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D'Annunzio al Vittoriale e il francescanesimo

Università delle Tre Età
Unitre, Milano
8 aprile 1999

Dal convento di Michetti al “convento” del Vittoriale

D’Annunzio aveva la mania dei simboli: cambiava nome a persone e a luoghi. Sulla base di tale tendenza, il vezzo di richiamarsi al mondo francescano dipese dal fascino di Francesco d’Assisi; ma non va sottaciuto un fattore biografico. Questo fattore spiega in parte tanti riferimenti al mondo francescano da parte di d’Annunzio.

Quand’era studente al Cicogna di Prato, nei suoi ritorni in Abruzzo si legò ad un gruppo di amici nella casa di Francesco Paolo Michetti, a Francavilla al Mare, che vi avevano creato un “cenacolo” artistico. La casa – acquistata nel 1883 – era detta Convento. Era detta così, perché era proprio un convento. Fondato dai frati minori osservanti nel 1490 e intitolato a Santa Maria di Gesù ma poi da d’Annunzio denominato Santa Maria Maggiore, fu soppresso nel 1811 e, definitivamente, nel 1866. In un primo tempo, tutto restò inalterato, compreso l’orario delle campane.

D’Annunzio, lì chiamato “il Frate”, si rifugiava nel Convento per scrivere[1]. Lì aveva la sua cella per studiare: “ignudo asilo” con “sedia di abete rozzo […], tavolo e branda (Via crucis), “sede dell’Arte Severa e del Silenzio” (A Francesco Paolo Michetti). E lì visse i suoi “giorni migliori” («Contemplazione, «XI aprile MCMXII»).

Nel Convento c’era l’Oratorio. A Cargnacco, nel 1923 era detta Oratorio una stanza, sul cui camino erano incise le lodi del Cantico a frate foco e nella fontanella le lodi a sorella acqua.

Alla Capponcina era chiamata “refettorio” (come nei conventi) la sala da pranzo, dove d’Annunzio mangiava sulla “semplice e massiccia tavola francescana” (Ad Annibale Tenneroni), “lunga e stretta” (Regimen). A Saint-Dominique consumava i pasti nella “camera monastica” (La Leda senza cigno). Al Vittoriale, prima che vi fosse realizzata la sala da pranzo della Cheli (1927), il tavolo per gli ospiti era “mensa francescana” – come era “mensa più che francescana” il suo tavolino da pranzo, di legno (Di Ciaccia, p. 6) – mentre per il luogo stesso di refezione riprese il termine “cenacolo” (Taccuini, CXLI, 1925).

Alla Capponcina va indicata un’altra mania: la campanella che dava il segnale della refezione, come nei conventi (Fortini, p. 79). Da notare che la Capponcina ebbe un’aria “conventuale”, almeno finché ci fu la Duse (1904) – poi divenne mondana con Alessandra di Rudinì (Nike), nell’architrave della cui camera era però inciso Clausura (con significati, tuttavia, sempre mistico-erotici, come era imprescindibile e inevitabile, nella nomenclatura e nell’esperienza esistenziale di d’Annunzio).

I conventi francescani avevano un orto; e lo aveva il Convento di Michetti. A Cargnacco d’Annunzio diceva a Maria Luisa Casati Stampa, detta Coré, il 23 febbraio 1922, “francescano” il terreno intorno alla casa (Andreoli, p. 591).

A Cargnacco egli sembra essere passato da convento a convento, nel suo immaginario. A Michetti, nel 1925: “O amico, il perpetuo rimpianto del convento sul mare fa triste il convento sul lago”.

La mania della nomenclatura francescana non fu dunque stravaganza inspiegabile. Ciò non toglie che fosse, a volte, del tutto avulsa dal significato originario.

Denominazioni francescane di luoghi e di persone

L’invenzione più suggestiva fu la “Porziuncola”, la villa della Duse vicina a quella di d’Annunzio, a Settignano. Il nome, scelto dalla Duse “votata al Santo d’Assisi” (Caliaro, p. 52), andò a genio anche a lui, se in un primo momento egli chiamò “Porziuncola” la primitiva casupola di Cargnacco (Fortini, p. 168).

Porziuncola, così detta dalla località in cui sorgeva, era la chiesetta abbandonata che Francesco restaurò con le proprie mani: il luogo a lui più caro. Lì volle morire.

Ma ciò che colpì d’Annunzio era l’infuocato pranzo cui Francesco invitò Chiara, appunto alla Porziuncola: i dintorni sembravano bruciare! Egli lo lesse nel capitolo XV de I fioretti di san Francesco, lo rammentò ne Le vergini delle rocce e nel 1919, in Altri taccuini, 45, lo adattò a sé: “Il tetto basso della salvatica non arde a somiglianza di Santa Maria degli Angeli?” (L’amore). La denominazione non aveva a che vedere con Chiara e Francesco: ne aveva, invece, con il connubio radicale tra mistico ed erotico secondo la mentalità e la sensibilità di d’Annunzio[2].

