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Un cuore grande. Beato
Arsenio Maria di Trigolo Cappuccino (1849-1909).
Fondatore delle Suore di Maria
Ausiliatrice
Ciò che più mi ha
colpito della vita del beato Arsenio da Trigolo è la predestinazione – mi vien
da dire, audacemente – al fallimento. L’ho percepito proprio così, fin
dal primo incontro a Roma, in Santa Bibbiena, inginocchiandomi lì per caso nella
cappuccinesca, per dimensioni e semplicità, chiesetta nel quartiere San Lorenzo.
Quel primo incontro – intendo cartaceo – è stato poi avvalorato dalla successiva
lettura della limpidissima biografia approntata da Giovanni Spagnolo, biografo
specialista di santi e sante. L’unico approdo felice del futuro beato,
rovinatosi un po’ da sé, bistrattato in tanti modi da altri, è l’ingresso
nell’Ordine dei frati minori cappuccini, e per fortuna i responsabili dell’epoca
non hanno fatto pesare, nel loro giudizio, le strambe traversie e i giudizi
incresciosi che gravavano sul suo conto.
Giovanni Spagnolo non
tende a velare i limiti costituzionali e gli insuccessi del personaggio. Tra i
primi, la “voce esile e non molto gradevole” (p. 46) che costituiva un problema
per un gesuita al quale era stato affidato il compito, tra l’altro, di predicare
come prefetto della Congregazione mariana degli operai o artisti, ed inoltre
l’inadeguata capacità di apprendimento intellettuale, tale per cui egli restò
bloccato, nella Compagnia di Gesù, al grado di operarius, cioè
“coadiutore spirituale” (p. 40).
Ciò che risalta più
acutamente sono però la stranezza delle scelte compiute da lui stesso e la
durezza delle decisioni dei superiori gesuiti. Qui un cenno. Quanto alle prime,
risulterebbe che, quand’era già sacerdote diocesano, egli “amava i cappuccini e
a quelli anelava” (secondo mons. Paolo Rolandi, p. 78 n. 169), ma si fece
gesuita. Da gesuita, assimilò a tal punto la spiritualità della Compagnia di
Gesù che, quando ne fu cacciato e s’aggirò altrove, fondava la sua direzione
spirituale e la sua ascesi sugli Esercizi spirituali del fondatore della
Compagnia di Gesù.
Per il vero, l’allora
Padre Giuseppe Migliavacca – così appunto si chiamava il Nostro –, era stato,
come comunemente si suol dire, un gesuita modello: fervoroso nell’ascesi,
rigorosamente fedele agli insegnamenti ignaziani, ubbidiente cieco nella “santa
indifferenza”, cioè perfetto “cadaver”, in tutto disponibile, osservante in ogni
cosa, con proponimenti santi e vivendo nello spirito di orazione (p. 30). Il
biografo è molto preciso e lucido nell’indicare le buone disposizioni del
Nostro: che però non si sa, per ora, come andrà a finire. Andrà a finire male:
cacciato via. Però, si fece in modo che fosse egli stesso a chiedere le
dimissioni. Io mi son fatto l’idea che ad irritare di più i gesuiti, a livello
dei ranghi superiori, fu l’atteggiamento favorevole del Padre Migliavacca verso
il vescovo Giovanni Battista Scalabrini: quanto i gesuiti avversassero coloro
che nutrivano idee liberali, lo sanno bene coloro che hanno letto qualcosa su
Alessandro Manzoni e qualcosa su Antonio Rosmini. Ma qui soprassediamo: anche
noi per la gloria di Dio e per il bene dell’anima nostra.
