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All'apparenza, quasi di primo acchito, fermandosi solo sul titolo sembrerebbe trattarsi di un'opera elegiaca, piuttosto incline ad una narrazione serena, a una cantabilità lirica, fondata su evocazioni di grazia e levità. In realtà, affonda su tematiche ai limiti dell'alienazione e della disperazione più cupe, è incentrata su devastazioni e assenze, perdite dei diritti, prevaricazioni e ossessioni umane che hanno il loro nominatore comune nell'individuo come soggetto di schianti e di corruzioni, oggettivamente alieno dalla perfezione, lontano anni-luce dalla categoria perfettibile dello spirito, pronto a scivolare nel fango nelle frane e nel degrado. Opera complessa e tremendamente realistica, aderente alla più cupa dannazione, correlata a gironi d'inferno senza ritorni, a errori e vizi di forma pregressi, che non fanno la differenza fra la colpa e la pena, la disattenzione e la condanna.
È una sottolineatura intensa che ha carattere epigrafico, a dimostrazione che è insita nell'autore la profonda inclinazione a trattare temi di fondo assai improbabili in poesia. Ma Ruffilli è uno di quei poeti interessati a problemi sociali segnati dal disagio, dalla sofferenza e dall'assenza. La vita, purtroppo, convive spesso col male, si misura quotidianamente col dolore, l'ingiustizia, la paura, l'ipocrisia, il ricatto, le contraddizioni, i conflitti, i paradossi, all'interno di un sistema umano fatto di remore, di condizionamenti, di inferni privati, di categorie corruttibili, di delitti efferati: di grate e cancelli come li definisce il poeta. Ognuno in preda al suo maleficio ineludibile, che non è estraneo ai compromessi dei codici di giustizia, alle corruttele, ai più feroci e spietati meccanismi creativi e individuali, liberi da remore morali. Una sorta di maledizione alla quale nessuno si sottrae, una codificazione di azioni, di comportamenti che inquinano, corrompono la coscienza e la ottundono stravolgendo spesso eventi e accadimenti, mentre vanificano l'esistente di molte anime che a fronte del loro inferno privatissimo vedono perpetrare l'esclusione disumana dal mondo, che li giudica e li condanna. Si fomenta la droga, si perpetuano efferati delitti, si consolidano comportamenti indecenti di devastante amoralità, come rispondiamo? Con una feroce repulsione che allontana il perdono e la pietas, mentre tende a perpetrare la colpa di chi fallisce, senza tentare il recupero e la capacità di (re)inserimento. Il contesto sociale, civile e umano appare un crogiolo di morte, di abissi insondabili e il vivere dentro esperienze di vita dissociate dal bene, inevitabilmente porta solitudine e sgomento avvalorando comportamenti sempre più eversivi e implacabili dentro il male che divora. Chi sbaglia quasi sempre è costretto a ripetersi, sembra dire Ruffilli, in una inadeguata escalation di errori che non hanno mai fine. Spesso non c'è volontarismo a suscitare atti di violenza, anzi neppure esiste l'ipotesi di vocazione autodistruttiva, perché come afferma il poeta "il male ti accelera la vita, nell'ossessione ti usa violenza e | ti scompone | lo spazio e il tempo | nel loro senso stesso ti priva di realtà". Il vivere dentro esperienze devastanti fa perdere il contatto con la realtà e annulla la volontà. L'individuo resta segnato, quasi marchiato dalla sofferenza, dal lutto, dall'abiezione, dall'aberrazione, dentro i quali lo smarrimento è totalizzante, e totale risulta la perdita di principi, di comportamenti leali, di corretti equilibri. Si commettono azioni indegne nell'illusione di dominare gli eventi, le circostanze sfavorevoli, salvo poi accorgersi di rimanere inbrigliati e pericolosamente prigionieri del male fisico e morale. Siamo nati dunque per patire? La domanda può sorgere spontanea. Viviamo il nostro inferno quotidiano e siamo destinati a non dismettere mai l'abito della tragedia? La raccolta Le stanze del cielo ci mette di fronte uno spaccato di vita sconvolgente. La sorte di una moltitudine di esseri umani è sotto scacco del Male. La raccolta esplicita una poesia