A Cargnacco chiamò San Damiano una villetta nel giardino: il nome del monastero di Chiara, dove Francesco compose parte del Cantico; Rivotorto, un altro luogo, in memoria del paese in cui Francesco d’Assisi il 9 novembre 1210 mise pace tra i concittadini di Assisi.

Con le donne egli era volentieri Frate Focu, e così a volte era chiamato da loro, come ad esempio “La sirocchia Bianca a Frate Focu, per le immortali scritture” – gli fu scritto a Fiume l’1 marzo 1920 (Antongini, p. 361). Con chi era legato al francescanesimo si firmava “frate Gabriele”, magari col toponimo (“da Cargnacco”) secondo l’uso dei frati minori antichi e dei cappuccini contemporanei. Particolare denominazione fu “frate Còclite”, ad esempio ad Arnaldo Fortini (Fortini, 154 e 169).

Denominò “frate” anche persone particolarmente meritevoli. Il tenente Elia Rossi Passivanti, legionario, ferito a Fiume, fu “Frate Elia”, “Frate Elia mutilato” (Altri taccuini, 46, 1919-1920; Taccuini, CXXXVI, 1920). Ma più interessante fu l’attribuzione di “fra Ginepro” a Gino Allegri.

Il Ginepro storico, citato nel capitolo XLVIII de I fioretti di san Francesco, era diventato mitico grazie a una Vita di frate Ginepro.

Ai funerali del pilota Gino Allegri, d’Annunzio spiegò:

“L’antico suo fratello in Cristo […] offerì ordinatamente ogni suo giorno silenzioso all’amore di Dio. Questo solitario e taciturno pilota diede il primo dì per l’amore d’Italia e il secondo e il terzo e il quarto, fino all’ultimo dì, per l’amore d’Italia. […] / Quale pietra porremo noi sopra la fossa di questo asceta ed eroe veneto, o piloti?

[…] Un giorno, nel Monte della Verna, l’uomo santo d’Ascesi comandò al suo prediletto che lavasse la pietra; e gli disse: – Lava questa pietra con l’acqua. – Poi disse: – Lavala col vino. – E fu fatto. Infine disse: – Lavala col balsamo. – E il frate rispose: – O dolce padre, come potrò io avere in questo tanto selvatico luogo il balsamo? – / Gino Allegri, per fare onore al nome che gli è stato dato, si è fatto crescere una barba da minore cappuccino; ma, se si togliesse quest’ingombro posticcio, apparirebbe col suo delicato profilo giovanile, «come quel fanciullo ricevuto nell’Ordine, il quale si ardì segretamente di legare la corda sua con la corda di San Francesco»”, con riferimento al capitolo XVII de I fioretti di san Francesco.

Una denominazione di particolare sensibilità fu quella di “San Francesco” assegnata a un francescano qualsiasi. Affiorò spontanea, nel Cimitero di San Michele a Venezia custodito dai cappuccini (Taccuini, XCIII [1916]).

Poi l’appellativo di “Suora”. Con connotazioni diverse. Renata, la figlia naturale, era “suor Acqua” (Sonnolenza): immagine evocante il Cantico. Le donne di servizio avevano l’appellativo di Suora, preposto al loro ufficio o al nome.

“Sirocchia”, rievocante I fioretti di san Francesco, connotava invece tenero rispetto.

Più «francescano» nel lessico ma per nulla nel significato, l’uso di badessa e di clarissa. Allo chalet Saint-Dominique, la donna occasionale era “gatta di passaggio”; al Vittoriale, “badessa di passaggio”. La qualifica di “clarissa” era riservata, invece, alle dirigenti: equivaleva a dedita interamente al suo signore: come Chiara d’Assisi nei confronti di Dio tramite Francesco d’Assisi.

Chiamava “fratello” chi egli sapeva molto affezionato a san Francesco, come Arnaldo Fortini – “mio primo fratello in Santo Francesco” (7 novembre 1923).

Chiamò “fratello” e “sorella” anche altri esseri viventi, e inoltre esseri inanimati e fenomeni naturali, a volte a imitazione di Francesco d’Assisi, come quando, rievocando due compagni uccisi, s’interrogò: “«O sorella, perché due volte mi hai deluso?» (Quando Sirenetta e È la Pasqua di Resurrezione), riferendosi a “sorella morte” di francescana memoria.

Usava poi il motto “Pax et bonum”, magari integrato con “Malum et Pax”: che, secondo Arnaldo Fortini (Fortini, p. 190), significava “ricevere il male ed essere in pace”.

