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Il corpo meccanico è uguale a nulla

Disposizione originaria delle pagine. Da oltre un trentennio sulla scena letteraria come giornalista, scrittore e editore, Velio Carratoni non è uso a raccontare storie di basso profilo familistico , o peggio sentimentaloide, al contrario intinge il suo calamo in situazioni al limite della nevrosi, spesso claustrofobiche, nelle quali i personaggi si dimenano come se rimbalzassero su muri di gomma, e gridano in maniera soffocata, vorrebbero spezzare la segregazione domestica, ma si ritrovano a sperimentare pochissime vie di fuga, tra queste una sessualità fredda, feticistica, ossessiva perché fine a se stessa.

Hai usato il suo corpo annovera 32 racconti (alcuni editi, la maggior parte inediti), scritti in prima persona femminile (17), in prima persona maschile (13), in terza persona col narratore onnisciente (2): il ricorso alla prima persona nella quasi totalità dei casi risponde al bisogno di ricostruire l’identità dell’io, sfaldato e ridotto in polvere sotto i colpi di un consumismo efferato, che ha trasformato i rapporti umani in scambi di merci e gli scambi simbolici fra individui in relazioni fondate sulla ripetizione di gesti ottusamente meccanici, esemplificabili per esempio nel consumo sessuale, causato dalla noia, dalla saturazione del desiderio amoroso, da una cieca e gratuita violenza, dall’urgenza di profondersi in qualcosa, qualsiasi cosa, pur di sfuggire al vuoto imperante.

Benché l’esistenza sia diventata un supplizio, nessuno può rinunciarvi e allora se gli eventi si succedono senza senso, rimangono le parole a tentare ancora una volta l’estasi rivelatrice; i discorsi assumono una funzione catartica, mediatamente purifi­catrice, specie quando impegnano i personaggi allo stremo, alla ricerca di una nuova e diversa concettualizzazione, capace di restituire slancio e forza alle loro azioni:

Cioè come una ragazza che recita di amare il sesso ed ogni manifestazione connessa, senza gradire di volerne parlare. Mentre per me chi non parla mentre fa l’amore o chi non gradisce teorizzare, è privo di vitalità. E se c’è vitalità è solo un pretesto per altri fini che, per il momento, ignoro. E per questo sono sempre più deciso ad allontanarmi da lei, cioè da una forma di recita piatta o banale che non stimola se non per ricercare lo sfogo del momento e basta. Quindi la sua curiosità che la porta a recitare ogni ruolo commissionatole, in parte mi fa stare al gioco, anche se mi annoia. (p. 159)

Scrittore di robuste letture, Velio Carratoni porta a maturazione il suo disegno documentaristico, lineare, coerente, in apparenza distante dalla materia narrata, quasi il lettore si trovi ad assistere a una mera registrazione di fatti, invece la costru­zione sintattica evidenzia fluidità e sperimentazione espressiva, riuscendo in uno stile medio ricercato a conferma di una scrittura, che tende a essere quanto più vicina alle cose, mentre sembra allontanarsene.

2. Il conoscere e l’essere conosciuto dei corpi. Fallita l’immaginazione senza fili dopo i primi due decenni del Novecento, Filippo Tommaso Marinetti e Bruno Corra si danno a scrivere romanzi erotico-grotteschi, se non pornografici; Marinetti in particolare pensa bene, trascorso il massimo fulgore dell’anti-passatismo futu­rista, di fare la pipì sul pianoforte dove avevano appena suonato composizioni di Bach e Beethoven: come dire, fallita la testa (il pensiero), non rimane che celebrare il trionfo del corpo. A distanza di un secolo, o poco meno, che cosa ci manda a dire ancora il corpo? Forse, che i suoi umori e le sue secrezioni non smettono di essere corrosive, come le parole di cui si serve Velio Carratoni per sciogliere nell’acido di un crudo realismo le maschere sociali e i loro insopportabili piagnistei.

