Presentazione di D’Annunzio e le donne al Vittoriale
L’insondabile personalità
19 gennaio 1998
Milano, Associazione Necchi per la Formazione culturale
Università Cattolica
la
Scheda del libro
La personalità dannunziana è molto complessa. Egli
univa in sé, ad esempio, il piacere della semplicità e il gusto della
ricercatezza, pur sempre all’insegna dell’estetismo. E aveva soprattutto una
forte esigenza di libertà, proprio perché la sua personalità multiforme, con
contrastanti e opposte tendenze, esigeva di potersi esprimere in modalità assai
diverse e magari contrarie.
Valga un esempio, che si colloca nel 1922, all’inizio
della sua ultima dimora al Vittoriale – quella residenza che ancora si chiamava
villa di Cargnacco. Quando l’Italia era invasa da ondate ideologiche contro il
socialismo, d’Annunzio ricevette personalmente, il 27 e il 28 maggio, il
Commissario sovietico agli affari esteri, Čičerin. E a chi se ne stupiva,
ribatteva che bisognava rassegnarsi a quello che c’era in lui “di lontano e di
misterioso e d’ineffabile” (Andreoli,
p. 592).
Per il vero, anche
dopo la disaffezione francescana,
in seguito alla delusione per il suo
mancato intervento alle celebrazioni di Assisi del 1925-1926, d’Annunzio
continuò a coltivare una grande fiducia in san Francesco, come testimoniano le
sue parole a proposito del significato del quadro di San Francesco e il
lebbroso, a capo del letto-culla nell’omonima Stanza del Lebbroso. Più che
in passato, d’Annunzio si accostò ad una visione della vita decisamente pagana e
tuttavia continuava a pensare, con sempre maggior convinzione, che il Santo di
Assisi fosse il consolatore delle anime (Nicodemi, p. 141), soprattutto se
afflitte e agitate come la sua.
Questi cenni, parziali ed esemplificativi, servano
semplicemente per aprire il discorso sulla insondabilità, stando al
convincimento di d’Annunzio, della sua stessa personalità.
In un passo di un testo riveduto e pubblicato
all’epoca del Vittoriale (Le parole dell’anima nuda di Lucrezia Buti),
d’Annunzio, dopo aver accennato al cartello posto dai Romani sulla croce di
Cristo, di sé vergò enigmatiche parole, rilevando come le proprie iniziali
corrispondessero con quelle di Giuseppe d’Arimatea:
“Il cartello a me destinato non è ancor
scritto. Bianco passa di mano in mano. O è ripiallato dal falegname se
qualche sillaba v’è taciuta da un carbone spento. / Giuseppe d’Arimatea,
e la sua sindone / G. D’A.!! / Nicodemo”.
Questo è il concetto di siffatto appunto: il
“cartello” che lo riguarda, cioè la definizione della sua persona, non è
concluso. In altri termini, la sua persona – ma ciò vale, sostanzialmente,
per ogni persona – non è definibile.
L’occasione esistenziale, in cui d’Annunzio ebbe ad approfondire questo
concetto, fu la morte dell’amico Adolphe Bermond – quasi contemporanea a quella
di un altro amico, Giovanni Pascoli. Adolphe Bermond era il locatore dello
chalet Saint-Dominique a Moulleau presso Arcachon
–
in cui d’Annunzio abitò dall’estate del 1910, nell’«esilio» francese, fino al
1915 -, e soprattutto era un fervente cattolico. Per questa circostanza funebre,
nell’aprile del 1912, d’Annunzio scrisse articoli, pubblicati in sede
giornalistica dal 19 aprile 1912 al 12 maggio successivo con il titolo Per la
morte di due amici, poi riediti in volume presso l’Editore Treves con il
titolo Contemplazione della morte.
Le annotazioni dannunziane si appuntavano soprattutto
sulla sofferenza del moribondo e, connessa con questa, sul sacrificio di Cristo.
Tralascio tutta la descrizione e pervengo al nucleo finale: interrogatosi sul
Cristo del Golgota, in una connessione con il proprio stesso vissuto d’Annunzio
faceva una dichiarazione. Incominciava una ricerca. La strada della ricerca lo
portò in mezzo ad un gruppo di frati minori cappuccini. Trascrivo la pagina
narrativa, che è anche un po’ ermetica.