Nomenclatura a parte, forse agiva qualcosa d’altro, in d’Annunzio. Non è bastante l’estro vanesio a spiegarne i riferimenti francescani. Né lo è il soggiorno nell’ex convento. Del resto, lo chalet in cui visse gli anni francesi più importanti – ben cinque – era “Sotto il titolo di San Domenico” (Regimen).

Affinità immaginifiche francescane: gaiezza e indulgenza

D’Annunzio e Francesco non s’assomigliavano affatto. Ma qualche piega dell’indole del «Giano bifronte», che fu d’Annunzio, gli fece provare qualche simpatia per Francesco. A suo modo. Ovviamente.

Francesco voleva che i suoi frati fossero ilari e garbatamente allegri e raccomandò loro che si guardassero “dal mostrarsi tristi all’esterno e oscuri in faccia” (Regola non bollata, cap. VII). Redarguì un compagno che, afflitto per i propri peccati, andava in giro con aria triste e faccia mesta: il problema se lo vedesse per conto suo con Dio, osservò, ma “alla presenza mia e degli altri procura di mantenerti lieto” (Leggenda perugina). D’Annunzio dovette essere colpito da questa attitudine francescana, se in uno dei suoi libri della Vie de S. François d’Assise di Paul Sabatier – addirittura situato nella Stanza del Lebbroso, la camera delle ricorrenze di pena – annotò: “la gaiezza”.

D’Annunzio esprimeva la gaiezza nelle forme della facezia giocosa. Poiché tuttavia soffriva di malinconica, si propose: “E serberò fresca la vena inestinguibile del mio riso, pur nella peggiore tristezza” (A Mario da Pisa). Quando poi era così afflitto da non poterlo celare, curava di nascondersi, tanto da poter dire: “Io ho saputo accordare il mio riso con tutti gli aspetti del mio soffrire” (Regimen). Francesco, quando era troppo angustiato, “sfuggiva la compagnia dei fratelli, perché […] non riusciva a mostrarsi loro nella sua abituale serenità” (Leggenda perugina).

Ovviamente, anche in ciò le prospettive erano differenti.

Ancor giovane, Francesco, di “animo gentile”, respingeva “tutto ciò che potesse suonare offesa a qualcuno” (Vita prima, 2). Nella vita quotidiana, d’Annunzio era comprensivo: aveva le sue stizze, ma non era capace di rancore. Un suo traduttore tedesco, bombardando Venezia, avrebbe preso di mira la Casetta Rossa di d’Annunzio sul Canal Grande. Dopo la guerra, quando d’Annunzio lo rivide, gli ricordò le bombe sganciate sulla sua casa, lo abbracciò, gli disse: “Avete fatto benissimo. […] Vi stimo e vi amo più di prima” (Antongini, p. 522). E tacitava bruscamente chi denigrava altri. Ci fu chi arrivò a pensare che il miglior sistema per rendergli simpatico qualcuno era di parlargliene male (cfr. Antongini, pp. 46 s., p. 227). Se perse la sua delicatezza d’animo, lo fu per motivi eccezionali.

Del resto, egli non scambiò la dolcezza per bonarietà, e a volte fu assai duro. Anche la durezza di Francesco fu a volte carica d’irritazione violenta contro i suoi frati. Mi limito a segnalare un intervento occasionale. Due frati facevano mostra di virtù, coltivando la barba molto lunga. A ciò s’aggiungeva la circostanza che il fatto aveva assunto rilevanza pubblica: ne erano stati biasimati da un vescovo. Saputolo, Francesco proruppe in una feroce recriminatoria, e su due piedi maledì i due frati (Vita seconda, 156). L’episodio più sconcertante resta il seguente: saputo che una scrofa aveva ucciso un agnellino, la maledì (Leggenda maggiore, VIII, 6).

Affinità immaginifiche francescane: povertà e mani bucate

La mania di somigliare al Poverello ebbe forse origine da una congiuntura. Alla fine del 1910, rifugiatosi a Moulleau, in un primo momento ‘Annunzio si sistemò in un paio di stanze di un’umida casetta detta Villa Charitas – in seguito da lui denominata “Regina angelorum” (Di me a me stesso [601]). Scrisse: “Vivo di poco, ho celebrato francescanamente le nozze con la Povertà”. “E per una volta tanto era sincero”, commentò Antongini (Antongini, pp. 148 s.). E al tempo in cui gli vennero sequestrati tutti i beni alla Capponcina, si denominava “Poverello”. Ma per la povertà non aveva inclinazione alcuna. L’ammise. Rivolgendosi a Francesco:

“Io gli dico: «Figliolo mio, tutto potrò essere, fuorché povero. Tutto potrò io donare come dono, e non rimaner mai povero. E s’io m’appresso alla tua santa Povertà e, dopo te, le pongo al dito l’anello nuziale in pegno e in segno, la sposa mia scalza e lacera si trasmuta in regina di tutte le corone, e s’ammanta di porpora ermellinata, e s’allaccia calzari vaiati, e sola aulisce come l’Arabia turìfera […]»” (Ripudio della povertà).