Il nostro autore non intende passare per moralista, né mostra la fregola di facili condanne riguardo ai vizi privati, consumati nelle camere da letto, o in qualsiasi altro luogo, al contrario osserva, analizza, distende sulle pagine le passioni frementi e algide che agitano uomini e donne, semmai annota (sembra di essere in una cronaca trecentesca di Dino Compagni) come non spaventi più nessuno sprofondare insieme o da soli all’inferno, a tal punto risulta alluci­nante e normale nello stesso tempo “portarsi via i miei indumenti intimi, meglio se imbrat­tati” (p. 181), “mangiare un cornetto, dopo averglielo preso in bocca, (e passargli) nella sua bocca lo sperma, per mangiare, appunto cornetto e sperma” (p. 162), “leggere, studiare, succhiare, digerire pratiche dell’astruseria legalizzata…Intanto il mondo è il regno dell’ottusità. Meglio essere brutali che consapevoli. Del resto tutto viene fuoriuscito. Dalla saliva ai madori intimi. Per trasmettere un’estranea partecipazione” (p.137).

Appare ovvio che, chi si è strappato la ragione dal cervello e vive solo delle pulsioni del corpo, crede di stare in paradiso e fa di tutto affinché l’artificio edenico non si arresti mai. Velio Carratoni è da sempre convinto che questo presente sciatto e conformistico non vada eluso, ma attraversato a occhi aperti, a testa alta, studiandone i fenomeni più appariscenti e quelli più subdoli e nascosti; di questa contemporaneità falsificata e sfrenata l’Autore accentua i lati più scabrosi e opera in direzione dell’accumulo dei particolari: riempie le pagine di amplessi e di corpi avvinghiati, di voglie maniacali e di fissazioni feticistiche, fino a quando tutta la materia narrata non produce rifiuto e negazione, come di fronte a un piatto di zucchero; allora, e solo allora, l’Arcadia del Sesso lascia il posto a una Ragione concreta e illuminata. Le dimensioni storico­sociali che ha assunto questo tipo di trasgressione domestica obbliga Velio Carratoni a combinare eventi e linguaggio in una scrittura dalle forti tinte espressionistiche, pluricromatica, capace di assemblare relitti semantici e significati manchevoli: Esprimendo un’aria che sa di nausea e di rivolgimento interno, mi fissa con distacco, cercando di sfuggire il mio contatto. Me ne accorgo quando le stringo una mano o le accarezzo le braccia che sembrano meno tozze, viste così piegate e incurvite intorno la vita, in atteggiamento di scudo nei confronti di consuete eventualità.

Vorrebbe sdrammatizzare, a favore di una metamorfosi distruttiva che ha come mira le sue viscere in formazione. Non fa che rampognarmi contro le mie ricerche di annientamento, ma ora dimostra come la distruzione, a volte, sia salutare. Ne è convinta, mentre muove la testa in atteggiamento fatalista, a destra e sinistra, per professare e definire il suo convincimento. (p.130)

Favorito dalla luce del realismo, Velio Carratoni compie la sua indagine radicale sul corpo e sulla psiche, entrambi mossi da inspiegabili motivazioni, per questo i vari Amos, Ilaria, Gianni, Luciana giostrano come particelle atomiche, invisibili all’occhio, eppure manifeste per l’enorme energia che sprigionano alla superficie degli eventi. Poiché la realtà ha cessato di manifestare una propria libera finalità, i sommovimenti delle particelle umane in questione si dimostrano assurdi e gratuiti: ai personaggi, inchiodati all’essenza della propria incomunicabilità, nonostante l’apparente logorrea, Velio Carratoni non può instillare i modi di una più consape­vole esistenza (sarebbe un ritorno alla sepolta narrativa ottocentesca), può invece metterli a contatto con la propria parte oscura, la più profonda, scabrosa e indicibile, per registrare sulla carta le loro reazioni, i loro chimismi elettivi, oppure l’insoffe­rente fastidio che culmina in un’astiosa indifferenza. Ne deriva che dall’instabile molteplicità sociale in cui affonda il bisturi della sua scrittura, Velio Carratoni estrae vicende con un fondo disperatamente morale (mai moralistico, per carità), nono­stante la morbosità dei comportamenti in atto: una simile contraddittorietà offre agli individui l’ultima occasione per ritrovare plasticità , disponibilità al cambiamento, metamorfosabilità, a forza di urti sulle loro giunture irrigidite e meccaniche.

