma cui
si accennava all’inizio e che ha il titolo emblematico di Guerre Tsunami
Carestie ꞊ migrazioni.
Il panorama è tragico. Io scelgo solo un quadretto: “bambini / dallo sguardo di
pietà”, in un mondo sulle cui “vie” “corrono brevi vite”. E per chi sa che il
papà di Wilma fu ucciso, a freddo, lasciandola orfana sua figlia, il quadro è
una icona. Che fa accapponare la pelle.
Le poesie della silloge percorrono tragici episodi realmente accaduti, e
realmente strazianti, di guerre, di morti, di bimbi strappati all’infanzia, di
sguardi terrificati, di annegamenti. Ma forse il dramma non sta in un brano di
storia; forse esso si svela in infausti ritorni epocali. Forse esso è intrinseco
alla storia, è intrinseco all’umanità, perché è l’uomo in se stesso ad essere
“homini lupus”, ad essere il flagello dell’uomo. Forse l’uomo è condannato a
farsi macellaio del prossimo.
Forse, necesse est. Forse non c’è scampo.
Ma in questa necessità, per l’uomo, di essere nemico dell’uomo, facitore dei
patimenti del prossimo, si staglia, limpido, chiaro, genuino, un segno di
contraddizione: il “puro” che “porta la Croce” (Umanità ferita). Alla sua
luce, limpida, chiara, genuina, s’incamminano uomini e donne in-arrese
alla prospettiva lupesca, all’umana natura impietosa, all’amore di morte.
Qui, ancora, la possibilità dell’impossibile: spezzare la catena della
necessità, ribaltare il dramma necessitato.
Questa prospettazione utopica richiama la dimensione metafisica. Richiama Dio.
Ed è proprio questa dimensione la realtà nascosta. “Tu sei celato”. E sei
celato, perché noi abbiamo a cercarti? O sei celato, perché siamo noi a celarti,
per non correre il rischio di trovarti? – si domanda l’Autrice in Dubbi,
della silloge Dubbi e rimpianti.
La mente poetica non dirime il dilemma. I dubbi non sono risolti. La mente
poetica vede la risposta alle domande mediante il vissuto. Vede il Tu celato
sul Golgota – il cui cammino è “ben difficile” -, dove “il Cristo rinnova [le
anime] mirabilmente integre” (Beato don Carlo Gnocchi, della silloge
Dediche). Per comprendere – anzi no: per vivere – il Dio nascosto occorre
guardare verso chi ha superato il dubbio amando.
Allora lo sguardo che ha seguito il cammino nel “cielo sopra di noi” di un uomo
crocifisso sul Golgota – o martirizzato in ogni angolo della terra -, può
volgere gli occhi su ogni umano che soffre, che piange, che pena, che muore (Guardo
i tuoi occhi) – o martirizzato in ogni angolo della terra, poiché ciò che si
fa ad uno tra i più piccoli fra gli uomini lo si fa a Cristo in persona, a Gesù
vivo e presente.
In questo registro di tragedie umane le poesie di Wilma Minotti Cerini sono
numerose. Qui però io proseguo sul tema dell’“oltre”, tra metafisica e utopia.
Utile al riguardo è la silloge Invocazione. Il primo dato oggettivo è
individuabile in quella che è la causa del male universale – tra ingiustizie,
guerre, annegamenti, schiavitù, diffusa e variegata -: noi stessi. Possiamo
dire: il nostro peccato. Ma il peccato in che consiste? Consiste nel
dimenticarci – da qui, “l’essere ingrati” (Signore perdona) – di Colui
che è e dà il bene. Il bene è l’alternativa di contraddizione del male. In
pratica, è la condizione perché l’impossibile sia possibile. La sostanza del
discorso metafisico – “E sei solo Tu ad esistere” (Signore perdona) – e
storico è questa.
Ora vediamo come si configuri sul piano esistenziale questo “Tu”. In altre opere
Wilma Minotti Cerini lo ha precisato insistentemente, con nome preciso. (In
questa raccolta lo trovo indicato per riflesso). La sua caratteristica comunque
lo rivela. Egli è la spalla, cioè il sostegno: è colui sulla cui “spalla”
ci sostiene (Oggi). La spalla del Padre.