Ma una certa sua attitudine gli dava ansa a immaginarsi «francescano. Provava ribrezzo corporeo per il danaro materiale: a maneggiarlo, sembrava avesse “vergogna”. Non poteva non essergli nota la medesima ripulsa anche fisica di Francesco. Ricordo solo uno dei tanti episodi relativi a Francesco, e certamente non il più decisivo e di natura normativa. Una volta un frate prese in mano una moneta deposta da un fedele alla Porziuncola e la gettò sul muretto della finestra; saputolo, Francesco lo rimproverò aspramente per aver toccato quella cosa, gliela fece prendere con la bocca e deporre sullo sterco (Vita seconda, 65). A un livello che attiene allo spirito di magnificenza, avevano la stessa avversione per la mentalità borghese. D’Annunzio confessò: “Non posso più vivere su questa terra schiava, misurata, messa a profitto in ogni palmo” (Regimen). C’era un punto più serio, tuttavia, in cui d’Annunzio pensò di collimare con Francesco: nel principio cardine del lavoro; e teneva a segnalarlo.

La convergenza più facile e istintiva tocca però la predisposizione al grandioso. Nella consapevolezza di sé. Nello spendere. Nel donare.

Da giovane, Francesco, incarcerato durante la guerra tra Perugia e Assisi, annunciava ai compagni come un “pazzo”: “Sappiate che sarò onorato in tutto il mondo”. Da adulto, ammise ad un fido compagno: una volta morto, sarebbe stato coperto in segno di onore con stoffe preziose e drappi di seta. Per divina bontà, naturalmente (I tre compagni, 4, e Specchio di perfezione, 109 e 121). Senza bontà divina ma per liberalità della natura, d’Annunzio ammise di sentirsi “egregio” (Regimen), e caso volle che gli sia stato donato il drappo, ritessuto, che avvolse il feretro di Francesco il giorno della traslazione (Fortini, pp. 193 s.).

Per il vero, d’Annunzio era “umile ed orgoglioso” (Di me a me stesso, [57]). L’ammetteva. Confessò: “[…] due dei vecchi nemici che San Francesco scaccerebbe e io ero riuscito a debellare, mi si sono di nuovo posti ai lati; a destra l’Orgoglio, a sinistra il Disprezzo”. Non sappiamo in quale misura ci fosse riuscito; ma di certo il suo “orgoglio «costituzionale»”, che corrispondeva alla volontà di realizzarsi (Di me a me stesso, [56]), approdò al punto più giusto: “Esser grande in se stesso e per se stesso: questo solo vale” (Di me a me stesso, [342]).

Ciò che di Francesco dovette colpire d’Annunzio in modo speciale, fu la magnificenza nella liberalità. Da giovane, Francesco aveva “il debole di sperperare le ricchezze, quasi fosse rampollo di un gran principe”; con poca convinzione dei genitori, pagava i banchetti per tutta la brigata: e gli amici lo eleggevano, felici e contenti, re delle feste! In effetti “cercava di eccellere sugli altri ovunque: nei giochi, nelle raffinatezze, nei bei motti, nei canti, nelle vesti sfarzose e morbide”. E quando poi fu povero, dava ciò che aveva addosso (Vita seconda, 4 e 2, e Leggenda perugina, 52-55)! D’Annunzio, che spendeva dieci volte di più di quanto guadagnasse (Antongini, p. 200), accostò povertà e sperpero: “Io mi serbo sempre povero, specie quando son ricco. Sin dai miei primissimi anni, il denaro non mi servì se non «per gettarlo dalla finestra»” (Di me a me stesso, [82]). Alcuni comportamenti: non entrava in un negozio, senza comprare qualcosa, anche se non trovava ciò che voleva, e spiegava così questa sua abitudine: “È vergognoso non comprare proprio niente; che colpa ha lui, se non ha la merce di buon gusto?”. Quando riceveva danaro, poi, al fattorino dava per mancia il 10% della somma percepita (Antongini, pp. 155 ss., pp. 160 ss.).

Il nucleo della tendenza del giovane Francesco a spendere più di quanto disponesse, era l’indifferenza all’utile: a lui importava la passione. D’Annunzio: “La passione vera non conosce l’utilità, non conosce alcuna specie di benefizio, […] il coraggio per il coraggio, l’amore per l’amore” (Regimen).

E il dono per il dono. Notò d’Annunzio, ancora: “Quando l’anima è bella non ha gioia se non nel donarsi grandemente”. Non era virtù. Ma grandiosità d’animo. Fin da piccolo. Rammento solo un ricordo del 10 giugno 1922 di d’Annunzio: fanciullo, dava ogni giorno la sua merenda ad un amichetto “poverello”, Cincinnato; e quando la madre di Gabriele, venuta a saperlo, voleva fornire il figlio di altra merenda, costui rifiutò per “non sentir menomato il piacere dell’offerta” (Nella piccola e Frammenti).

