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Un cuore grande. Beato
Arsenio Maria di Trigolo Cappuccino (1849-1909).
Fondatore delle Suore di Maria
Ausiliatrice
“Compie con
soddisfacente accuratezza i suoi compiti”. Insomma, si dà da fare con scrupolo,
come prefetto della Congregazione mariana degli operai o artisti e come
assistente spirituale dei missionari per gli emigranti: compito che gli era
stato assegnato. Lo ammette il suo Superiore, gesuita, a Piacenza. Però, “ha un
modo di parlare non fluente e una voce esile e non molto gradevole” (p. 46). In
pratica, nonostante il suo buon volere, agli uditori non piace tanto. Comunque,
da lì a poco i gesuiti lo sbattono via.
Ma andiamo un po’
indietro.
Seminarista, a
quattordici anni e fino a ventidue anni di età, è molto bravo a scuola e nello
studentato di teologia gli vengono persino accorciati gli anni; poi, da
sacerdote – ordinato a venticinque anni, nel 1874 – adempie con compiutezza
lodevolissima tutti i doveri ministeriali. Ma ecco che lascia la diocesi, cioè
lo stato di presbitero diocesano, e si fa gesuita.
Un disastro.
Ancora non lo
sappiamo, noi che seguiamo man mano la sua storia. Certo è che, fin da allora,
c’era chi vedeva questa scelta “un fallimento annunciato” e chi “una scelta di
ripiego”, sintetizza il biografo Giovanni Spagnolo, concludendo che comunque,
per certo, questa strana decisione del Nostro, all’epoca don Giuseppe
Migliavacca, “avveniva alla fine di un periodo di lotte interiori, ma forse
anche esteriori” (p. 25).
Strana decisione.
Perché? Tutto non si sa e non si può sapere, ma un dato è che, nella parrocchia
in cui al momento esercitava il ministero, a Cassano d’Adda, il Nostro “non si
trovava bene” e al contempo “amava i cappuccini e a quelli anelava”, ha
dichiarato al riguardo mons. Paolo Rolandi (p. 78 n. 169). Se poi scelse la
Compagnia di Gesù, è forse per il consiglio del suo confessore durante un corso
di esercizi spirituali compiuti nel 1875. Se questo è dubitativo, è certo che il
Nostro stava attraversando un periodo di grandi “avversità”. Lo dichiarò in una
lettera egli stesso. Avrebbe voluto da tempo “lasciare il mondo”, cioè farsi
religioso, ma mai aveva avuto “le forze” di farlo – scrive ancora –, se non
quando gli erano capitate “tutte quelle disgrazie” (p. 26).
In concreto, poté
essere davvero una scelta di ripiego.
Disastrosa.
Fervoroso
nell’ascesi, rigorosamente fedele agli insegnamenti ignaziani, perfetto “cadaver”,
ubbidiente cieco, nella “santa indifferenza”, disponibile in tutto, proponimenti
sinceri e santi e spirito di orazione (p. 30). Tutto a posto. Gli mancava però
una cosa: l’adeguata capacità di apprendimento intellettuale, per cui fu
bloccato, nella Compagnia di Gesù, al grado di operarius, cioè
“coadiutore spirituale” (p. 40).
Ma non importa.
Quisquilie. Si va avanti con impegno nella vita interiore e nel ministero
sacerdotale. Il Nostro cresceva, come si può e come si suol dire, in età, in
grazia e in virtù.
Ma qualcosa andava
storto.
Anzi, tutto.
Ad esempio, “compie
con accuratezza i suoi compiti”, insomma è bravo, attesta un suo superiore il 21
gennaio 1892, ma – come ho ricordato proprio in esordio – “ha un modo di parlare
non fluente e una voce esile e non molto gradevole”. Il che, siccome doveva
proprio parlare e predicare in qualità di Prefetto della “Congregazione mariana
degli operai o artisti” ed era assistente spirituale di una casa missionaria
fondata da Giovanni Battista Scalabrini, non era cosa da poco.
C’è di più: accusato
dai superiori gesuiti di “gravi imprudenze”, di “imprudenze non leggere”.
Quali fossero, con
certezza non si sa. Si suppone concentrate su due direzioni. Una, l’appoggio
alla controversa fondatrice religiosa, tal Fumagalli. Si vedrà. L’altra,
l’atteggiamento favorevole verso il vescovo Giovanni Battista Scalabrini.
Costui era inviso ai
vertici vaticani e alla Congregazione del Santo Offizio in quanto era un
esponente della linea, detta transigente o conciliatorista, che propugnava
l’intesa tra cattolici e non cattolici contro la chiusura vaticana nei confronti
del nuovo Stato italiano. Coloro – tra cui si poneva un tal Manzoni
– che denunciavano la contrarietà vaticana verso lo Stato
italiano, criticavano la prepotenza stivalesca nel volersi prendere le terre
vaticane e criticavano la stramberia – questa definizione però è mia – vaticana
di voler tenersi un “regno terrestre”.