«Ora sento continua sopra il mondo la presenza del
sacrificio di Cristo; e sento per ciò in confuso la mia voce e le mie azioni
diversamente ripercuotersi, come quando taluno con gli occhi bendati entra sotto
una ignota cupola sonora. Ma chi troverà il luogo dell’eco perfetta e l’accento
giusto per la grande ripercussione?».
Ma dove si sente la risonanza del sacrificio
purificatore? Chi è che ha la parola giusta per dirlo?
Così d’Annunzio scrisse, nei suoi appunti:
«Da Ferrara, in un giorno di novembre, mi mossi per
cercare un’eco famosa. [...] Avevo in me l’inquietudine della divinazione; e di
tratto in tratto, credendomi di riconoscere il punto, gettavo un richiamo; e
ogni richiamo rimaneva senza risposta [...]. Allora giunsi a un piccolo poggio
verde che ha il nome di Montagnola; e quivi era a diporto una compagnia di
giovani cappuccini, condotta da un frate barbuto, e le tonache dei novizii
avevano lo stesso colore delle foglie sparse per l’erba. Mi rivolsi al frate per
dimandargli novelle dell’eco; ed egli n’aveva una memoria vaga, come di cosa
scomparsa. Solo sapeva di certo che laggiù un muro era crollato in una casa
visitata dall’incendio. I novizii tonduti rimasero pensosi. [...] Vagai ancóra
intorno al poggio e per gli argini chiamando, provando; e il tono della mia voce
mi faceva soffrire, tanto era lontano da quello della mia anima ed estraneo al
mistero che perseguivo. Nondimeno la qualità del mio scontento era nuova e
mirabile. Tornai su le mie orme [...]. Rividi sotto il poggio le foglie e le
tonache fulve. M’appressai. I novizii erano assorti e taciturni; e qualcuno,
[...] tenendo gli occhi bassi, mi pareva che sentisse con le palpebre la
freschezza della sua anima. Io dissi: ‘Non c’è più ! Forse è morta. Era la più
bella del mondo’. I novizii erano pieni d’ansia, e forse di miracolo; e mi
pareva che inclinassero verso la terra un orecchio musicale. Ma il frate mi
disse, placido: ‘A San Francesco ve n’è una sotto la cupola, che ripete Ave tre
volte’. Certi ricordi chiedono di essere interpretati come le visioni; ma dov’è
il mio interprete? E, se voi ora per me sollevaste il velo, che scoprireste se
non la vostra certezza?» (Taccuini, XX [1898]).
Una pura curiosità storica è che i novizi cappuccini,
all’epoca, osservavano realmente la pratica di «tenere gli occhi bassi»; ed una
osservazione estetica è il simbolismo espressivo della scrittura dannunziana,
come in quel «sentire con le palpebre la freschezza dell’anima», che sta
semplicemente a significare come quei personaggi fossero in meditazione con se
stessi, quasi «si vedessero» in limpidità di sguardo. Ma l’essenza del discorso
verte sulla «nova» consapevolezza del senso del proprio vivere.
Che parola aveva l’eco del sacrificio di Cristo,
nell’animo di d’Annunzio? Che cosa gli disse, in altri termini, la «santità» –
il vocabolo fu usato qui da d’Annunzio, in Contemplazione – d’una vita
cristiana? Rispose d’Annunzio stesso, riflettendo come segue:
«Come la spogliazione dei beni vani fu agevole e quasi
senza ombra di rammarico! Si vide che la magnificenza del mio vivere non era nei
miei velluti e nei miei cavalli».
È questo il sentimento che egli provò di fronte ad una
morte cristiana: la mano di un vecchio morente – egli scriveva – gli strappava
«la vecchia spoglia». D’Annunzio si riproponeva la necessità dell’annullamento:
«Avendo perduto qualche bel legno tarlato, qualche bel
vetro incrinato, qualche bel ferro arrugginito, entrai nel possesso di questa
più bella verità: esser necessario bruciare o smantellare i vecchi tetti. [...]
‘Dopo aver tutto ottenuto per ingegno, per amore o per violenza, bisogna che tu
ceda tutto, che tu ti annienti’» (Contemplazione, XV Aprile MCMXII).