Ribadita l’impossibilità di reiterare il naturalismo con le sue curve gaussiane psicologiche, l’Autore trova congeniale per sé come forma espressiva l’indagine di tipo quasi giornalistico: da un lato si limita a elencare accadimenti, dall’altro produce cupi frammenti narrativi, che servono per riprendere discorsi interrotti e portarli ogni volta più avanti:

È a Roma solo. È venuto per pochi giorni. Si sfoga con me, contraddittoriamente con un discorso troppo di sinistra per lui: “matrimonio per proliferare. Società=tomba che consuma per produrre merda, burocrazia, militarismo, devozione, superstiziosa, potere, legalità per i più forti, leccate di cazzi per danarosi, istruzione da giochi quiz. Famiglia per diseducare. Troppa sinistra teorica. Troppa destra costituita. La società è ancora a destra, così come la famiglia, la chiesa, la scuola, la coppia, il datore di lavoro, la chiavata, il rapporto erotico, i codici, i regolamenti, la polizia, le poste, i politici, i comunisti, i democristiani. Cellula. Forno crematorio di prassi stercoraia, di autorità, da bacchettoni, di francescanità, di dialogo piccolo borghese con fanciulla/o ragazza di gregge; metodicità, schema, fidanzamento-sistemazione ricerca di marito forziere per apparenza (il resto si fa lo stesso senza far sapere); casa, parrucchiere, grande magazzino, ufficio, drogheria, fruttivendolo, macellaio (confessionale d’umore giornaliero), esercizi, sempre più, in estinzione, telefono (apparecchio per confidenze proibite appetite da voyeur frustrati). Riprendiamoci la vita? Da chi? (p.173)

Hai usato il suo corpo abbraccia una lunga linea temporale dal 1975 al 2007 e, nel frattempo, tranne per alcuni termini desueti (drogheria, democristiani), la società italiana non si è mossa di un millimetro: i dinosauri stazionano dappertutto e di futuro nemmeno l’ombra. Ha ragione da vendere Velio Carratoni quando attribuisce all’Italia un inossidabile conservatorismo, ecco perché le vere analisi in letteratura vanno compiute oggettivamente sui soggetti sociali, i quali, disabituati alla loro durata frantumata, vanno spinti forzatamente a cozzare contro le tremende epifanie che la vita riserva.

In questa raccolta di racconti, come nelle opere del passato, penso al romanzo Le grazie brune (2003) e agli aforismi del Sorriso funesto (2003), l’Autore aggiunge alla ricerca letteraria una sua continua confessione filosofica, per questo (e per i motivi sopra indicati) per narrare sceglie quasi sempre la prima persona, perché nella gola dei personaggi insuffla il suo stesso fiato e le sue riflessioni acute, libertarie, mai scontate, secondo l’imperativo categorico di un necessario ritorno al pensiero critico in un’epoca depensante quant’altre mai.

3. Analisi di un racconto esemplare. Procedo alla sinossi di un piccolo capo­lavoro, Il volto affezionato, costruito sui motivi più cari alla narrativa carratoniana: l’identità perduta, la macchinalità umana, la distanza di sé dagli altri, la perimetra­zione delle rovine sociali. Nella prima verbalizzazione incipitaria un personaggio femminile presenta la propria statuaria solennità (capigliatura folta, occhi grandi, seno tirasguardi, lunghissime gambe), ovvero la propria trasfigurazione in mito per sfuggire alla uniformazione e deformazione dei corpi. L’io femminile si impone come un’icona e accetta a sua volta il giudizio comune che la descrive capace addi­rittura di stregoneria, tanto il suo sguardo e le sue movenze riescono a far presentire quell’Oltre, da cui quella inspiegabile bellezza proviene (qualsiasi bellezza rappre­senta la forma di un al di là ineffabile, fascinoso e terrorizzante a un tempo).

Se l’immagine non può far altro che esporsi allo sguardo, la parola diviene stru­mento essenziale per determinare il rapporto fra interiorità e realtà esterna; la parola traccia confini e distanze, rivela la mobilità del pensiero rispetto alla fissità delle forme del corpo, cui spetta solo di essere osservate, desiderate, possedute, secondo i canoni dello scambio materiale (l’io narrante non si fa scrupolo di concedersi a Federico, pur di essere scritturata in qualche settore del mondo dello spettacolo).