La linea transigente
o conciliatorista era avversata in particolare dai gesuiti, nemici
intransigentissimi di tutti coloro che sostenevano la possibilità del
superamento, a livello teorico e a livello pratico, del Potere temporale del
Papato. Tra gli inconciliabili nemici, cioè i conciliatoristi, gli intransigenti
inconciliabili collocavano – all’epoca era così, poi le posizioni sono cambiate,
quando si sono capovolti i cervelli nella zucca del cranio e i soldoni nella
zecca dello Stato – l’abate Antonio Rosmini e quel tal Manzoni.
Questa posizione
politica non coincideva tout-court con quella teologica, però per alcuni
aspetti e in molti casi si innestava nel pensiero legato al liberalismo politico
e all’apertura nei confronti delle acquisizioni socio-politiche, storiografiche,
ermeneutiche, antropologiche, filologiche, semiotiche ed esegetiche recenti,
dette appunto “moderne”. Tra i sostenitori delle recenti teorie si annovera, sul
piano politico-religioso, ad esempio anche il vescovo Geremia Bonomelli, il
quale sosteneva che il Potere Temporale del papato produceva – ma in realtà
produce sempre, ieri, oggi, domani, cioè “già e poi ancora”, un motto inventato
da me adesso – danni incommensurabili “tanto materiali quanto spirituali
all’Italia” (1° marzo 1889) e nella lettera pastorale del 1905 in occasione
della legge francese sulla separazione fra Stato e Chiesa affermò che la Chiesa
separata dallo Stato avrebbe goduto di una maggiore libertà.
Questa breve
esposizione serve per comprendere quanto e perché i gesuiti non fossero ben
disposti verso il Migliavacca. Si cercò di costringerlo alle dimissioni
volontarie dalla Compagnia di Gesù. Con le buone o con le cattive: con le buone,
cercando di persuaderlo a rassegnare le dimissioni; con le cattive, mettendolo
in condizioni di seria difficoltà, per modo che quel Padre gesuita si fiaccasse,
si stancasse, si abbattesse e alla fine fosse proprio lui a chiedere le
dimissioni. Questa strategia, efficace e collaudata nella storia del “già e poi
ancora”, venne esposta dal vicario generale della Compagnia (nella lettera del
19 marzo 1892) in sinergia con il padre provinciale del Migliavacca.
Qualche giorno dopo
il Migliavacca chiede e riceve le dimissioni dalla Compagnia di Gesù. Era il 24
marzo 1892.
Se sia stato vero che
una delle cause – a parte le accuse calunniose orchestrate contro di lui, che
oblitero volutamente, perché così ridicole che sembrano scherzose – della
diffida della Compagnia di Gesù nei confronti del Migliavacca abbia avuto
fondamento nella prossimità di costui al suddetto Scalabrini, non stupisce il
comportamento nei suoi confronti, se si tiene presente l’inaudita ferocia
persecutoria dei gesuiti nei confronti di Antonio Rosmini e di riflesso del
Manzoni, per qualche aspetto suo discepolo.
Fatto sta che i
superiori della Compagnia di Gesù stilarono a suo riguardo, proprio a proposito
del suo “animo”, questo giudizio: “non solo debole, ma […] da far pensare […]
che non recederà dal proprio modo di sentire e di pensare” (p. 49, n. 94).
Insomma: debole e caparbio. Fragile e cocciuto.
Giovanni Spagnolo
indica il Migliavacca come “costretto” a chiedere le suddette dimissioni. E fin
qui si tratterebbe solo di una costrizione ab extrinseco.
Ma già questa ci
conduce a comprendere la riflessione che il Migliavacca fa su quell’evento:
ricevere “ogni cosa dalle mani del Signore come Egli ha ricevuto”, ha ricevuto
tutto (“patimenti” e “croce”) dal “Padre” (p. 49).
Tenere a mente questa
frase, perché in essa sta la soluzione.
Oltre la costrizione
ab extrinseco c’è un’altra: interna. Ab intrinseco.
Eccola: dando le
dimissioni dalla Compagnia di Gesù – in cui pur era vissuto in modo integerrimo
e lodevole – egli percepisce la coscienza – forse in un fulgore coscienziale
fulmineo, istantaneo, penetrato nel midollo delle ossa, dei nervi e dell’anima –
di non avere alcuna attitudine per la Compagnia di Gesù. Conclude il biografo:
“inutile in tutto insomma” (p. 49).
Il niente del
passato – anzi il biografo scrive: “la sua vita passata, presente e futura” (p.
49) – uguale a zero!
Il niente del
proprio esistere.
Il niente di
tutto se stesso!
Di tutto quello che
aveva vissuto, di tutto quello su cui ci si era fondati, di tutto quello che
aveva patito e di cui era patito, di tutto quello che egli aveva
acquisito, di tutto quello per cui e su cui si era programmato: tutto è
niente!
Come scendere
nell’abisso del nulla di sé.
Uscito dalla
Compagnia di Gesù il Migliavacca ebbe l’occasione di predicare alle suore
dell’Istituto fondato dalla citata Pasqualina Giuseppina Fumagalli da Cassano
d’Adda, dietro invito proprio di costei e con la favorevole, anzi entusiastica
accettazione dell’arcivescovo di Torino, mons. Davide dei Conti Riccardi (pp.
