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Ben meritata, l'assegnazione del Premio Libero De Libero
1996 a questo poema dalla firma inconfondibile di Scarselli; il quale, come è
noto, reca il segno di una ricerca costante e di un bagaglio scientifico che va
ben oltre le misure e le strettoie del laboratorio per concretarsi in una
dimensione di scrittura che appare perenne bisogno di ricerca esistenziale e
non è mai sfogo personale d'un uomo di scienza, ma si fa visionaria incursione
nei territori più inesplorati della carne e del sangue.
Anche in questo volume riposa un respiro poematico ampio, che
rappresenta al meglio la sua produzione letteraria. Itaca è l'isola del sogno, la terra promessa cantata dalla
grande illusione dell'uomo che per un breve istante si abbevera d'infinito,
respira la potenza assoluta dell'amore e poi la nostalgia melopeica, il
turgido rimpianto che accompagna ogni mutamento, il germoglio trasformatosi in
rovo secco con la crudeltà della tragica metamorfosi.
Vi sono tutte le più peculiari caratteristiche di Scarselli:
la particolarità densa dell'intelletto, il tono epico-narrativo che investe la
sostanza lirica e ne fa tessuto evocativo, linguaggio lucido e drammatico
proteso a una ricerca primordiale di verità fatta di echi, di barbagli, di
suoni, di immagini, che lo mostrano padrone del suo stile, in un linguaggio
metafisico dai connotati laici. Bastano pochi versi ormai a porci in dirittura
d'arrivo in un mondo articolato da asprezze e risoluzioni cromatiche che hanno
l'effetto di fondere il reale con l'irreale, il sogno col mito, la ragione col dubbio. In
questo nuovo poema, vi è il compiersi di un destino che è esercizio quotidiano
d'anima. Raramente abbiamo incontrato Scarselli in vesti sentimentali, dalle
quali rifugge definendole pittorescamente "farfalle svolazzanti sui prati in
fiore". Ma la ricca e profonda coscienza ha rilevato ciò che ossessiona e
rende vigile la verità scarselliana, lo scavo è sempre metarazionale e non
indulge a leziosità, purtuttavia ricerca l'abbandono sentimentale, si avverte
la legge dell'amore che richiede la sua parte di felicità. Nell'isola perduta,
Scarselli abbandona il nido come l'uccello migratore che si dirige in lidi
sconosciuti ove oltrepassi le porte sempre aperte, | una chiara e alta foresta
| sovrasta il tuo occhio smarrito | ebbro ancora d'inganni e miraggi. La
bellezza d'amore infiamma l'anima e il corpo, compie i suoi miracoli di
procreazione, di cellule impazzite. Ma poi la linfa si spegne, la volontà è
svuotata, tutto si fa tenue come l'occhio di bimbo smarrito
nell'incommensurabile bagliore temporale Il tempo annienta, il tempo ci
abbandona: e non fui che una povera ombra | fra le ombre abbandonate del
mondo; | seppi allora che neanche quest'isola | era terra promessa agli eroi.
Risorge l'Araba Fenice dalle ceneri fumanti del mito, si fa
cellula segreta, destino, paesaggio di memoria per neutralizzare la fine dei
giochi sereni, è l'idioma del sentimento prima del suo decadimento. Così Scarselli abbandona l'oscena tensionalità materica cui
ci aveva abituati, per abbracciare l'epifania del desiderio insaziabile
d'amore.
Tuttavia promana ugualmente una forte carica di assoluto che
consolida la mimica germinatrice di esercizi raffinati e di interrogativi
profondi paludati di aristocratico destino, magari più bucolico, forse anche
più arcadico; mentre, traditrice, la vicenda del silenzio riguadagna l'ansia
dolcissima dell'abbandono, e del tenero, prima del declino: perché i caduchi
lascivi | sbocciati sulla sabbia non fioriscano | che un solo giorno prima di
marcire | come i fiori della notte del deserto. Ben centrata la prefazione di Luciano Luisi.
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Recensione |
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