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D’Annunzio
Il punto su: D’Annunzio
Due testi utili sul D’Annunzio.
La posizione storica di D’Annunzio.
“Perché
m’è l’alba imagine di morte”
Perché D’Annunzio? Perché egli oggi appare, dopo
trent’anni di emarginazione, presso il gran pubblico e nelle scuole. Scomodo
precursore del fascismo, egli fu esorcizzato fin dalla morte (1938): si cercò
subito di dimenticarlo, anche perché, ad onta degli equivoci, non corse affatto
buon sangue tra lui e il regime. In seguito fu studiato solo da un manipolo di
“nostalgici”, mentre la massa lo identificò superficialmente con il fascismo, i
critici lo archiviarono alla spiccia come “retorico” senza idee, e la società,
nel secondo dopoguerra, lo sentì lontano dalle nuove “preoccupazioni” e poi dal
nuovo “gusto”.
Negli armi ‘50, tuttavia, la critica marxista ha avuto il merito
di elaborare, al di là dell’approccio stilistico di matrice crociana, un
ritratto organico del D’Annunzio in riferimento al quadro storico, ideologico e
culturale, individuandone sia le caratterizzazioni umane e psicologiche, sia i
modelli artistici in rapporto all’epoca. Ma D’Annunzio ha segnato di sé,
soprattutto, l’ideologia della vita: un’ideologia “decadente”, non tanto nel
segno del vitalismo più appariscente, quanto in quello della paura della morte,
della sua esorcizzazione attraverso i miti e i riti della vitalità e della
conquista ad ogni costo. Ed è questa, appunto, la dimensione esistenziale, sia
pur sottesa, che s’agita all’interno delle sue opere narrative. Il significato
della “sensualità” dannunziana esprime il bisogno di “aggrapparsi alle cose”,
ossessivamente, per sfuggire alla coscienza dell’irrefrenabile smottamento
dell’io: un “io”, d’altronde, che si propone e si ripropone nelle incessanti
incarnazioni poetiche, ombre fuggenti e ossessive delle molte personalità
dell’Autore.
Divergenti che siano le interpretazioni sul D’Annunzio, è notevole
– e per alcuni stupefacente – che la sua opera torni a interessare la gente.
Riflettendo su questo dato, si può ammettere come autentica l’importanza,
sentita dall’Autore, del suo contatto con il pubblico. Con il pubblico –
scriveva ad Hérelle nel 1896 – io sono “nel contatto più diretto e immediato”; e
ne rivelava anche il segreto: la capacità di “metamorfosi”, di cambiare volto,
registro linguistico e problematiche. In effetti D’Annunzio fu al massimo grado,
tra gli scrittori e opinionisti del primo Novecento, capace di recepire e di
modellare, pur sempre a sua immagine e somiglianza, i temi più disparati e i
generi letterari più diversi.
“Perché m’è l’alba imagine di morte?”
Queste parale, nell’exergo del volume di Ferruccio
Ulivi, D’Annunzio, mettono a fuoco la direzione
dell’indagine biografica dello studioso, che scandaglia nel tumulto esistenziale
di una “Vita inimitabile”: “inimitabile”, soprattutto perché comprende “molti
uomini in un solo individuo”. Mi piace sottolineare fin dal principio questo
concetto, perché esso è stato una prospettiva ermeneutica di un mio studio sul
francescanesimo dannunziano. Le connessioni tra arte e vita son troppo strette,
in D’Annunzio, per non indurci a definire la prima come immagine proiettiva
della seconda: e l’Ulivi è accuratissimo nel congiungere la vicenda umana e la
produzione letteraria dello scrittore. Ma è anche vero – e l’Ulivi lo fa ben
comprendere – che l’immaginifico trascende anche la vita, ne è la
trasfigurazione rispondente più al bisogno di vita che alla vita stessa.
Del resto, anche nelle sue vicende quotidiane, banali
o illustri, D’Annunzio si identificò in atteggiamenti non veri: o meglio, che
eran suoi, e perciò veri, in quanto egli era davvero, nella sua natura, “tanti
atteggiamenti”. Ad esempio, fare debiti, pur avendone già altri, con l’aria di
chi non ha debiti, era un modo di porsi come uno che fosse ricco: e tale era, in
effetti, perché il “Vero” per lui era l’immagine che egli dava di sé. Non è
detto perciò che D’Annunzio mentisse; quando diceva una cosa diversa dalla
realtà era sincero, come è sincero un attore che recita tanti ruoli quanti
davvero sono i personaggi dentro di sé. La vita per D’Annunzio è spettacolo: ed
egli amava rappresentare proprio questa vita.
Una
delle trame più frequenti di questo spettacolo riguarda le relazioni con le
donne. L’Ulivi qui scandaglia con grande finezza e con l’occhio sempre vigile,
entro le essenziali annotazioni di cronaca, all’avventura interiore dell’uomo. E
già! Perché tutto, per D’Annunzio, era “segno” della vita, una vita inseguita
con furore, cercata con ingordigia, mai scoperta del tutto. “Tutto fu ambito / e
tutto fu tentato”. E nella sua fame di vita, intrisa di tutto, dalle doppiezze e
dalle ingenuità sconfinate e sconfinali, l’uomo D’Annunzio, alla ricerca
esasperata e magari disperata di sé, è reso – così splendidamente l’Ulivi –
“inaccoglibile e indiscutibilmente autentico”. Un’idea anche a noi cara,
nell’interpretazione dannunziana. Fatalmente sospinto a inseguire la vita per la
vita e la vita stessa per il proprio “genio”, D’Annunzio fu incapace di
pervenire a una coscienza di sé come “cuore”, partecipe di vite altrui. Uno può
essere solo quello che è. Mi piace che l’Ulivi, giustamente, lo osservi. Così
come mi piace che ugualmente concluda che D’Annunzio insegua consapevolmente se
stesso per attingere una propria identità, che però è continuamente vanificata.
“E
forse aspetterò me stesso fino alla morte”, scrisse nel Libro segreto.
Amata – la morte – e temuta.
[Francesco di Ciaccia, Due testi utili sul D’Annunzio. La posizione storica di D’Annunzio. “Perché m’è
l’alba imagine di morte”, recensione di Fulvio Senardi, a cura di,
Il
punto su: D’Annunzio, Bari-Roma, Laterza, 1989, pp. 184; Ferruccio Ulivi,
D’Annunzio, Milano, Rusconi, 1989, pagine 392,
«Rosetum», 12 (1990) pagine 24-25.]
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Recensione |
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