52s.).
I due, Migliavacca e
Fumagalli, già si conoscevano. Padre Giuseppe era stato per qualche tempo suo
confessore, per cui sussisteva una reciproca fiducia al punto che egli aveva
indirizzato all’Istituto di lei alcune giovani aspiranti alla vita religiosa.
Tutto filava liscio, tanto più che proprio l’arcivescovo di Torino – nella cui
diocesi era situato, all’epoca, l’Istituto della Fumagalli – si dimostrò
favorevole alla predicazione prospettata dal Migliavacca. Non solo. E qui emerge
ancora la contraddizione tra il bene, voluto e compiuto, e il male che cade tra
capo e collo. Il male, no: diciamolo meglio con il termine usato nel titolo: il
disastro.
Il bene, da una
parte. Il Migliavacca in realtà non è che non fosse stimato per niente. Lo era
anche dai gesuiti, o perlomeno da alcuni o molti di loro, dato che nella
Compagnia di Gesù “era stato appreso con dispiacere che se ne fosse andato” (p.
51) e fu proprio un Padre gesuita, Michele Audisio, a raccomandarlo
all’arcivescovo di Torino in ordine alla predicazione presso l’Istituto della
Fumagalli. L’arcivescovo di Torino, notata la buona stoffa non dell’abito
(religioso) – che non aveva più – ma dell’anima del “chierico vago”, quale era
giuridicamente al momento Giuseppe Migliavacca, puntò su costui nell’estremo
tentativo di salvare il salvabile in quell’Istituto di vergini consacrate.
Non sto qui a
illustrare i pasticci in cui navigava quell’Istituto e tanto meno la personalità
stravagante della fondatrice, ribelle alle ecclesiastiche indicazioni. A me
interessa seguire il percorso stravolto – e travolgente – che questa vita
“spostata” andava a seguire. Dico la vita: non dico lui. E dico “spostata” – o
“sradicata”, per usare il lessema di suor Piera Galimberti nella citazione di
Filippo Rizzi (in Avvenire.it, sabato 7 ottobre 2017) –, perché tale era stata.
Era diventato gesuita, ma forse non per convinzione; si era immedesimato con la
Compagnia di Gesù, che egli, malgrado le resistenze nei suoi confronti dovute al
fatto “che [i gesuiti] non lo hanno mai assimilato agli altri confratelli”,
considerava “sua ‘madre’” (p. 50) – tanto che sarebbe poi restato sempre
legato agli insegnamenti ivi acquisiti, come sottolinea il biografo –, ma
capisce o comunque crede di capire di essersi ingannato; era vissuto con onore e
in virtù, nella religione, ma ne era stato cacciato come se ne fosse
incompatibile; adesso il suo intento è di dedicarsi all’apostolato – come non
avrebbe potuto fare tra i gesuiti, lui pensa – e di fatto è nominato dalla Curia
di Torino e dalla Curia di Milano Direttore Spirituale dell’Istituto della
Fumagalli, sia pur, inizialmente, “temporaneo”, con una configurazione che in
pratica era quella di “fondatore per obbedienza” (p. 55).
Un disastro. Sarà la
sua rovina.
Ma non subito.
Sarebbe troppo semplice. Banale.
Le cose vanno bene.
Don – ma era chiamato Padre – Giuseppe Migliavacca dirige meravigliosamente
l’Istituto delle suore, al punto che ne ottenne l’approvazione da parte
dell’arcivescovo di Torino, Davide dei Conti Riccardi. L’ente ebbe la
denominazione di Pio Istituto di Maria SS. Consolatrice. Era il 20 giugno 1895.
Ma non sulla
solerzia, sulla dedizione, sull’indiscutibile saggezza spirituale, sulla
tenerezza e al contempo fermezza del Migliavacca nella conduzione della comunità
e delle singole suore io voglio soffermarmi – molto preciso ed esauriente è già
Giovanni Spagnolo, che fa sempre riferimento alla biografia monumentale del
gesuita Mario Lessi Ariosto –, ma su un dato contraddittorio, all’apparenza:
l’Istituto era auspicato dall’arcivescovo medesimo in continuo e maggior
sviluppo futuro, foriero di “buoni frutti di cristiana Carità”, in quanto era
sotto la protezione di “Maria SS. Consolatrice” e anche di “S. Ignazio di Loyola”.
In effetti – come bene è esposto dal biografo – il Migliavacca fondava il suo
criterio organizzativo, la direzione delle anime, l’azione pastorale e la sua
spiritualità sull’insegnamento di Ignazio di Loyola.
Eccolo! Uscito dalla
Compagnia di Gesù – quali e quante fossero le cause notorie e quali e quante le
cause nascoste, che sono sempre, forse, più stringenti ma meno soppesate appunto
perché ignote – segue la via del fondatore di quella Compagnia della quale non
era neppure effettivo membro.
