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Nella colluvie di operine che in servigio, o disservigio della poesia si vanno pubblicando nella Repubblica Italica delle Lettere, spicca per ingegno e novità d'accenti il denso florilegio L'uomo da cui non giunge suono. Roberto Di Pietro funziona come un sismografo del suo tempo, misura pozzanghere di significati, rioni periferici di significanti, un bordello metropolitano non per scandalizzare, ma per riesumare l'intelligenza del lettore. L'Autore non è e non può essere un maudit, non è più stagione di poeti maledetti (servono alla bisogna i realità-talk-shows, profittevoli creatori di pupazzi trasgressivi mediatici); ne il Nostro sale sulle barricate del finto ribellismo (stipando in saccoccia la credit card paterna), espone la sua abilità scrittoria, registra, trascrive la realtà in presa diretta:"È alle 19 e 52 | del 19 maggio 2002 | quando il sole nicchia | fra spicchi di nuvole | cariche d' anarchia | appese a vecchi palazzi | in via casilina", p.22. Superando calchi e epigoni, sistemandosi nella scomoda corrente della Beat Generation, vicino al compianto Kaufman (Solitudes crowded with loneliness, 1965) e al vivente Hirschman (Soglia infinita e Arcani), Di Pietro sconfessa i surrogati dei poeti cerebrali e prova a mantenere con la scrittura la sua promessa di interiorità; sebbene giovane Trofimov cecoviano (id est eterno studente), pare già istradato a una sua maturità per affinare virtù compositive e fare appassire l'alone di sventura che questi tempi sciagurati e sciatti si trascinano dietro. L'uomo da cui non giunge suono è un magazzino di ricambi per coscienze provvisorie in cerca di stabilità emotiva e intellettiva, e una sfida a non vergognarsi dell'anima, a non vegetare nell'esteriorità, vietandosi bellezza e autodeterminazione. La poesia-vipera di Roberto Di Pietro muove da impulsi autonomi, lasciando che la soggettività si liberi dalle squame consunte del conformismo; la poesia-vipera avvelena la festa permanente del Paese dei Balocchi, i piani del Poppenspäler (il Burattinaio), il Teatro della Brama di Avere ("Vogliono sapere quello che hai | non ciò che sei", p.19). In ogni pagina vive una comunità, un intreccio di destini: sebbene le forme della scrittura siano soggiogate dalla confusione e dall'accelerazione degli eventi contemporanei, si assume la bellezza e la lentezza come giusti tributi alla contropartita di sopravvivere bene, con rigorosa imprevedibilità ("Seme di sicuro son stato | e c'era nutrimento | una corsa da fare | un sole da raggiungere. || Sviluppo in altezza | di poche radici, fusto fino | in verticale | verso la luce...", p. 35). Roberto Di Pietro ci guida nei labirinti urbani che si ottundono, si screpolano sotto il suo sguardo spregiudicato, dissipatore; lo schema rimane quello delta decadenza (il contemptus mundi), nelle due direzioni del feticismo e del nichilismo. Dalla psicologia negativa della mass società schizzano fuori rapporti di scambio fra contraenti: i sentimenti vengono paralizzati dalla deviazione di ogni interesse verso le merci. Costretti alla narcisificazione di se stessi, gli individui elaborano un universo concentrazionario in cui l'inclinazione al possesso degenera "in crudeltà possessiva e fantasia autodistruttiva" (T. W. Adorno, Minima Moralia). Scompaiono le differenze tra persone, ridotte a bocche per ingurgitare cibo, a menti distrutte dal quotidiano supernutrimento a base di pensieri pubblicitari: ne deriva un tragico processo afasico nel quale ogni situazione appare edulcorata, cosmetica, "del tutto assenti invece | flatulenze e borborigmi | cispe agli occhi e cacche al naso | rughe o smagliature | moccio e cerume | pustole o bubboni | bile e sperma | sangue", p. 39. Per i più la relazione con la realtà rimane platonica, non per virtuosità, quanto per bulimia del desiderio e anoressia della felicità: il motivo privato delta riduzione al silenzio prende l'estensione universale dell'inutilità della parola: l'organizzazione produttivistica dell'esistenza non concede spazio alla parola consapevole di sé, la parola viene de-parolizzata, resa insignificante, muta; da qui, per contrasto, un originate codice poetico incentrato su una parola piena, fisica, rabbiosa, ironica ("Ma tu volevi che t'amassi, | portare la mia intelligenza al dito | mentre io volevo soltanto fottere | e proprio non potevo distinguere | lacrime dal tuo succo di fica", p. 44). La parola di Roberto Di Pietro allude, elude in qualche tratto, ma dice, cerca, scompagina la società nella quale, strappata la logica dell'Altro, resiste solo la finzione del più sfrenato egoismo, il farsi di ognuno "santo per se stesso" (Baudelaire); non si tratta delta parola innamorata, orfica, né di acribia metrica, piuttosto di una parola ludica, liberatoria che si oppone al tonfo wagneriano della Grande Chiacchiera, che cerca di evitare il suicidio barocco e disperato del linguaggio ("O più semplicemente, non potevo pretendere | di trovare Dio | con un biglietto di seconda classe. || Toronto però | fu un ottimo purgatorio | di consolazione", p. 26). Lungo quartieri turriti, sfrecciati da motori rampanti e sguaiati, Roberto Di Pietro scrive la sua poesia nitida, antiretorica, snodata in tono colloquiale tra contrasti semantici e espliciti paradossi, riversata da una sapienza immediata e comunicativa: è la riprova di uno stile sanguigno, a volte aggressivo, tagliente, mai conciliato con il patetismo di moda ("Un cazzo o un obelisco | non sapresti quale la differenza", p. 11); a queste considerazioni va aggiunta una certa disposizione alla percussività nei motivi e nei ritmi, come se la scrittura avvenisse all'interno di una mirabolante session improvvisativa. Lucifugo o lucifero, L'uomo da cui non giunge suono consegna al lettore, con la razionale luce del Pensiero e le oscurità profane dei Sensi, l'acutezza di una cinica, cosmopolita, divertita mente latina. |
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