sensibile all'effetto narrativo, alla luce d'intelligenza dei fatti, il poeta non si lascia suggestionare dalla cancellazione della personalità che sbaglia, ma tenta di capirne i meccanismi e le ragioni profonde della sofferenza e della necessità di far luce su episodi di tale gravità ineludibile, che fa da contraltare ad una visione non proprio elegiaca, ma di grande impatto sociale. Una poesia che si rivolge a chi soffre senza le pregiudiziali che aumentano il rischio di un criterio di giudizio sprovveduto e imperfetto, fatto di scontri e di ferocia implacabile, da cui Ruffilli si esclude; poiché non giudica gli atti dei suoi simili, solo li comprende e li colloca in una solitudine morale che ha dell'inconsueto, visto sotto il profilo di poesia. Il drogato, il detenuto, il malato hanno le loro colpe, ma con molta umiltà, Ruffilli osa dire che trattasi ugualmente di creature (fatte a immagine .di Dio), evidentemente minate dal Male, dalla sofferenza, dal degradò del loro stesso peccato, e vittime di un male oscuro che li annienta, perciò sono soggetti a misurarsi col giudizio del mondo, non nel senso della condanna, ma forse, del perdono, per quella legge divina e quel senso di umana compassione che sorge in prossimità di una colpa/peccato che origina in interiore homine e che ci rende schiavi del maleficio, del peccato originale o forse semplicemente schiavi dei nostri istinti, delle nostre miserie. Il tossicodipendente che cerca paradisi artificiali e necessita di dosi giornaliere di eroina, non è inquadrato in una ottica di colpevolezza volontaria, ma nella tragica fatalità dei suoi fantasmi interiori, nella drammatica incapacità di dominare istinti equilibrati e consapevoli del male che fa a se stesso e alla società in cui vive; il detenuto che misura i centimetri quadrati di cella viene intravisto come incapace di rapportarsi con gli altri, ma vi è in lui la pena ineludibile della devastazione, vi è chiara e nitida la certezza del non ritorno, la disperazione del soggetto in preda ai suoi istinti produce un guasto irreparabile. Ma dinanzi all'inevitabile sciagura dei suoi codici morali inesistenti, le intemperanze umane di chi è fuori dalla realtà appaiono scontate e, se proprio non c'è il perdono da parte del poeta, quantomeno se ne avverte un malcelato pudore in difesa dei deboli, degli incapaci d'intendere, una volontà, quella di Ruffilli di capire a fondo e di scavare nella coscienza dei diseredati, degli inetti, degli incapaci che la sventura ha reso schiavi e sordi al Bene dell'intelletto. Ruffilli si fa carico della loro umanità ferita, della disperazione e della solitudine che urlano dalle cellule più nascoste della loro carne martoriata dalla violenza, dal disgusto, per la deprivata libertà. Non li giustifica, ma dal suo punto di vista (magari discutibile), li svuota e li depaupera da ogni dannazione, come può, umanamente, senza strilli di tromba: solo Dio, in verità, ha facoltà di giudicare i peccati e perdonare o condannare. Agli altri spetta capire, interagire con la forzatura degli squilibri interiori, contrastare il danno, afferrare la piena consapevolezza di comportamenti fuori controllo, e analizzarli per le ragioni di una dignità che ha prodotto il buio assoluto, senza tradurre i propositi, i pensieri, i vuoti lasciati dall'orrore, che in quest'opera davvero tracciano linee inusuali dentro la sofferenza e il dolore del mondo. Ruffilli in verità mi pare assai attratto da problematiche sociali che hanno la vischiosità densa degli squilibri psicologici, del disagio morale e psicologico. Di qua vi è il mondo libero, la parte meno lacerata dalla compromissione, al di là dei cancelli e delle mura uno spaccato di vita che ipotizza la morte civile, l'anticamera dell'inferno con sollecitazioni emotive che rasentano la pazzia, il suicidio, la frammentazione della mente. Scava il poeta fra le rovine e le macerie fisiche e morali, fra assenza di coscienza e realtà conseguenti alla perdita di ogni diritto, lo fa con dovuta cautela, senza pregiudizi, con mano leggera, ma decisa, quasi sfiora il loro meccanismo