Con questi fondamenti
solidi ed oculati, pervasi non soltanto di sicure conoscenze in ambito ascetico
e religioso da parte del “Padre fondatore”, ma anche di esperienze di ordine più
profondo e interiore – si narra di una fiducia nella Provvidenza che richiama
molti “fioretti cappuccini” –, non stupisce che l’Istituto godette di numerosi
appoggi, anche ecclesiastici, ad esempio di mons. Giuseppe Casalegno e del
notissimo cardinale Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano, e alla fine la
casa generalizia dell’Istituto fu spostata proprio a Milano, in un edificio
meraviglioso e spaziosissimo, benedetto dallo stesso cardinal Ferrari. Correva
l’anno 1895, il 14 novembre.
L’andamento
istituzionale della Congregazione di Maria Santissima Consolatrice – ormai
ufficialmente attribuibile all’ex gesuita Giuseppe Migliavacca – e anche quello
religioso delle singole suore procedevano felicemente e crescevano, si può dire,
in età e in grazia. Il Migliavacca già aveva approntato tutto un apparato, molto
preciso, di norme da sottoporre alle autorità ecclesiastiche; quanto alle suore,
erano proprio soddisfatte. Anzi, entusiaste. Apprezzavano molto il “padre
fondatore” sia come istitutore, sia come pastore e sacerdote.
Tutto alla
perfezione. L’edificio era fondato sulla roccia.
E l’edificio crolla a
terra.
Anzi no: crolla
dentro il cuore dell’ex gesuita, attualmente ammiratissimo sacerdote
“fondatore”.
Era il settembre del
1901. Un giorno “Padre” Giuseppe entra in refettorio, sta per sedersi a tavola
come sempre, una suora gli dice: “Da oggi per lei questo posto non c’è più”, lui
si gira, esce e non dice una parola.
Se l’aspettava?
In ogni caso, sta qui
una chiara didascalia vivente di quello che diremo dopo.
Alla fine sarà
allontanato dalla “sua” – si può dire tale, anche se in modo atipico –
Congregazione di suore.
Già serpeggiavano
voci contro di lui. Le dinamiche dei malumori, o meglio delle malignità, la
bufera delle calunnie, le invidie e le conflittualità tra i componenti della
Congregazione delle suore, insomma tutto quel frastuono di voci, quel
bailamme che nasce e che cresce in questi avvenimenti del mondo non mi
interessa riferirli. Il biografo ricorda che addirittura furono costrette alcune
novizie della Congregazione a dire il falso contro il Padre Giuseppe “con
calunnie infamanti”. E si ricorda ancora che l’accusatrice peggiore era la madre
superiora generale – peggiore, è scritto, di quella precedente, la
pseudo-fondatrice Fumagalli. Inoltre, altro soggetto ostile era persino il
co-fondatore, il canonico Giuseppe Casalegno, già menzionato.
In tutto questo caos
di vicende ha già proceduto, con rigorosa ricostruzione, Giovanni Spagnolo, tra
l’altro con il consueto stile chiaro e scorrevole e la sua esposizione limpida
ed esauriente. A me qui interessa vedere la santità del fallimento.
Il fallimento che non
sia un insuccesso puro e semplice è quello che è intrinsecamente dialettico e
dinamico.
Forse, è quello che
contiene un enigma di contraddizione.
Adesso l’ex Padre
gesuita, e successivamente don, Giuseppe Migliavacca è in un convento dei frati
minori cappuccini.
Come novizio, parlano
di lui molto bene. Ascetico umile obbediente. Io sottolineo un’altra cosa.
Patisce freddo – non è abituato alle austerità fisiche dei frati cappuccini –,
poi la notte, per la recita conventuale del mattutino e la mattina per l’alzata
antelucana stabilita per il coro, s’alza con prestezza e magari gioia. Ma
patisce. Alzandosi, patisce. Qualche buon superiore – per provarlo e tenerlo in
umiltà, dice il biografo – lo umilia e lo affligge e qualcuno, in concreto un
novizio, lo prende pure in giro e quasi lo sbeffeggia. Non capita quasi mai, ma
quella volta sì. Orbene: è questo che quell’uomo doveva incontrare, ed è questo
che io rammento. Perché?
Perché è l’unica cosa
che ha fatto di buono.
Un cenno sulla
santità e le opere buone. Incominciamo dalle opere buone. Le opere buone non si
possono fare. Non si possono fare, non perché non ne siamo capaci. Non si
possono fare perché non le facciamo. Non le facciamo di fatto. Ma
quali opere buone? Vediamo.
Si possono – anzi si
debbono, anche se non si vorrebbe! – compiere le opere buone normate dal codice
civile e pregiudicate dal diritto penale – altrimenti si subisce la pena. Si
possono – e si debbono – compiere le opere buone imposte o suggerite dalla
morale e dalla deontologia, altrimenti si è in difetto dal punto di vista etico
e deontologico. Si debbono compiere le opere buone, o almeno è conveniente
farlo, se consigliate dalla cortesia e dalla filantropia. In caso contrario si è
scortesi e si può diventare cinici. Ma tutte le opere buone di queste tipologie
sono buone secondo il nostro giudizio, pur giusto, giustificato e
fondato. Ma non sono le opere buone della santità. Le opere buone della
sanità, cioè le opere sante, per essere tali devono esserlo nel
giudizio di Dio. E noi il giudizio di Dio non lo conosciamo. Anzi, non
possiamo conoscerlo – altrimenti saremmo Dio. Quindi non possiamo sapere se
compiamo – se noi stessi, ciascuno di noi, ciascuno per se stesso – compie
un’opera santa. Però possiamo rintracciare indizi considerando le opere
civilmente, moralmente ed educatamente buone che facciamo, per trarre alcune
conseguenze.