Il suo motto, “Io ho quel che ho donato”, a suo dire significava: ricevo nella misura in cui ho donato e dono nella misura in cui ricevo. Sembra comunque inoppugnabile la sua affermazione, secondo cui aveva sempre dato ciò che gli era chiesto e anche quel che non gli era stato chiesto, a parte nel caso in cui gli altri se ne approfittavano. Abitando a Parigi sull’Avenue Kléber, un italiano gli chiedeva soldi quasi ogni giorno e poi se li andava a spendere al bar. Antongini lo riferì sdegnato a d’Annunzio, che rispose sereno: “Che cosa pretenderesti? che si comprasse un’automobile con venti lire?”, e continuò sempre a fargli l’offerta (Antongini, pp. 166 s.). Viene in mente quel Francesco che si era prefisso di donare “a tutti quelli che domandavano” (Specchio di perfezione, 34 e Vita prima, 76); e quando un frate insinuò di un mendicante che si fingesse bisognoso, lo rimproverò duramente, gli ordinò di spogliarsi davanti allo straccione, di chiedergli perdono e di baciargli i piedi.

Le motivazioni erano differenti. Ma l’attitudine era quella. E, se non poteva fare di più o aveva dato quanto chiesto, d’Annunzio si scusava, come se fosse in debito. E nel regalare era delicatissimo. Un esempio: un generale, suo compagno d’armi, gli chiese certi polsini con le effigi delle Vittorie. D’Annunzio non ne aveva più: gli restavano quelli che portava addosso. Disse che andava a prenderli, si assentò, se li tolse, tornò e glieli diede; l’altro, accortosi che aveva polsini di diverso tipo, si rincrebbe. Ma d’Annunzio: “Non li metto quasi mai, perché, sai, quando scrivo mi infastidiscono col loro tintinnio” (Antongini, pp. 154 s.).

Un pensiero di d’Annunzio, scritto in quell’arco di tempo in rapporto ad amici lontani, sembra l’eco dell’atteggiamento donativo di Francesco: “E l’angoscia di non aver abbastanza donato, e l’angosciosa domanda: ‘ora che donerò? Come dimostrerò il mio amore’” (Regimen).

Francesco, ancora giovane, visitando San Pietro a Roma notò che la gente gettava pochi spiccioli all’altare di San Pietro. Aperta la borsa, prese a lanciarvi “denaro a piene mani”, tacciando di “taccagni” gli altri (I tre compagni, 10). In seguito si premurava dei bisogni dei preti e delle chiese povere. D’Annunzio lo lesse in Saint François d’Assise di Jörgensen, «Le baiser donné au lépreux». Di fatto fu molto generoso con frati, preti e suore. Un frate cappuccino gliene abbia dato atto. Costui si disse scettico se d’Annunzio imitasse per davvero san Francesco: “Ma posso darti testimonianza che in questo certo v’assomigliate, che tutti e due avete le mani bucate” (Nicodemi, p. 142). L’episodio era tuttavia narrato da d’Annunzio stesso (Fusco, p. 47).

È però da segnalare un caso che ha del sorprendente. Vanesio per gioco o per interesse, d’Annunzio non lo raccontò, forse, ad alcuno. Se così è, allora è qui, il d’Annunzio interiore.

L’8 ottobre 1925 due suore della Congregazione francescana di Gesù Bambino, provenienti dalla Casa generalizia situata vicino alla basilica della Porziuncola, bussarono al Vittoriale per elemosinare. Un servitore le invitò ad andarsene. Allontanatesi, furono raggiunte da un’automobile; ne uscì un uomo pregandole di tornare indietro. Giunte al cancello, lo riconobbero. D’Annunzio chiese loro perdono del trattamento e consegnò loro una lettera. Il testo della lettera (Porto, pp. 49-63):

“Care sorelle, la vostra visita inattesa fa fiorire i rosai del mio giardino, quasi in gloria di quello che è in Santa Maria degli Angeli e in Paradiso: in quel vostro luogo che, secondo la parola di Francesco, «sarebbe piuttosto soggiorno d’angeli che di uomini». / Ecco la mia offerta. È fatta col cuore di chi ogni anno mandava al Monte Subasio, per riconoscimento, un panierino di muggini pescati in quel fiume Chiasso che discende dal colle vicino a Santa Maria degli Angeli vostra. / Pax et bonum. / Malum et pax”.

Gianni Oliva (Oliva, p. 43) ha accostato l’aneddoto a quello di frate Angelo, compagno di Francesco, che invitò tre “crudeli omicidi” a tornare indietro (Leggenda perugina, 90; I fioretti di san Francesco, XXVI). Va fatto un rilievo. La frase: “sarebbe piuttosto soggiorno d’angeli che di uomini”, non era un’invenzione sua. Era nella liturgia della Indulgenza Plenaria della Porziuncola, che egli conosceva bene (Altri taccuini, 2, 1896).

