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Poesie scelte
Per collocare
temporalmente e spazialmente William Cliff, nome de plume di André
Imberechts, nato nel 1940 si possono utilizzare all’uopo dei suoi versi
autobiografici «sono belga, omosessuale, e vivo a Bruxelles, una metropoli
europea» da cui traspare la fierezza per la terra natale e l’orientamento
sessuale, come dovrebbe essere per chiunque aggiungo.
Già dai primi
versi si è tentati di annoverarlo nella scuola dei poeti maledetti, cui la
lingua francofona lo accomuna. Difatti la raccolta si apre col botto: la lirica
“Amarsi” evoca inequivocabilmente l’atmosfera della poesia Spleen
di Baudelaire, in cui l’animo struggente viene soverchiato dai semplici
segnali ambientali (“l’acqua abbattendosi dal cielo colpisce” e “nuvola
ammassate come per soffocare”) con cui l’uomo convive dall’origine, ma se ne
differenzia per i versi finali, dove non viene piantato nel cranio del lettore
il vessillo nero dell’angoscia, ma piuttosto sono versi che infondono nell’anima
una tenera promessa d’amore: “ e a me piace immaginare che ci amiamo, che ci
amiamo”.
La poesia di
Cliff descrive, con l’occhio graduato del poeta – il poescopio – scene di vita
quotidiana, come nella produzione in versi “Aspettare ancora” in cui
sardonicamente, e mirabilmente, è narrato un appuntamento mancato, in cui
l’aspettativa (“un bicchiere di birra avremmo preso”) si trasfigura nel finale
(“Un bicchiere di amara pena mi bevo adesso”) in un’afflitta constatazione
(“Abbraccerò il cuscino al tuo posto”).
Altra azione
scenica ordinaria è rappresentata in un bar mezzo vuoto in cui il poeta si
ritrova seduto e disilluso: “e io non troppo convinto sto qui e aspetto /
aspetto il grande amore / al quale da tempo non credo più affatto” alla ricerca
bulimica di avventure carnali che non riescono a soddisfarne la fame di amore, a
cui ormai non crede più.
Rispetto ai
poeti maledetti, espressione di un’altra epoca, l’autore, con ostentato e fiero
modernismo, non si vergogna della propria condizione, assunta come naturale,
come d’altronde dovrebbe essere in ogni epoca e luogo e come già i poeti della
seconda metà del novecento americano ci avevano sfacciatamente insegnato.
L’azione
scenica ordinaria descritta poeticamente, di cui si disquisiva, si svolge
precipuamente nel ctonio della società, “serbatoio di lerciume” come lo descrive
senza ostilità e vilipendio il nostro, come ad esempio in “vecchi bordelli dove
le puttane mostrano i seni flosci / ai ragazzini per meglio informarli del loro
destino” in “Quartiere nord”, a dimostrazione della caducità e
dell’abiezione delle esistenze di cui Cliff è conscio e ci vuole far partecipe.
Ma è soprattutto in “Coito” che l’autore sembra ci faccia compartecipare al suo
amplesso, solidali con gli umori e gli odori propri condizione bestiale umana,
vista non come malattia o condizione inferiore, ma come stato rilevato
dall’essere reale con cui è obbligo confrontarsi con l’aiuto della poesia.
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Recensione |
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