Più ufficialmente, il
Nostro era ritenuto diffidabile per la sua vicinanza alla fondatrice della
Congregazione femminile di Maria Santissima Consolatrice, tal Pasqualina
Giuseppina Fumagalli da Cassano d’Adda, la quale non godeva buona considerazione
anche a causa delle sue insubordinazioni alle autorità ecclesiastiche. Il
Nostro, uscito dalla Compagni di Gesù e ormai “chierico vagante”, continuò a
seguire provvisoriamente, prima con l’approvazione dell’arcivescovo di Torino,
mons. Davide dei Conti Riccardi (pp. 52s.), poi con l’appoggio addirittura
dell’arcivescovo di Milano, il cardinal Andrea Carlo Ferrari, la Congregazione
di Maria Santissima Consolatrice e la strutturò così bene, quanto ad
organizzazione istituzionale, e con tali frutti religiosi e spirituali, che ne
veniva ormai considerato il “fondatore”. Poi si sollevò una bufera sconvolgente
contro di lui: iniziata con sospetti, terminò con esplicite accuse le più
infamanti da parte di novizie e suore – forse costrette a farlo? – delle quali
l’accusatrice peggiore era la superiora generale in carica. Un giorno ne fu
estromesso di punto in bianco: stava per sedersi a mensa come al solito, una
suora gli dice: “Da oggi per lei questo posto non c’è più”, lui si gira, esce e
non dice una parola.
Il biografo ha il
grande merito di far rivivere questi eventi con forte palpito nel petto, si esce
dalla lettura con un profondo affanno, viene da chiedersi d’istinto: e adesso
che d’altro ci sarà? Era il settembre del 1901.
Finalmente l’Ordine
cappuccino. E vien da dire: non è più un male quello che è stato un male (lo
smacco, il ripudio, il fallimento). Tutto ha portato al bene.
Era il 1902: il
chierico vagante, gesuita dai gesuiti rinnegato, rinnegato dalle suore da lui
dirette e organizzate, è consigliato dal cardinal Ferrari – che ci mette pure
una parola buona – di chiedere ai frati minori cappuccini di accoglierlo
nell’Ordine. Aveva anni 53. Qui una stringatissima sintesi dei pochi anni fino
alla morte, il 10 dicembre 1909: “Nonostante
l’età e la salute non proprio florida”, praticò rigorosamente tutte le
penitenze e le austerità in vigore nell’Ordine,
“divenendo di buon esempio non solo agli altri novizi,
[…], ma anche ai religiosi anziani presenti nella comunità” (p. 81).
Ciò che mi ha colpito però è altro: è qualcosa che non cade nel rischio
dell’autocompiacimento inconscio. È la remissività. Si fa gesuita (forse)
solo per consiglio del confessore durante un corso di esercizi spirituali, nel
1875; si fa dimettere, nel
1892, dalla Compagnia di
Gesù per volere dei gesuiti – benché costoro lo giudichino “non solo
debole, ma […] da far pensare […] che non recederà dal proprio modo di sentire e
di pensare” (p. 49, n. 94) –;
lascia, seduta stante, vien da dire – stava per sedersi o già era seduto, per
prendere un boccone! –, la Congregazione femminile alla semplice notifica che
più o meno suona: «Via da qui e non si faccia più vedere!»; entra nell’Ordine
cappuccino perché in tal senso lo consiglia l’arcivescovo di Milano.
Mi ha colpito, perché
dimostra quel che è profondamente vero, direi quasi divinamente vero, grazie al
Padre che è nostro e che è Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nella
spirazione dello Spirito: a chi perde tutto ma si rimette in tutto, tutto sarà
dato, e sarà dato, anche, che tutti si rimetteranno a lui. Giovanni Spagnolo ne
offre la felice intuizione segnalando – con una correlazione con il Beato
Innocenzo da Berzo (p. 49, n. 95) – “ciò che potremmo chiamare ‘il carisma
dell’inutilità’”. Il termine “inutilità” – non come qualcosa che non serve, ma
come “carisma”, che vale per se stessi e vale per i molti – implica l’umiltà
totale, non come virtù ascetica ma come disposizione radicale, kènosis,
la remissione come svuotamento egoico e costituisce la struttura
intrinseca – non la retorica formulazione – del «siamo (servi) inutili».
[Francesco Di Ciaccia]
Francesco di Ciaccia, Recensione di Giovanni Spagnolo, Un cuore grande. Beato
Arsenio Maria di Trigolo Cappuccino (1849-1909). Fondatore delle Suore di Maria
Ausiliatrice, Prefazione di mons. Paolo Martinelli, OFMCap., Gorla, Velar
2019, pp. 128, ISBN: 9788866717201, in Literary, 12 (2020); in IF, 2 (2021)
331-333.
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