Affinità immaginifiche francescane: gusto musicale

Tra i discepoli più fidati, Francesco ne ebbe uno che era stato famoso “re dei versi” e “gentilissimo maestro di canto”: Pacifico di Lisciano d’Ascoli. Gli chiedeva di suonargli la musica “molto dolcemente”. E si rivolgeva ad essa per sollevarsi dalle sue sofferenze. Anche moribondo. E magari cantava in francese. A volte, spinto dalla voglia di suonare, se non aveva lo strumento s’arrangiava: “raccoglieva un legno da terra, e mentre lo teneva sul braccio sinistro, con la destra prendeva un archetto con tenuto curvo da un filo e ve lo passava sopra accompagnandosi con movimenti adatti, come fosse una viella” (Vita seconda, 127 e Specchio di perfezione, 93). D’Annunzio lo sapeva, e trattando degli Spirituali immaginò che “talun dei più semplici dal vertice della rupe [del Morrone] aprendo le braccia verso l’aurora ripeteva con bocca fedele il Cantico delle creature, o lo cantava a gran voce di giubilo simulando con due legni il gioco del liuto […]” (La Vita di Cola di Rienzo). Ed è curioso un suo ricordo, annotato in taccuino, dell’amica americana residente a Zurigo, nel settembre del 1899: Clarissa, detta Melodia, cantava “le vecchie canzoni dei trovatori […], accompagnandole con gesti ingenui e puerili” (Altri taccuini, 11, 1899; 12, 1899).

D’Annunzio si commuoveva come un bambino, ascoltando la musica. Gian Francesco Malipiero ricordò: “Le sue lacrime, le sue commozioni egli le nascondeva, ma io le intuivo, perché mi rivelavano quella sincerità che il suo stile talvolta nascondeva sotto l’esuberanza del troppo fiorito linguaggio poetico” (Malipiero, p. 204). Si rivolgeva alla poesia musicale quando stava male (A Barbara, 17 novembre 1891), in specie durante la degenza del 1916: la musica e il canto “parlano come in un dramma religioso, come in un mistero sacro” (Mentre il mio corpo è lavato); e pensando all’inno che Giuseppe Miraglia aveva improvvisato alla maniera del Cantico: “M’incalza il cuore veloce non so che smania di canto” (È la mia magia, questa?).

D’Annunzio del resto si definiva “Ariel musicus” (L’amore trascolorato).

Affinità immaginifiche francescane: amore per gli animali

L’amore per gli animali fu per d’Annunzio un altro elemento, tra i più vivi, che gli fecero provare simpatia per Francesco. D’Annunzio, in effetti, ricordò più volte Francesco predicare agli uccelli, e al Vittoriale ne fece eseguire un dipinto (Fortini, p. 177).

Francesco parlava agli uccelli. Al di là dell’uso agiografico, il dato reale è che egli aveva squisita sensibilità per gli animali e con essi viveva rapporti molto semplici. Era il falco che instaurò un vero feeling con lui, alla Verna; era il fagiano che gli si affezionò tanto, che Francesco lo teneva abbracciato vezzeggiandolo con dolci parole; era il leprotto, ricevuto a Greccio, che si stringeva a lui e s’intrufolava tra il saio, e lui “come una madre” lo colmava di carezze; era una cicala, alla Porziuncola: dolcemente Francesco la invitava: “«Sorella mia cicala, vieni a me!»”, e la cicala gli volava sulle mani mettendosi a cantare. E poi le allodole, gli agnellini, e così via (Leggenda maggiore, VIII, 8 e 10, Vita seconda, 168 e 170).

D’Annunzio amò tutti gli animali, vipera a parte – egli pensava che una vipera lo avrebbe dovuto uccidere -, e arrivò a dire: “Si può forse conoscere la specie della mia umanità considerando che io sono stato amato senza misura e senza cautela dalle bestie, dalle donne e dai fanciulli” (Regimen). Se escludiamo l’amore per i levrieri e i purosangue, privo di attinenze «francescane» in quanto aristocratico e interessato, manifestò una sensibilità molto più ingenua.