Lo sfondamento della superficie amorale avviene solo per mezzo delle parole, attraverso le quali le persone definiscono meglio se stesse e individuano la modalità di relazione con l’altro: qui si tocca il punctum dolens di ogni questione esisten­ziale odierna, l’incomunicabilità, ovvero l’impossibilità di stabilire quelle molteplici relazioni simboliche tra guardato e guardante, tra parlante e parlato, così da poter superare la reciproca estraneità e attribuire un senso duraturo ai successivi livelli di interrelazione. L’io narrante non si protende, se non fisicamente (accostandosi a Federico e scoprendo gambe affusolate e seno), psichicamente si registra un’avan­zata verso il nulla e una straniante assenza:

Qualcuno vorrebbe ascoltare da me chissà quali verità nascoste, ma se prova a parlare, tutto si esaurisce in brevi e accennate battute. Così molti, amanti della macchi­nazione e della costruzione, mi avvicinano in cerca di tante occasioni appetitose, nelle quali trovo a volte, i medesimi connotati e risvolti; per poi lasciarmi, delusi dalla mia, dicono, laconica frammentarietà o pronta disponibilità in fuga. (pp. 88-89)

Federico, dal canto suo, non brilla per originalità psicologica: tace e sembra non raccogliere le profferte della procace ventitreenne, anzi nella sua sfingea indecifra­bilità trema, tambureggia con le dita sul tavolo, mostrandosi turbato e, topos carra­toniano, bloccato.

Non essendoci dunque la parola ad articolare la complessa relazione psichica, tutto si riduce, da parte di Federico a una squallida richiesta voyeuristica, in sostanza chiede alla ragazza di portare uno dei suoi amanti, di farci l’amore e di permettere a lui di guardare, o meglio, senza arrecare fastidio alcuno, di poter rimanere in adora­zione, addirittura pregando a voce alta, durante il loro incontro sessuale.

Il cerchio si chiude, quando nell’unico possibile orizzonte terreno solo la corporeità rimane da sacralizzare, il resto si conferma carta straccia per metafisici impenitenti: Federico compie il suo cammino destinale nel suo esporre lo sguardo, nell’inazione, nella brama che si appaga nella brama di altri, come dire una vita di seconda o terza mano.

Il dato originale di Il volto affezionato è da intravedere nel rovesciamento del rapporto nudità/vestizione: Velio Carratoni rileva che la vera intimità coincide con la parola che determina e definisce il corpo nella sua irripetibile individualità, spoglian­dolo dei beceri luoghi comuni, mentre le immagini rivestono il corpo di oscenità, immolandolo altrettanto oscenamente allo sguardo di chiunque.

Il racconto si chiude con una digressione narrativa che riguarda un altro accompa­gnatore della ragazza, un uomo sposato che nella solita, squallida relazione adulterina incarna l’odio esemplare per la vita coniugale e per le convenzioni sociali in generale:

E mentre me ne andavo, ho sentito addosso a me il suo sguardo sovraccarico di quarantacinquenne sposato, con moglie e tre figli, che dice di detestare, ma con i quali rimane e coabita, per svolgere il suo ruolo di preposto all’attuazione dell’ordine e per impartire l’educazione di padre, apparentemente morigerato, tanto desideroso di buttar via la sua famiglia, alla quale tanto è affezionato. (p.94)

Velio Carratoni scava a fondo nella coscienza collettiva, studia il funzionamento delle deleuziane macchine desideranti umane, definisce con precisione i contorni delle gabbie intellettuali e sociali, disincantando i luoghi in cui si forma il nostro immaginario.

4. Ciò che eros porta con sé. Platone, richiamato nell’esergo a pag. 9, a propo­sito del Fedro e della mania amorosa, chiama questo stato dissennatezza (ànoia), nella duplice forma della follia e dell’ignoranza, e ne individua l’origine nelle pato­logie del corpo legate al dolore incomprensibile e al piacere gratuito.