Per non riferirci ad
esempi personali – ciascuno lo può fare per conto suo –, ci serviamo di esempi
di terzi.
Una suora di cui mi
occupai – che all’epoca era beatificata e che poi sarebbe stata dichiarata
“santa” – era così paziente e umile, che quando veniva maltrattata dalla sua
superiora davanti ad altri – anche questa Madre superiora era spinta dal buon
proposito di mettere alla prova la sua vita, al punto che la perseguitò fino
alla morte! –, non mostrava la minima reazione. Esponendo, in una conferenza, la
fattispecie edificante mi piacque notare che nel soggetto poteva agire, nel
subconscio o comunque involontariamente, il meccanismo per cui tendiamo a
mostrarci per quello che percepiamo che gli altri si aspettano da noi. Il
meccanismo è così assodato, da manuale di psicologia, che spiega ad esempio come
molti delinquenti in carcere si comportino in modo così esemplare, che viene
loro concessa la scarcerazione o la libertà temporanea, per “buona condotta”, e
poi, una volta “fuori”, alcuni di loro rifanno i reati precedenti. Quei detenuti
non fingevano, non giocavano d’astuzia, in carcere. Così è in genere. Si
comportavano, sì, anche per un motivo magari di interesse, cioè per acquistare
una buona fama, ma giocava in loro il meccanismo psicologico anzidetto. Se ciò
avviene in carcere, a volte o spesso, avviene sempre, di regola – direi che è
sacrosanto! –, in convento, sia di donne che di uomini.
Sopportare, anzi
accettare le umiliazioni con animo sereno e con letizia, questa è virtù. Lo
sanno tutti: una virtù morale, che in questo ambiente è “religiosa”, da tutti
raccomandata ed encomiata da tutti quanti. Ma la virtù morale e religiosa, in
quanto da tutti conclamata tale, cioè buona, soggiace alla suggestione,
inconsapevole, di dover essere praticata per sentirsi “buoni”. Ora, il
sentirsi “buono” è proprio ed esattamente ciò che, sì, è una conseguenza
della virtù morale e religiosa – e ben possa diffondersi sempre di più, questo
profondo sentimento buono! –, ma è la negazione, od esclusione, della santità.
La santità suppone il sentirsi intimamente non-buono. (La
traduzione “pace agli uomini di buona volontà”, nel senso “che hanno
buona volontà”, è errata, entro il discorso del Buonannuncio, benché essa
valga bene nell’ambito delle azioni umane nel mondo umano. La traduzione
corretta è: pace agli uomini [che sono oggetto] della “Volontà-buona”). Per
concludere la parentesi delle umiliazioni, la santità di un soggetto sta
in ciò: nel constatare puramente che egli riceve umiliazioni. E
ringrazia il Padre (Abba, Papà) insieme con il Figlio e
fratello Gesù per (“spirazione” de) il suo Spirito.
Ciò non vuol dire che
non servano le opere “buone”. Servono, eccome! Significa che si devono fare
come se non si facessero. Perché in effetti di fatto non si fanno.
Non si fanno nella verità del fondo dell’animo. Quindi si facciano, ma
poi ci si rida su.
Mi viene in mente il
caso di un tale il quale, ogni volta che passava davanti ad un povero che gli
diceva di avere fame – e la fame l’aveva per davvero –, prese l’abitudine,
uscendo dal mercato, di dargli qualcosa da mangiare comprato apposta per lui. Un
giorno pensò che dare qualcosa acquistato apposta per l’altro, cioè oltre il
proprio fabbisogno, era un’opera quasi di economia domestica. Gli venne da
pensare che un’opera di carità, se mai l’avesse potuta fare, sarebbe
stata quella di dare qualcosa che egli avesse comprato per se stesso e di cui si
sarebbe privato per l’altro. Capitò una volta che uscisse dal mercato senza aver
comprato qualcosa per l’altro, e allora diede a costui la metà di ciò che aveva
comprato per sé. Poi gli venne da ridere di gusto al pensiero che avrebbe
mangiato di meno e, sapendo che se si mangia di meno si guadagna in salute, con
fondamento suppose che l’aver dato la metà di ciò che avrebbe mangiato
nascondeva inavvertitamente un interesse personale. Dunque, compiendo un atto di
carità aveva in realtà compiuto una stupenda azione di sano egoismo.