Quest’ultima frase sembra essere detta dall’amico
Bermond: forse, un consiglio opportuno. Potrebbe, però, essere un pensiero che
l’autore rivolgeva a se stesso. Sta di fatto che l’idea dell’«annientarsi» si
configgeva, ancora una volta, nella testa e sulla carta, con icastica potenza.
Che cosa era ciò, da cui d’Annunzio doveva recedere?
Che cosa abbandonare, in che cosa annientarsi? Lo puntualizzava egli stesso,
nello stesso brano: il lusso. Il lusso, all’epoca, sembrava costituire lo stigma
più evidente dell’autoesaltazione e della vita intesa come irrefrenata
autogratificazione.
Da ciò, la lotta tra la fascinazione di Cristo e la
realizzazione di sé secondo la personale configurazione esistenziale.
In effetti, dopo aver saputo del luogo e del timbro
dell’«eco» del sacrificio di Cristo, d’Annunzio capì la seguente verità:
«Certo, da una limitazione può nascere la più vasta
vita, e una mutilazione può moltiplicare la potenza, come sa il potatore».
Però, proprio questa «parola», insieme di rinnovamento
e di morte, turbava al punto l’animo dell’uomo, che gli faceva stringere i denti
per non proferirla: «anzi oppongo al loro impeto i denti serrati, perché temo di
perdermi e di non più ritrovarmi».
In altri termini, le parole che dicono rinuncia,
mortificazione, annullamento delle passioni, sacrificio di sé, risuonavano
terribilmente pericolose: rischiavano di fargli cambiare i connotati di vita. È
quasi questione di identità: il pericolo è perderla! E tuttavia, d’Annunzio si
chiedeva se il presentimento di dover «mutar d’ale» non fosse per caso divenuto
«un comandamento di ferro e di diamante», non fosse «divenuto alfine la
raggiante e lacerante necessità». E confessava:
«Nondimeno mai, da che vivo, non ebbi un istinto e un
bisogno di mutazione tanto profondi e agitati».
E ricordando una lontana visita nel Camposanto di
Pisa:
«[...] mi parve che, se avessi dovuto cominciare la
mia vita nuova, avrei scelto per luogo del cominciamento quel divino chiostro»,
e ne citò una scritta, che egli dichiarava più
importante della terra del Calvario, lì conservata:
«Forse avverrà che quivi un giorno io rechi il mio
spirito, fuor della tempesta, a mutar d’ale».
La mutazione non avvenne. Tuttavia il conflitto, o
meglio l’autoconsapevolezza, toccò punte d’ansia:
«Mai Gesù mi fu più vicino, e mai n’ebbi un senso
tanto tragico. In un libro disegnato or è quindici anni, sacro e sacrilego, io
immaginavo che il ‘bellissimo nemico’ discendendo dal Golgota dopo il supplizio
entrasse nella casa della Veronica e quivi s’intrattenesse con la pia donna a
parlare misteriosamente del Re crocifisso mentre nell’ombra la Faccia divina e
dolorosa splendeva di sudore e di sangue nel sudario spiegato. Dal giorno del
vostro pianto, agli interni miei colloquii col mio nascosto nemico assiste
nell’ombra il sudario della Veronica».
Coincidenza significativa: una stanza della sua casa
natia conteneva un quadro raffigurante il “sudario della Veronica”. D’Annunzio
lo ricordò, nel 1916, nel Notturno (Le mura di Pescara).
Quindici anni prima della
Contemplazione,
il libro che d’Annunzio stava – come ha qui detto – «disegna[ndo]» era una
biografia di Cristo. La ricerca sul Cristo, non solo sul piano storico, ma anche
su quello religioso, era praticamente continuata fino al tempo della
Contemplazione, o oltre, ma non si era mai concretizzata in un’opera, che
egli aveva divisato nel 1896. Orbene: il Cristo di d’Annunzio faceva capo ad una
raffigurazione che aveva come definizione il «bellissimo nemico».
Questa espressione, richiamata appunto in
Contemplazione,
spiega l’attrazione-repulsione di d’Annunzio nei confronti di Cristo. Gesù lo
affascinava, ma lo affascinava perché lo «disturbava» (Granatella, pp. 55 ss.);
e lo attraeva al punto che egli «non [poteva] più abbandonarlo» («Parabola del
bellissimo nemico», ne Il Venturiero
senza ventura).