Nel vuoto morale odierno le mٍnadi umane accelerano, si agitano, si infuriano perché hanno fretta di prendere una cosa e di gettare quella avuta fino a un attimo prima: in quel preciso momento nessuno appare in grado di operare secondo ragione. Tali appaiono i personaggi di Hai usato il suo corpo, un rigurgito di eros in una società che ha distrutto l’erotismo come intimità intellettiva prima che fisica, per destinare l’intero carico libidico al lavoro e alla produzione selvaggia di profitto a tutti i costi (la spaventosa crisi dell’iperliberismo mi pare sia sotto gli occhi di tutti). Non riconoscendo più la carica erotica, ma solo la desolazione pornografica, i perso­naggi di questi racconti sono costretti all’irrazionalità: una volta che la loro psiche risulta contaminata dal possesso per il possesso, si generano in loro forme di scontentezza e di afflizione, di scarsa audacia e di inaudita vigliaccheria, di smodatezza di sé e, soprattutto, di difficoltà ad apprendere dai propri errori.

La commedia umana inscenata da Velio Carratoni si esemplifica nel ricorso a figure­manichino, automi che vengono agiti da pulsioni interne, senza essere minimamente in grado di controllarle e, meno che mai, dirigerle, ne è un esempio la donnetta minuta del racconto che apre il libro, Verso le dieci del mattino, una casalinga frustrata che si lascia vivere e schizzare sperma per casa da un amante feticista e da un marito catato­nico, senza che vi sia mai un minimo di passione e di partecipazione; si tratta di una donnetta ossuta che, per dare una fisionomia credibile al suo volto, si descrive come un dipinto di Modigliani. Al fondo della sua personalità non vi è malvagità, semmai noncuranza e superficialità, dovute a una crescita sociale e umana inesistente.

In quanto creatura elementare, questo e tutti gli altri personaggi confondono piacere e dolore (edonè e algos), non giungono mai alle profondità remote della coscienza, stagnano in superficie nelle terminazioni sensoriali e nelle secrezioni varie (saliva, sudore, sperma). L’unico sentimento seriamente avvertito risulta il vuoto, per questo desiderano penetrare per riempire, o essere penetrati per farsi riempire, anche se, una volta consumato l’atto fisico, si registra un’immediata perdita di memoria (le esperienze non evolvono in ricordi), così si ri-comincia sempre da capo in un loop ossessivo che il lettore può constatare episodio dopo episodio:

Mio marito mi osserva con distacco e freddezza. Cena davanti al televisore, seduto sulla poltrona dove Nando ha schizzato. Guarda i vari programmi, mangiando e bevendo. E quando ha finito tutto rimane lì: il bicchiere, il piatto sporco, lo smolli­camento, la salvietta. Spesso si addormenta davanti al televisore e quando si sveglia, viene a cercarmi nel letto. Fingo di dormire. Mi manovra lo stesso. Fa tutto quel che vuole. Mi tira da una parte e l’altra. Mi mette di lato. Qualche volta partecipo nel dormiveglia come un corpo senza vita, usato spesso e non ripulito. Faccio lasciare gli schizzi di Nando sul letto e lui altrettanto, lascia i suoi come capita. Ma i suoi vanno a finire pure dentro certe solite fenditure come se li gettasse dentro il cesso o il lavandino. (p. 13)

Velio Carratoni testimonia che eros non possiede più la natura platonica dell’intermedio tra fisicità e spiritualità, perciò perde il suo carattere di universalità, non coincidendo più con l’amore sano, né con l’aspirazione alla salute, ma con la parte ammalata del corpo che stinge di frequente nella solitudine e nella reiterazione di gesti insensati: è la registrazione di un mondo senza grazia, privo di indulgenza; un mondo che ha perduto la sua eternità e immaterialità (l’orizzonte necessario, il fine ultimo, la meta), per rimestare nel torbido dei rimpianti e delle assurdità smaccate.

Prigionieri di se stessi, i personaggi di Hai usato il suo corpo danno ragione a Schopenhauer che già nel lontano 1817 definiva l’universo borghese come un’im­mensa colonia penale.

5. Explicit. Hai usato il suo corpo costituisce a suo modo un paradosso letterario: l’Autore abusa della sessualità ben oltre i limiti della pornografia, eppure non vi è traccia di prurigine, di disgusto, meno che mai di esibito e scandalizzato perbenismo. Il lettore non si imbatte in eccitanti pruderie, ma è costretto a stare distante e a scorrere i capitoli di un verbale agghiacciante e doloroso, a tratti grottesco e impudente.

Velio Carratoni può essere considerato un lontano erede del marchese De Sade, ma non del libertino pornografo che conoscono tutti, bensì del lucido analista morale e del filosofo che conoscono pochi.

Recensione
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