Benché in una nota,
quale questa è, vagante, non voglio indurre ad un equivoco: che un’opera
di carità, per quanto di minima, sia una cosa da riderci su. A “riderci su”
non è sulla “opera di carità”. A ridere è su se stessi, in tanto in quanto, come
s’è detto, finché siamo nel corpo non potremo mai sapere, con piena ed
assoluta sicurezza, se nel nostro intimo, appunto imo e inconfessabile, non
agisca un meccanismo d’interesse. Detto ciò, cioè che solo Dio, cioè l’Essente
che fa essere ogni ente – quindi anche un movimento interiore ignoto alla nostra
consapevolezza –, sa come le cose stanno veramente, cioè come sono nell’essere
in atto, si sa bene che ciò su cui saremo valutati – c’è chi dice “giudicati” –
è proprio, e solo (credo) ciò che abbiamo fatto anche al “più piccolo” dei
“sostituti” di Gesù (“l’avete fatto”, o “non l’avete fatto” a me).
E questo va
sottolineato, parlando proprio di un “cuore grande”, come Giovanni Spagnolo
definisce l’attitudine del Beato Arsenio Maria da Trigolo, cappuccino. Così
grande, che forse le sue traversie in terra sono dipese da quell’interiore
atteggiamento e dalle conseguenti azioni. A questo punto allora mi viene in
mente un tale il quale non chiese a Dio, con molte lacrime, che una sola cosa,
come apice di tutta la sua vita: che potesse morire avendo fatto veramente,
veramente e davvero veramente, un solo, uno solo ed unico, uno e soltanto men
che minimo, atto di carità verace.
Gli bastava questo!
Il resto era
superfluo.
Un’opera di carità,
che non sia da ridere nel senso che s’è detto, è dare la propria vita. Ma
neppure questa possiamo sapere se sia un’opera fino in fondo davvero “buona”.
Chi può dire, chi è colui, il quale dia la vita per l’altro, chi è colui che può
dire che compie un atto buono fino nel profondo? Che non lo faccia per
orgoglio raffinato?
Se con la psicologia
e con l’analisi del profondo scoviamo atteggiamenti opposti rispetto al
compimento esterno – in effetti la sottomessa umiltà e la placida pazienza di
fronte ad una umiliazione da parte del superiore, soprattutto se alla presenza
di terzi, è, in fondo, un perfetto atto di autocompiacimento –, c’è chi sa
guardare molto, ma molto più a fondo. Ed è Colui che “scruta le reni”. Reni,
cuore, budella e tutto il resto.
Ma c’è un motivo
radicale, più fondato e certo, inesorabile sul piano obiettivo, perché
essenziale, per dire che le opere buone di fatto non le facciamo:
semplicemente perché solo Dio è buono, e solo il Buono può fare opere
buone – opere buone secondo il Buono, s’intende.
L’unico atto buono
che noi possiamo fare, con certezza, è quello che non facciamo: la croce.
Ripeto: che non facciamo. È il ricevere il patire.
Non mi riferisco al
ricevere il patire con tanta pazienza, con spirito di sopportazione, con animo
comprensivo. È pur vero che ciò è un atto buono, ma lo è secondo, al solito, le
nostre valutazioni, le nostre osservazioni sulle apparenze. Sul
fenomeno.
È atto “buono”,
totalmente e puramente, proprio l’atto del ricevere il patire.
Questo atto – proprio
in quanto non è nostro – non cade nel tranello della recondita
equivocità. In ciò vale bene la notifica a Pietro: verrà il giorno in cui non
farai tu quel che vorrai – magari tante opere buone –, ma saranno altri che ti
faranno fare quello che tu non vorrai, che ti porteranno dove tu non
vorrai. Ciò che Gesù ha detto a Pietro è valso anche per lui: la croce. Il
patire subìto. Certo: anche accolto, accettato. Ma vedremo in che cosa
consista l’essere accolto secondo santità e non soltanto secondo virtù
ascetica e morale.
Siamo giunti alla
conclusione radicale che l’opera, unica e sola, è “essere appeso”, è la croce.
Indipendentemente
dunque dalla vita sociale, dalla vita morale, dalla vita religiosa – con le sue
doverose e lodevoli azioni meritorie e preziosissime, dalla penitenza alla
mortificazione, dall’obbedienza alla semplicità, dalla limpidezza all’amorevole
fraternità, dalla meditazione alla modestia, dall’austerità alla ristrettezza –,
la cosa di cui ci si può vantare è il patire inflitto e subìto.
Ciò tuttavia non è la
parola definitiva, non è l’essenza della santità. La santità non è neppure in
ciò. Il subire patimento è l’opera che ci è donata, è
quindi un preziosissimo presupposto, ma non basta. Lo vedremo.
Per ora ritorniamo al
novizio cappuccino.