Da fanciullo, istigato dalla sorella a strappare crini al cavallo – cui di nascosto portava la propria merenda da mangiare –, con i quali fare il cappio per catturare le rondini, non si sentì di usare i crini per accalappiare le rondini, e la sera li gettò nel camino (O malinconia). Da grande, a Venezia, sentendo voci di donne chine sul canale e saputo che stavano annegando gattini appena nati, concludeva, nel ricordare il fatto: “La calle stretta, il campiello deserto col suo pozzo murato, sapevano di assassinio” (Mi sembra); e sentiva pietà per gli uccelli spennati (“quei piccoli cranii nudi, quei becchi sanguinanti”) e i maiali ammazzati: “L’orrore mi cacciava di stanza in stanza” (Dall’Alpe). Ricordi d’infanzia. Ma non poté non pensare a Francesco, in questi ricordi, se, proprio in quei giorni, nel 1916, convalescente per l’operazione all’occhio, lo nominò nel guardare una cetonia che divorava una rosa, quando la pietà di sua figlia, combattuta “tra l’insetto e il fiore”, era assomigliata a quella del Serafico che “comprendeva l’uccello vorace e il verme beccato, il fuoco ardente e il vestimento arso, la carne inferma e l’erbe per guarirla premute” (È il sabato santo).

E sapeva quel che diceva! Derivò infatti il riferimento ai vermi dalla Vita prima, 80, e dalla Vita seconda, 165, in cui però Francesco li toglieva dalla strada per salvarli. Il riferimento al fuoco lo derivò dalla Leggenda perugina, 49: accidentalmente, il fuoco si attaccò alle braghe di Francesco, un frate tentò di spegnerlo, ma Francesco oppose un garbato rifiuto: “«Carissimo fratello, non far male a fratello Fuoco!»”, sicché il compagno, allarmato, pensò bene di far intervenire il superiore. Quanto alle erbe che, triturate, servivano per le infermità corporali, già altrove d’Annunzio ricordò come Francesco chiese che gli si cogliesse il prezzemolo (Vita seconda, 51).

C’è poi un episodio nell’opera dannunziana (Forse che sì forse che no) di particolare tenerezza, con un nesso, sia pur solo oggettivo, con l’abitudine di Francesco di parlare agli animali, in specie se questi erano o catturati, o in difficoltà, o riluttanti a lasciarlo.

Isabella Inghirami si accorse che una rondinetta era penetrata in casa, “la prese nelle sue mani palpitante”. “«Come sei venuta? Sei caduta dal nido?”», “«Ah, sei già forte!”», “«Dunque volavi?”», “«Se ti rilascio, saprai volare? fin dove?”», “«Eccola. Le diamo la via?”», “«[…] volerà?”», preoccupata che la piccola creatura potesse, di sera, diventar preda dei pipistrelli.

Un altro episodio: con esplicito richiamo francescano. Protagonista, Anna, figura tratta dalla gente d’Abruzzo (La vergine Anna), in conversazione con un frate minore cappuccino. Ella, che nutriva per una testuggine un affetto “materno”, vedendola uscita dal letargo “fu invasa da una tenerezza ineffabile e stette a guardare con occhi umidi di lacrime. […] si sentì stringere da una gran misericordia; […] eccitava pianamente l’animale con le voci e sceglieva per lui le erbe più tenere e più dolci”.

“Allora Fra Mansueto fece alcune riflessioni morali e lodò la Provvidenza che dà alla testuggine una casa e le dà il sonno durante la stagione d’inverno. Anna […] soggiunse: «Che penserà?» E dopo un poco: «Gli animali che penseranno?». / Il frate non rispose. Ambedue rimasero perplessi. […] / […] Il frate disse: «Dio sia lodato». E ambedue rimasero cogitabondi, sotto i verdi alberi, adorando nel loro cuore Iddio”.

La lode a Dio veniva dopo che i due avevano osservato la fila delle formiche laboriose e riproponeva l’abitudine di Francesco di lodare gli animali per le qualità che rappresentavano le virtù – Francesco prediligeva l’agnello per la sua mansuetudine e umiltà (Vita prima, 77). Anna amava nella testuggine “i costumi: il silenzio, la frugalità, la modestia, l’amor della casa”. Francesco diceva agli uccelli (Vita prima, 58, da cui derivò il capitolo XVI de I fioretti di san Francesco, «Come santo Francesco […] predicò agli uccelli e fece stare quete le rondini», che d’Annunzio conosceva bene già dal 1884:

“«Fratelli miei uccelli, dovete lodare molto e sempre il vostro Creatore, perché vi diede piume per vestirvi, ali per volare e tutto quanto vie è necessario. […]: voi non seminate e non mietete, eppure Egli vi soccorre e guida, dispensandovi da ogni preoccupazione». A queste parole […] gli uccelli manifestarono il loro gaudio secondo la propria natura, con segni vari, allungando il collo, spiegando le ali, aprendo il becco e guardando a lui. Egli poi andava e veniva liberamente in mezzo a loro, sfiorando con la sua tonaca le testine e i corpi”.

Siglario dei testi citati

A Barbara: Lettere a Barbara Leoni, Premessa di Bianca Borletti, Nota di Pietro Paolo Trompeo, Milano, Sansoni, 1954.

Ad Annibale Tenneroni: Gabriele d’Annunzio, Prefazione a La Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio e mandata ad Annibale Tenneroni suo amicissimo.