Ma che cosa comporta, questa spalla? Che cosa vuol dire, che essa sostiene?
Bello è, io credo, quello che Wilma Minotti Cerini dice di sentire: “Non so se
il mio andare / Mi porta verso il burrone / O se cammino verso l’ovile” (Oggi).
Che cos’è questo sentire? È il sentire che manca della presunzione – ho espresso
una definizione, non volevo, m’è sfuggita – della fede – così alcuni pensano– di
camminare sulla strada giusta, di stare a posto. Di stare a posto, non solo con
se stessi, ma con Dio. Persino. Noi siamo felici, per loro, per quelli che
vivono questa sicurezza. Noi stiamo con coloro che, di sé, non hanno questa
sicurezza – o, anche solo, fiducia -, poiché “Ogni direzione mi è nascosta” (Oggi).
Non siamo sicuri neppure di non essere sicuri di qualcosa: siamo “in una nebbia
fitta” (Oggi). Di una sola cosa siamo sicuri. Siamo sicuri di una cosa
sola. E solo di una cosa: che “Tu sei l’unico bene” (Oggi).
Ora, dato che Tu solo, e solo Tu, sei buono – l’ha detto Gesù -, nessuno, e
proprio nessun altro, è buono. Neppure chi cammina sulla via di ciò che è bene,
neppure chi cammina sulla via di ciò che è giusto, chi cammina – o crede di
camminare – nella via di ciò che è santo.
E qui non posso non riandare ad un frate, frate Francesco. Ne ho già scritto. E
ne scriverò finché avrò fiato. In fin di vita, frate Francesco, alla Porziuncola,
steso in terra a una spanna da sorella morte e rosicchiato dai fratelli topi,
dettò e cantò, pieno di gioia, la lassa sulla morte del già iniziato Cantico
di frate Sole. Frate Elia, suo superiore, lo esorta a smettere di cantare
giulivo e lieto; si disponga, invece, a piagnucolare, perché la gente si sarebbe
edificata alle implorazioni di perdono, alle sue proteste di uomo peccatore,
mentre a sentirlo esilarato cantautore si sarebbe scandalizzata. Il morituro
contestò – un po’ seccato, per il vero – e in sostanza gli disse di sentirsi
tranquillissimo.
Appunto: ma perché? Proprio perché – diciamo noi, sulla scorta delle fonti – era
vissuto esclusivamente dentro l’idea fissa – e fissa per davvero – che “Tu sei
l’unico bene”. E che lui, frate Francesco, non era alcunché.
Possibile? Mi piace riassumere questa meditazione dell’Autrice – che ho
ripercorsa, qui, affannosamente e miseramente – con una ulteriore osservazione.
Noi sì, è vero, una cosa buona, almeno una, noi possiamo farla: la “preghiera”.
Ma “Non c’è nulla / anche nella preghiera a Te / che non provenga da Te” (Tutto
da Te è creato).
Questo è bello. Anzi bellissimo. Una ascensione, una semplice, una istantanea,
una umilissima, una ascensione quasi impercettibile verso il suo volto, il volto
del Padre – ma non è soltanto Padre, lo vedremo tra pochissimo -, anche quella
attraverso la Madre Maria (Maria Madre del Figlio del Padre), non viene
da noi.
Questo è bello. Anzi bellissimo. Perché è vero. Non ci assegniamo neppure un
attimo di spirazione. Anche la spirazione è ispirata. Da Dio
creata. Anche una paroletta breve e semplicissima: Abbà, Padre.
Dio, il “Tu” dell’io, del noi, è padre. S’è detto. Ma l’abbandono col
quale a Lui ci si affida “totalmente” (Signore perdona), l’abbandono nel
quale “l’anima trova respiro”, l’abbandono dove si sperimenta la “beatitudine”,
è “tanto simile / alle braccia di una madre”.
Il Padre è anche materna tenerezza.
E allora siamo felici di non poter fare altro che “affidarci”.
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