Siamo agli inizi del
‘900. Non vorremmo storicizzare il discorso, tuttavia dobbiamo farlo, perché si
sta parlando di un personaggio, Arsenio Maria da Trigolo, che entrò nel
noviziato cappuccino agli inizi del ‘900. E, agli inizi del ‘900, il novizio si
trovò a vivere situazioni pesanti. Penose. Fisicamente – e con la carne e con le
ossa non si scherza. Sempre ci può essere qualcuno che prende in giro i
confratelli, e qualche Superiore che vuol “mettere alla prova” i migliori tra
quelli che gli capitano tra i piedi. Il biografo, puntualissimo, non manca di
ricordare i “frizzi” e le “satire per nulla cavalleresche” (pp. 8-90) di cui
l’attempato novizietto era a volte fatto oggetto. Altri casi precisi, in
cui furono superati i “limiti dell’educazione civica e della carità cristiana”,
come chiosa Giovanni Spagnolo, li ometto: sono rari. Di certo, aleatori: possono
accadere e possono non accadere. Le situazioni di sacrificio, fisse e stabili,
sono altre.
L’ex gesuita, novizio
cappuccino, si trova a compiere enormi sacrifici. Non sono stati scelti: i
sacrifici che ha da compiere sono indipendenti da lui. Sono oggettivamente
posti. Non era abituato alle ristrettezze di vita, a cominciare
dall’abbigliamento, quasi identico al caldo e al freddo; non era abituato ad
alzarsi così presto, e tanto meno a svegliarsi di notte per il Maturino, né mai
aveva provato l’autoflagellazione con catenelle di ferro sulla carne. Insomma, i
patimenti, anche solo fisici, erano tanti. E qui è da sentire la sintesi del
biografo. Stringata e chiara. Fa bene leggerla.
“Nonostante l’età e la salute non proprio florida, fra Arsenio non chiese
mai privilegi e dispense, ritrovandosi perfettamente nel clima di austerità e
penitenza dei Cappuccini – [praticando tutti quelli che erano gli esercizi di
preghiera e mortificazione che scandivano il giorno e la notte nel convento di
Lovere] – […], divenendo di buon esempio non solo agli altri novizi, […], ma
anche ai religiosi anziani presentì nella comunità.
“Fra Vittore Maria da Bagnatica, che fu con lui a Lovere, ha notato: «Noi,
giovani di 16-19 anni, ne eravamo altamente edificati. Era precocemente
invecchiato; gli doveva quindi essere gravosissima la vita del novizio
Cappuccino, ma non ricordo che lo lasciasse mai neppur trasparire, né mai che
abbia chiesto la più piccola dispensa. Non occorre dire che tutte le notti si
alzava a mattutino e poi alle 4.45 del mattino» (p. 81).
Ma che senso hanno le
“penitenze”, o comunque i patimenti del corpo, proprio del soma, in un
istituto di perfezione, in un convento?
Da premettere che in
sé valgono niente. Da premettere che qualsiasi cosa, puramente esterna, non ha
alcun significato, per la vita morale e religiosa. Le “penitenze” fissate, i
sacrifici normati e stabiliti vanno però a costituire – e in questo hanno senso
– quel corredo di oggettivi patimenti in cui si colloca la croce.
E se Francesco d’Assisi era contrario alle “penitenze corporali” da imporre ai
frati o che i frati imponessero a se stessi, possiamo ben comprendere questa
esclusione, se consideriamo quanto dura sia la vita di una povertà materiale
serratissima, in cui può succedere che non si abbia materialmente da mangiare,
in cui può succedere che non si abbiano neppure i sandali per difendersi dai
sassolini delle vie dei borghi.
Negli istituti di
perfezione sussiste tuttavia anche un’altra, e ben precisa, occasione di
patimento subìto, cioè di croce: l’obbedienza. Per l’obbedienza, un
altro fa andare dove uno non vorrebbe andare; un altro fa fare ciò
che uno non vorrebbe fare; un altro fa non fare quello che uno vorrebbe
fare. E viene in mente l’annuncio detto Pietro: “altri ti […] condurranno
dove tu non vorresti”. Se poi l’imposizione è congiunta ad una
umiliazione, soprattutto se essa viene dall’ultimo dei fratelli (e Francesco
intendeva obbedire anche all’ultimo dei frati, anzi all’ultimo di qualunque
umano, anzi anche alle bestie e persino alle cose inanimate) – “Quando noi
saremo a santa Maria degli Agnoli, […] e ‘l portinaio […]: siete due ribaldi […]
andate via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col
freddo e colla fame infino alla notte […] E se anzi perseverassimo picchiando,
ed egli […]: Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, ché
qui non mangerete voi, né albergherete; […] E se noi pur costretti dalla fame e
dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore
di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli […] uscirà
fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci
in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone
–, allora si ha “perfetta letizia”.
La “perfetta
letizia”, che è nella croce – l’unico bene di cui ci si possa gloriare –,
è l’elemento materiale. L’elemento formale è il ringraziamento fatto al Padre in
effettiva “com-unione” – effettiva, che non è
quella, lodevolissima e apprezzabilissima, pensata e voluta – con Lui insieme
con il (Figlio e fratello) Gesù per (“spirazione” de) il suo
Spirito.