Gesù appariva a d’Annunzio come il Dio della lotta,
della lotta contro se stesso per obbedire a se stesso, cioè a un destino
immanente che doveva realizzare «pienamente» la sua natura. Tra i tanti
riferimenti a Gesù sofferente, a quel Gesù del Golgota che ritornava nella
Contemplazione,
c’era quello allo strazio di Cristo nell’orto degli ulivi, registrato nei
Taccuini del settembre 1896 e poi ripreso ne «Il vangelo secondo
l’avversario» de Il Venturiero senza ventura; in quest’ultima prosa egli
dichiarava:
«La passione e l’orazione nell’orto mi scavano, mi
penetrano a fondo, mi rivelano che la solitudine amara e il sacrifizio ebro sono
la mia predestinazione vera». E continuava:
«Perché patisco io dentro me così profondamente la prova del frantoio?».
D’Annunzio aveva dunque il suo rovello dentro di sé; e
il simbolo del rovello era il sudario della Veronica: l’immagine dell’uomo
«franto», schiacciato come in un «frantoio», che la donna portava con sé e per
la quale Gesù, secondo la fantasia letteraria di d’Annunzio, si era recato,
«dopo il supplizio» e la morte, a casa di lei, «a parlare misteriosamente del Re
crocifisso».
Nei suoi colloqui nascosti con il nascosto nemico d’Annunzio
parlava all’ombra di questo sudario.
Ma il problema per d’Annunzio si poneva in termini
interrogativi: qual era la sua natura vera? Quale la “parola”, che gli dicesse
chi egli fosse nel senso più profondo?
Da qui nasce il mistero dell’insondabilità
della sua personalità e, in filigrana, di ogni persona umana. “So, che, per
farmi nuovo, io non debbo obbedire a una parola già detta ma a una parola non
ancor detta”.
C’era dell’altro, oltre alla “parola detta”. Dinanzi
alla “bocca semiaperta e senza pace” del Cristo di gesso di Domenico Trentacoste
a Firenze, il 22 giugno 1907, d’Annunzio commentò: “[Cristo] ha detto tutte le
sue parole?”. E di nuovo in Contemplazione: “Ma il Cristo ha veramente
detto tutte le sue parole?” (Taccuini, LI, 1907).
D’Annunzio, dunque, non ci si ritrovava, nell’annuncio
storico di Cristo. La “parola non detta” è quella che ognuno è chiamato a
scoprire dentro di sé. E nessuno può sostituirsi all’altro:
“E, se voi ora per me sollevaste il velo, che
scoprireste se non la vostra certezza?”, avvertiva in Contemplazione.
Ognuno ha il suo segreto, e il segreto è svelato dal
“demone” interiore:
“Bisogna che il Vangelo secondo l’Avversario mi
conduca infine ad amarlo in me e ad amarmi in lui. Non lo vedrò grandeggiare se
non lascerò grandeggiare il mio stesso demone”.
Siglario delle opere citate
Andreoli: Annamaria Andreoli, Il vivere
inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 2002.
Contemplazione,
Gabriele d’Annunzio, Contemplazione della morte.
Granatella: Laura Granatella, Il Cristo dei
«Taccuini», in D’Annunzio e la religiosità, pp. 55-66, in
D’Annunzio e la religiosità. Atti del convegno 22-23 giugno 1981,
in «Quaderni del Vittoriale», n. 28, luglio agosto 1981.
Lucrezia Buti:
Gabriele d’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti (Le faville
del maglio).
Nicodemi: Giorgio Nicodemi, Testimonianze per la
vita inimitabile di Gabriele D’Annunzio [raccolte da Giorgio Nicodemi;
illustrate da disegni di Anselmo Bucci e di Guido Cadorin], Milano, Ariel, 1943.
Taccuini:
Gabriele d’Annunzio, Taccuini, a cura di Enrica Bianchetti e Roberto
Forcella, Milano, Mondadori, 1965.
[Francesco di Ciaccia, L’insondabile personalità. Presentazione di
D’Annunzio e le donne al Vittoriale, 19 gennaio 1998, Associazione Necchi
per la Formazione culturale, Università Cattolica, Milano, con la partecipazione
di Attilio Agnoletto e Paolo Paolini, Università degli studi di Milano. Testo
rivisto nel 2012].
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