A Francesco Paolo Michetti: Gabriele d’Annunzio, Dedica de Il piacere.

A Mario da Pisa, Gabriele d’Annunzio, Lettera introduttiva a Contemplazione della morte.

Andreoli: Annamaria Andreoli, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 2002.

Antongini: Tom Antongini, Quarant’anni con D’Annunzio, Milano, Mondadori, 1957.

Caliaro: Ilvano Caliaro, Prefazione e note a Gabriele d’Annunzio, Alcione, a cura di Pietro Gibellini, Torino, Einaudi, 1995.

Dall’Alpe: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

Di Ciaccia: Francesco di Ciaccia, D’Annunzio e le donne al Vittoriale. Corrispondenza inedita con l’infermiera privata Giuditta Franzoni, Presentazione di Pietro Gibellini, Milano, Asefi Terziaria, 1996.

Di me a me stesso: Gabriele d’Annunzio, Di me a me stesso, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1990.

È il sabato santo: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

È la mia magia, questa?: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

È la Pasqua di Resurrezione: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

Fortini: Arnaldo Fortini, D’Annunzio e il Francescanesimo, Assisi, Edizioni Assisi, 1963.

Frammenti: in Gabriele d’Annunzio, Il libro ascetico della giovane Italia.

Fusco: Gian Carlo Fusco, Le rose del ventennio, Milano, s.e., 1974.

L’amore: in Gabriele d’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti.

L’amore trascolorato: in Gabriele d’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti.

La vergine Anna: in Gabriele d’Annunzio, Le novelle della Pescara.

Leggenda maggiore: San Bonaventura da Bagnoregio, Leggenda maggiore o Vita di san Francesco d’Assisi.

Libro segreto: Gabriele d’Annunzio, Cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire.

Malipiero: Gian Francesco Malipiero, Ariel musico, in «Scenario», aprile 1938.

Mentre il mio corpo è lavato: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

Mi sembra: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

Nella piccola: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

Nicodemi: Giorgio Nicodemi, Testimonianze per la vita inimitabile di Gabriele D’Annunzio, Milano, Ariel, 1943.

Oliva: Gianni Oliva, Medievalismo e francescanesimo nell’estetismo italiano, in San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana del Novecento. Atti del Convegno Nazionale (Assisi, 13-16 maggio 1982), a cura di Silvio Pasquazi, Roma, Bulzoni, 1982.

O malinconia: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

Quando Sirenetta: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

Porto: Giuseppe Porto, D’Annunzio francescano in una lettera inedita, in «Quaderni del Vittoriale», 19, gennaio-febbraio 1980.

Regimen: in Libro segreto (si veda).

Ripudio della povertà: in Gabriele d’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti.

Sonnolenza: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.

Via crucis: in Libro segreto (si veda).

Vita prima: Tommaso da Celano, Vita prima di san Francesco.

Vita seconda: Tommaso da Celano, Vita seconda di san Francesco.

Note


[1] Con varie interruzioni, fu qualche mese a Francavilla dal luglio 1888 lavorando a Il piacere; dal 2 luglio al 31 ottobre 1889; dal 12 marzo al 26 agosto 1891, per L’Innocente (scritto “nel Convento francescano”, Regimen) e Giovanni Episcopo; dal 22 dicembre 1893, per continuare il Trionfo della Morte: alla sua conclusione, il 12 aprile 1894, furono suonate per un’ora le campane del Convento; dall’ottobre 1894 alla fine dell’anno, proseguendo la stesura de Le vergini delle rocce, conclusa il 30 giugno 1895; nella seconda metà del 1895, per redigere il discorso L’Allegoria dell’Autunno; nel 1896, per terminare Canto nuovo e iniziare Il fuoco; per quaranta giorni dalla fine di settembre lavorando a La città morta. L’ultimo soggiorno fu nel dicembre 1897.

[2] Qui rammento solo il nesso esteriore eros-tempio. Con le sue donne pie, egli andava spesso in chiesa, anche per le funzioni sacre (A Barbara, 25 marzo 1891, 1 giugno 1991). In poesia: “A San Giorgio io vi guidai, / […] / Ivi alfin l’amor s’aprì” (Romanza di Intermezzo melico de La Chimera). Ne Il piacere, libro terzo, Andrea attendeva Elena nella stanza “religiosa, come una cappella”: il letto, “sopra un rialzo di tre gradini, all’ombra di un baldacchino” con arredo sacro, e un’Adorazione dei Magi sulla “tavola del caminetto, come su la tavola di un altare”. Tutto “sacrilego”, ha osservato Oliva, p. 45, a proposito del letto che parve “un altare” quando, braccia aperte, capelli sciolti, la donna vi si stese (Donna Francesca de La Chimera). Per l’autore, “nemmen l’ombra d’una intenzione antireligiosa” (Note a Donna Francesca).


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