Ma questo è un
discorso per altra sede. Ciò con cui mi piace terminare questa nota
super-extra-vagante è la riflessione sul “mistero” che fu il cappuccino Arsenio
e su cui si sofferma il biografo. Giovanni Spagnolo presenta in modo articolato
questo “mistero”, con contraddittorietà tra l’essere (ritenuto) un gesuita
fallito (ex) – per cui era denigrato da qualche frate – e il “conservare
sempre uno spiccato amore alla Compagnia di Gesù che citava sempre come modello
di istituzione (p. 97). Contraddittorietà tra l’essere estromesso dalla
direzione della Congregazione delle suore e il continuare a sentirle come sue
creature. Contraddittorietà, benché insignificante, tra l’affezione del Padre
Arsenio verso le “sue” suore e la loro assenza ai funerali. Ma, in fondo, tutto
ciò è pur sempre qualcosa di relativo, nell’ordine dell’essenza delle cose.
Andando all’essenza, quindi oltre il dato curricolare delle vicende umane, il
“mistero” del cappuccino Arsenio Maria da Trigolo sta nel fatto che la sua vita
è un disastro. Lo salva dallo sfacelo l’approdo all’Ordine dei frati minori
cappuccini: in cui la santità di vita e l’avvicinamento a Dio erano, e sono,
particolarmente favoriti.
Però, per il suo
ingresso nell’Ordine cappuccino fu decisivo il cardinale Andrea Carlo Ferrari –
“fece lui presso il V. Provinciale le dovute istanze” (p. 78, n. 169) –: di per
sé, il don, ex gesuita, era, per l’epoca, un po’ troppo avanti negli anni. Il
fatto strano è che il Nostro andò a farsi frate, solo dopo l’invito e per la
“domanda avanzata” dal detto cardinale. Ma – e questo è un “ma” pesante –
dell’ormai Arsenio Maria da Trigolo disse mons. Paolo Aristide Rolandi
(1867-1933) che, facendosi cappuccino, il novello frate dichiarò,
“arcicontentissimo”: “trionfa la mia antica vocazione […]” (p. 78, n. 169).
“Antica vocazione”!
Ma allora fino a quel momento che cosa aveva fatto!
Però la sostanza
della questione non è in questo ordine di cose.
L’aspetto che voglio
evidenziare è come egli fosse stato da tutti preso come inadatto a tutto –
secondo i giudizi di coloro che lo allontanarono chi da una posizione, chi da
un’altra – e ciò, per contro, nonostante fosse riconosciuto un “buon padre che
lavora indefessamente” (p. 46) e comunque molto lodato per l’apostolato e la sua
spiritualità.
Giovanni Spagnolo
offre la felice intuizione di “ciò che potremmo chiamare ‘il carisma
dell’inutilità’”, che ha fatto scrivere pagine, di Curzia Ferrari, su
L’amoroso nulla a proposito del Beato Innocenzo da Berzo, cappuccino (p. 49,
n. 95). Da qui prendo lo spunto per un pensiero. Se parliamo di “talenti”
ricevuti, certamente lo sono quelli per cui il cappuccino Arsenio – e chiunque
altro – ha l’attitudine al discernimento, allo spirito di orazione, al buon
consiglio e a tante altre qualità. E, se parliamo di “grazie”, certamente lo
sono quelle della semplicità e della modestia, della benignità e della
contemplazione, della tenerezza e della intrepidezza. E quelle di tante e tante
altre grazie desiderabili. E felicemente “gratificato” è l’esser vissuto
perpetuamente e continuativamente in questa permanenza di graziosità.
E qui leggiamo la felicissima sintesi di Giovanni Spagnolo. Bellissima: “Richiesto
anni dopo di un suo parere sul novizio fra Arsenio, il padre maestro
Gianfrancesco scrive dal convento dell'Annunziata: «Del suo Noviziato non ho che
a lodarmi, né lasciava desiderare in cosa alcuna. Amantissimo dell’orazione e
del raccoglimento, zelante ed osservante di ogni più piccola regola, era di
esempio a tutti i Novizi
[…].
Profondo in ascetica, attese con tutto
l’impegno alla propria santificazione procurando di abbellire e sublimare tutte
le azioni con sante
industrie».
“Mentre fra Sperandio da Mornico al Serio è rimasto fortemente colpito dalla
profonda umiltà di fra Arsenio: «Alle volte il Maestro dei Novizi, per provarlo
gli infliggeva umiliazioni e penitenze» – ne ho accennato –. […] Ma Lui era
sempre sorridente […]»” (pp. 81-82).
Ma c’è una “grazia”
che è al di sopra di tutte quante. È la grazia di aver sbagliato tutto.
Chi qualcosa
ha fatto, può sentirsi “inutile”, sentirsi niente. Ma rischia. Sempre. Se non
altro, perché vero non è.
Ma chi ha, di
fatto, solamente sconfitte disastri rovine alle spalle e sulle spalle, può
vantarsi solo di niente.
E questo basta.
Anzi avanza. È così
tanto, che fa piangere di una gioia così grande, da far gridare: Papà (Abba),
grazie!
Ed è ciò che gridò,
piangendo, mentre moriva: senza dire nulla.
Come sempre. Come per
l’innanzi.
Come domani.
Ed ora non resta che
rileggere, per chi non l’abbia fatto, la bella ed agile biografia stilata da
Giovanni Spagnolo, cappuccino.
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Recensione |
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