di difesa, ma si ritrae dall'interferire sulle colpe vere o presunte, sulle inclinazioni efferate dei loro comportamenti scorretti. Con passi felpati e trepida, umana, ponderatezza e misurato distacco non interviene sulla patologia del male che scippa la parte migliore di ogni individuo condannato, suo malgrado, a pagare il suo debito alla giustizia. umana, non enfatizza sulla personalità deviata dei soggetti in essere, non esplora il luridume dell'uomo, la sua imperfezione, le sue miserevoli sorti, le motivazioni vere o proditorie dei suoi impulsi, ma descrive con minuziosa sapienza il correlativo oggettivo, la disperazione, l'esclusione, l'intolleranza sociale, lo sa fare con tutta la levità del poeta, un poeta non elegiaco, direi quasi antilirico, che si appresta a parlare di profonde perdite di coscienza, di alienazione e di nefandezze. Non è materia comunemente trattata dalla poesia, quella che ci apprestiamo a leggere, la trattano i criminologi, gli psichiatri, gli scienziati per sondare i meandri bui dei soggetti presi in esame. Ruffilli tratta l'argomento con precisa e netta interpretazione. Le voragini sono abissali, il disagio si tocca con mano. È una poesia che quasi toglie il fiato per la fatica di restare aggrappata alla vita, pur con le sue compromissioni e i suoi tormenti. L'esistente talvolta sconvolge ogni immaginazione, l'epilogo di fatti tragici, i drammi più inauditi interferiscono sulla psiche umana, condannando gli esseri umani alla più atroce abiezione, la vita di tali condannati è vita di seconda categoria, sono figli di un dio minore, apparentemente deviati dalla società che li esclude, senza regno né casa, soli, in balìa di se stessi e dei loro deliranti fantasmi. Ruffilli ne sottolinea le emozioni più intense, le lacerazioni, ne avverte tangibilmente le loro umilianti condizioni di vita. Si cala come nessun'altro nella devastazione, nel rogo delle loro coscienze mutilate e nei territori insondabili della loro vulnerabilità, lo fa con la misericordia e umana comprensione dovuta a chi azzera ogni risorsa, con l'accento coraggioso e fideistico di una pietas che di più non potrebbe toccare le corde del cuore. Un poeta decisamente antilirico che sa esprimere con lucidità e virile distacco, senza forzare la mano, senza ergersi a stucchevoli tribune di giudizio, senza snaturare o fraintendere fra colpa e responsabilità, capitalizzando la conservazione del fattore morale ed etico, quel lato buono che è il residuo ancestrale di ognuno, Ruffilli lo espone con dovizia d'intenti, senza biasimo o disprezzo, ma con l'intenzione di andare a scavare nei territori impervi del vizio, della corruzione, della dannazione, quasi a estrarne il poco rimasto, dentro le inadempienze del percorso terreno, irto, franoso, avaro di felicità. In tanto mesto sfacelo, qualcosa trema nel verso, resta muto il cuore e non indifferente all'ascolto che pone momenti di grande accento lirico nelle suggestioni emotive di un mal di vivere che pare come una spaventosa desertificazione dell'uomo. Versi che sanno trovare la sorgente del cuore e dell'intelletto per farsi intendere in tutta la loro drammatica verità: "so nel vivo | per ogni grammo di piacere | i quintali di dolore | di vomito e di noia | che è costato |. Per tanto Paradiso | quanto inferno di più ho attraversato". Fa parlare il detenuto (si capisce), ma Ruffilli, da par suo, sembra intenzionato a far poesia anche dai torsoli di cavolo, anche dalla devastazione del male può nascere qualcosa di bello, di buono e Ruffilli sembra volerlo scovare, misurarlo all'inferno della Terra. Esemplificativi questi versi: "Quaggiù sono lettera morta | in basso regna | l'abiezione. | Il male non si vuole, | semplicemente è". Conclude Ruffilli auspicando la sua ferma convinzione che qualche episodio di luce può ancora venire in soccorso dei deboli, degli sconfitti, degli alienati, qualcosa che possa sublimare o rendere comprensibile la materia imperfetta, ridurre il guasto, la condizione miserevole dell'uomo a fronte del suo Male. |
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